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Per una rivalutazione della ricerca scientifica in Italia

Paolo Pupillo

Stiamo uscendo, forse, dal momento apicale della peggior crisi economica, sociale e sanitaria che si ricordi negli ultimi cent’anni e i giornali sono pieni di auspici o raccomandazioni su ciò che il Paese dovrà fare in futuro per risollevarsi e per non ricascarci, con quello hashtag “niente sarà come prima” che va a fare il paio con l’iniziale (e surreale) “andràtuttobene”. La “scienza” è tornata al centro della scena, i politici contano quanti malati occorrono per infettarne un altro e i luminari si contendono la ribalta spiegando al popolo che deve lavarsi le mani … e infatti il consumo di acqua e di plastiche usa e getto è aumentato esponenzialmente. Manca, come sempre, l’uso ragionato della scienza vera: la scienza diffusa, vasta, popolare, quella che dà a ciascuno di noi una percezione immediata e autonoma degli eventi, delle probabili verità e delle sciocchezze. Quello che solo una scuola di qualità può assicurare a tutti, o a una maggioranza; farne cittadini consapevoli, non marionette in balia dell’ultima novità da smartphone.

Com’è indietro la scienza diffusa in Italia, ragionavo in questi mesi. Non che manchino i ricercatori e neppure i centri di ricerca, le università sono abbastanza buone, tanti studiosi italiani formati qui da noi si recano all’estero dove si distinguono nella ricerca scientifica, e in fondo che male c’è in questo fenomeno, nella “fuga dei cervelli”? Non esiste forse un ambiente sovranazionale della scienza creato apposta per superare le antiche barriere, ridare slancio alla ricerca della vecchia Europa in affanno e offrire maggiori opportunità ai giovani? Certo, ma la domanda è: l’Italia fa qualcosa di serio per trattenerli?
Perché se guardiamo dentro alle cose senza infingimenti, il problema non è di oggi. Un giorno ebbi occasione di entrare nel rettorato di una cittadina tirolese chiamata Innsbruck e vedo alle pareti dell’atrio una fila di ritratti di premi Nobel per la chimica che lì hanno servito. Poi vidi il rettorato di Strasburgo, in Francia, altra sfilza di Nobel per la fisica, e a Friburgo in Germania… Ma come, vien da riflettere, e gli Italiani vincono dei Nobel (20 in tutto) per materie scientifiche? Non troppo male con la Fisica 5 su 20 (da Marconi 1909 a Fermi 1938, Segré 1959, Rubbia 1986, Giacconi 2002) e nemmeno in Medicina con 6 (da Golgi 1906 a Bovet 1952, Luria 1969, Dulbecco 1975, Levi Montalcini 1984, Capecchi 2007), non fosse che molti di loro hanno operato in prevalenza altrove per scelta o per necessità (le cosiddette “leggi razziali”). Ma è mai possibile che abbiamo un solo vincitore in Economia (Modigliani 1985) e in Chimica (Natta 1963), con la quantità di economisti e di chimici che sono passati per le nostre università e il CNR? Della biologia non parlo non esistendo Nobel ad hoc, in quanto all’epoca di Darwin e di Mendel non era nemmeno considerata una scienza e non aveva ricevuto il suo nome (ma è una bella mancanza, anche se chimica e medicina suppliscono in parte!). Ma insomma converrete che un primo sintomo c’è: pochi Nobel per una nazione che era stata prima nella cultura e nella scienza in un passato lontano, e oggi si scopre ad arrancare in tutti i campi. Perciò una cosa andrebbe detta a gran voce agli italiani e a chi li governa a vario titolo e livello: senza una cultura e una scienza diffusa, almeno in vasti strati della popolazione, non c’è speranza di ripresa per l’Italia. La globalizzazione non farà sconti, se non ci si prepara ad essere competitivi in tutti i settori. Dall’ambiente all’informatica alle tecnologie.

Non c’è questa consapevolezza, purtroppo. Per il “rilancio” post CoVid leggo la dichiarazione della viceministra Laura Castelli, torinese, che indica in “turismo, ristorazione, made in Italy” le priorità da rifinanziare; e dispero. O se no il coro greco di quanti invocano, panacea d’ogni male, le “grandi infrastrutture” (tri-quadriplicazione di autostrade col fatale completamento della famigerata PiRuBi, pedemontane, trasversali di pianura e gronde a grandine, alte velocità e trafori a pioggia: forse per scongiurare tutto ciò parlava d’altro la sig.a Castelli) con tanto di commissari ad acta per l’inevitabile “abolizione della burocrazia”; e qui si intende l’evirazione finale delle soprintendenze, già ora semivive, con ogni residua remora ambientale paesaggistica. Già si rivedono cose che credevamo d’un tempo che fu, sfasci brutali come in questi giorni quello del piccolo Lago Santo di Cembra, delizioso e remoto SIC ridotto a spiaggia tipo Alassio con rive di ghiaia. Mentre si buttano i pochi soldi a palate in grandi imprese spesso inutili o dannose, i nodi di fondo restano sempre gli stessi. Una nazione in cui si sono sottratti linearmente fondi e posizioni alla sanità, alla scuola, all’università e alla ricerca: se ci dicono che l’Italia spende troppo, mentre gli evasori assommano alla metà dei contribuenti al fisco, noi tagliamo il 10% a quello che funziona e avanti così.

Certo, gli ultimi avvenimenti hanno convinto tutti o quasi che la sanità non può essere smantellata e richiede personale qualificato, investimenti adeguati, un’idea del futuro. Come diceva giorni fa il ministro della sanità della Repubblica Federale di Germania Jens Spahn, parlando con legittimo orgoglio della difesa tedesca dal virus: la tutela della salute crea lavoro qualificato, progresso scientifico e occupazione. Se facessimo così anche noi, i medici tornerebbero a fare i medici, gli infermieri gli infermieri, biologi e i farmacisti i rispettivi mestieri, i sofisticati macchinari di diagnosi e cura sarebbero rifinanziati e aggiornati.
Ma la necessità di un ripensamento complessivo (verrebbe da dire “un nuovo modello di sviluppo”, ma fa un po’ ridere quasi 50 anni dopo la vacua voga di quella vaga terminologia), investe molti altri settori vitali per l’Italia e il suo posto nel mondo. Le arti, i beni culturali, l’archeologia, di cui abbiamo patrimoni favolosi che si possono meglio salvaguardare e, questi sì, valorizzare: vedere per credere il rilancio del complesso di Pompei o della reggia di Caserta. Le materie tecnologiche d’avanguardia naturalmente, oggi la fisica e l’informatica, l’intelligenza artificiale, su cui l’Europa investe molto, ma sempre con un occhio prevalente a finanziare le imprese più che ai contenuti scientifici. La nuova chimica e la farmaceutica molecolare, non solo in funzione delle pandemie che ci sono e che verranno: ma anche della sanitazione dell’ambiente dalla “vecchia” chimica, un compito gigantesco a cui ogni Paese che si voglia dire avanzato dovrebbe attendere con priorità assoluta. L’energia, in primis quella da risparmiare. Le centrali nucleari (e non) da dismettere, riconvertire, smantellare. L’enorme questione irrisolta dei rifiuti, che va affrontata con indipendenza di giudizio e innovazioni tecnologiche adeguate, senza più pensare di risolverla trasferendola sull’estero. Tutto questo ha a che fare con la questione centrale delle questioni, che è quella climatica. L’elenco delle cose da fare in un domani che si voglia rendere “sostenibile” - e scusate quest’uso appropriato di un temine di cui si fa abuso - è immenso e qui si può solo accennare a qualcuna delle grandi tematiche aperte, su cui il Paese intero dovrebbe confrontarsi per un rilancio che torni a renderlo protagonista. O, se non si arriva a questo, almeno ne faccia un soggetto sano che non sia da trattare come un paziente sintomatico, come l’Europa sta (giustamente) facendo con l’Italia.

Una considerazione merita la massima attenzione, a mio avviso: non basta privilegiare la ricerca “eccellente”, come fanno in tutta Europa e come si è voluto fare in questi anni in Italia (al solito modo, s’intende): è la ricerca di base buona e diffusa quella che crea sviluppo e progresso. Oggi occorrono più ricercatori, mentre si è abolita e svuotata la categoria nominale e si è resa la vita più difficile ai giovani. Occorre un finanziamento adeguato della ricerca, attingibile da qualsiasi proposta razionale e innovativa anche se non necessariamente giudicata “eccellente” - che poi è termine largamente autoreferenziale. Una volta si diceva: piove sempre sul bagnato… ma una simile zonizzazione delle piogge è evidente che non aiuta gli assetati. Fuor di metafora, non ha davvero senso concedere fondi a una proposta di ricerca su venti. Occorrono poi valutazioni obiettive non influenzate da appartenenze politiche, logge o altre lobbies, e soprattutto senza confini disciplinari invalicabili. Voglio dire: noi siamo sempre stati quelli delle conventicole che si scambiano favori all’interno di un orticello chiuso. Col risultato di non aprire veramente all’innovazione, al confronto, alla visione di ciò che si fa in campi attigui o all’estero, al pieno riconoscimento dei valori dei vicini di casa. Una chiusa settorialità, come il localismo, come il familismo, non possono portare a reali avanzamenti. Ancora oggi le avare porte della scienza in Italia si aprono prima per gli italiani, con svantaggio per l’Italia.

Ma torniamo al nostro primo scopo come Federazione Pro Natura, che è non solo scopo sociale ma impegno individuale: esso sta principalmente nella Natura e in tutto ciò che la riguarda. E qui un minimo di bilancio va fatto. Dalla grande novità della legge 394 in poi, con la fioritura dei parchi nazionali e la creatività delle Regioni in campo ambientale, ci siamo illusi che vincolare il 10% del territorio nazionale avrebbe finalmente assicurato la tutela complessiva del territorio, di animali, piante, microrganismi, la conservazione del paesaggio che da tutti questi fattori nasce con l’apporto dell’uomo, e quindi la tutela della storia stessa del paesaggio. Abbiamo creduto che i fattori di disturbo e distruzione si sarebbero attenuati da soli col crescere dell’acculturazione e del benessere. Negli ultimi anni ci siamo resi conto che non è così. Regioni ed enti locali sono sempre più orientati alla rincorsa sfrenata alla “crescita” ad ogni costo (il piccolo esempio del Lago Santo di Cembra ne è una ennesima prova), con sguardo miope e scarso successo; le leggi urbanistiche vengono svuotate e irrise, l’agricoltura e l’allevamento industriale dilagano con labili e flebili misure di contenimento dei danni all’ambiente ed alla biodiversità. E le aree protette? Queste servono soprattutto a fare business.
No, qui ci vuole una inversione di tendenza. La ricerca va rilanciata, con priorità sull’ambiente e sulla biodiversità: che oggi col venir meno di ogni supporto pubblico sono diventati dominio di volontari e pensionati che per indagare e tutelare i nostri preziosi beni naturali, gli animali e le piante, le foreste e i prati, ci mettono molto del proprio tempo, lavoro e soldi. Che lo Stato e le Regioni dunque riprendano il loro compito primario di conservare il territorio dando anche ossigeno alla ricerca naturalistica, e a quella ricerca che cerca soluzioni tali da annullare l’uso nefasto della chimica in agricoltura, salvando gli insetti dallo sterminio in atto. Di questo si deve parlare, anche, quando si fanno proposte per lo sviluppo, l’occupazione, la benedetta “crescita”: che il bene pubblico primario, la Vita, riprenda il suo ruolo primario nel dibattito pubblico; con tutto ciò che ne deve conseguire.

La scuola e le scienze naturali al tempo del coronavirus

Mauro Furlani

In questi mesi di forzata segregazione e di sospensione di molte attività si è parlato diffusamente degli effetti che la prolungata sosta potrà avere, oltre che sul tessuto produttivo, anche su quello sociale, economico e più in generale sul futuro del Paese.
Ripartenza, ripresa, sono forse i termini più usati, come se si fosse trattato di una sosta forzata del tutto accidentale, con la certezza che da lì si ripartirà, esattamente da dove ci si è fermati, e, soprattutto diretti nella stessa direzione verso cui stavamo andando.
Crediamo che così non sarà, così non dovrebbe essere. Seppure quanto accaduto non ci abbia insegnato molto, gli eventi difficilmente ci consentiranno di percorrere la stessa direzione.
Il meccanismo trituratore dell’informazione, diventato spettacolo, protratto per mesi, oltre che numeri, statistiche e curve esponenziali, ha macinato e fagocitato anche la scienza che oltre a trovarsi impreparata rispetto a questa pandemia, ancora più disarmata è apparsa a resistere all’assalto mediatico a cui è stata sottoposta. Scienziati consultati come oracoli, dalle cui parole sembrava far derivare il futuro, si sono spesso sottoposti ad una sovraesposizione mediatica a cui non erano preparati.
La vanità personale, il momento di ribalta mediatico ha soppiantato spesso la cautela, il rigore scientifico e un linguaggio misurato che l’incertezza dei dati e l’imprevedibilità delle proiezioni avrebbe richiesto.
Dal dibattito, scienziati diventati improvvisamente nuovi protagonisti di talk-show, in contraddizione frequente tra loro, sono rimasti lontani o assenti due soggetti: l’ambiente e il sistema dell’istruzione.
Entrambi sono cardini di un nuovo assetto i cui fatti ci costringono a considerare e a porre al centro di modelli di sviluppo; la pandemia ha solo reso ineludibile e stringente questa necessità.
Le alterazioni dell’ambiente naturale, la sua usurpazione, e dunque l’inderogabile riconciliazione, dovrebbero essere poste al centro di ogni piano di sviluppo; al contrario, la tutela ambientale viene percepita come un fastidio, un impiccio nella ripresa di un cammino interrotto.
Se di ambiente altri riflettono su queste pagine, la scuola e l’istruzione meritano un primo approfondimento e una prima riflessione.

Quali saranno gli effetti che produrrà per il futuro dei ragazzi questo loro allontanamento forzato dai luoghi che gli sono più familiari, non credo sia al momento valutabile.
Per quanto riguarda l’istruzione una grande energia è stata destinata ad affrontare il contingente: come proseguire le lezioni mantenendo coesione di intere generazioni con l’istituzione scolastica; con quali modalità e precauzioni sanitarie affrontare gli esami nei vari ordine di istruzione; come valutare gli esiti didattici di uno studente la cui partecipazione al processo formativo è stata solo virtuale.
Qualche proiezione è stata fatta in merito alla ripresa della didattica del prossimo anno. Nessuna visione prospettica, nessuna riflessione in merito agli effetti culturali e le ricadute che l’assenza del contatto fisico, del confronto culturale, generazionale, spesso assente in famiglia, potrà avere per il futuro, soprattutto se questa situazione riapparirà e si protrarrà anche nel prossimo anno scolastico.
Attraverso la scuola, con i suoi studenti, passa la visione del futuro, quella di un paese e del mondo. L’istruzione dei giovani pone orizzonti ampi con ricadute nei decenni.

Nei mesi precedenti lo scoppio della pandemia, pur con mille contraddizioni, questo soggetto giovanile si è reso visibile e protagonista con le manifestazioni per il clima e per l’ambiente, che proprio all’interno del mondo della scuola ha trovato la sua coesione.
Questo incrina anche un’altra certezza, quella di coloro che riteneva questi movimenti giovanili altro non fossero se non una estensione del mondo virtuale autoalimentato dalla rete.
I fatti dimostrano che non era così, o forse non solo così. Il luogo fisico di aggregazione, di scambio di idee, di emozioni, non era la rete. Al contrario, durante questi mesi di isolamento, l’uso di strumenti informatici, pur avendo avuto una forte espansione, non è riuscito a sostituire i luoghi fisici di aggregazione e di discussione reali, come avviene nel mondo della scuola.

È proprio all’interno di questo insostituibile spazio fisico e culturale che può maturare il confronto di idee, la consapevolezza e, attraverso il confronto, lo studio e anche lo scontro, la crescita.
Da parte di molti, mai come in questo periodo è stata forte la tentazione, per sfuggire alle ansie di una situazione nuova e angosciante, rifugiarsi in spiegazioni e in atteggiamenti irrazionali.
Quanto è emerso non è stato solo una carenza di informazione, ma il riemergere di dogmatismi mai sopiti, che evidenziano una carenza di base nella cultura naturalistica e scientifica, un deficit culturale di questo Paese. Come spiegare altrimenti l’acuirsi di fobie e ostilità, ad esempio nei confronti dei pipistrelli, ritenuta essere stata la specie serbatoio dalla quale il virus pandemico ha effettuato il salto, lo spillover? Fenomeno questo che può essere anche vero ma che non può certo accomunare tutte le specie.
Addirittura analoga fobia irrazionale ha coinvolto anche i nostri animali domestici, cani e gatti, il cui abbandono è aumentato significativamente.

Quando nel 1963, grazie anche alla spinta del nascente Movimento per la Protezione della Natura, venne reintrodotto in tutte le scuole l’insegnamento delle Scienze naturali, emarginato dal regime fascista, questo insegnamento rispondeva ad una nuova sensibilità naturalistica prima che ambientalista.
Questa emarginazione della cultura scientifica, in particolare delle scienze naturali, ha origini ancora più profonde rispetto a Giovanni Gentile, che le mise in atto con la riforma scolastica durante il regime fascista. Benedetto Croce così si espresse:
“Gli uomini di scienza (...) sono l’incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all’organismo filosofico-storico” (da “Il risveglio filosofico e la cultura italiana”, 1908).
Per riportare questo insegnamento nelle nostre scuole un ruolo centrale lo ebbe proprio Alessandro Ghigi, il cui percorso scientifico e personale, con luci e ombre, si interseca profondamente con quello della Federazione. Il suo giudizio rispetto alla Riforma Gentiliana, almeno rispetto alle scienze naturali, era netto e senza appello “eliminò dalla cultura italiana la conoscenza della natura”.

Il ripristino delle Scienze naturali ha restituito dignità a questa disciplina, senza tuttavia mai farle raggiungere il peso formativo di altre ritenute più centrali, quali la fisica, la matematica e in parte la chimica. Nonostante questo ritrovato interesse per le scienze, l’eredità gentiliana della netta separazione tra il mondo umanistico e quello scientifico ancora oggi fa fatica a trovare un momento di sintesi e di riappacificazione. Le scienze naturali, per questa loro collocazione a cavallo tra le due, potrebbero rappresentare quel ponte culturale tra due mondi che ancora oggi stentano a riallacciare un legame e un dialogo.
Le scienze naturali, nelle loro indagini e argomentazioni, utilizzano sia strumenti tipici delle discipline scientifiche cosiddette dure, sia strumenti tipici delle discipline storico/umanistiche. Si pensi al riguardo alla formalizzazione matematica applicata all’ecologia di popolazione, esattamente un secolo fa dal matematico Vito Volterra, oppure interi volumi, senza neppure una formula matematica, dedicati alla definizione del concetto di specie.
Questa contraddizione non si è mai del tutto sanata, anzi, le scienze naturali, spingendosi sempre più in campi biochimici, si sono ulteriormente allontanate da quello studio della natura e dell’ambiente da cui sono nate.
Del tutto emarginate dall’insegnamento attuale sono le discipline più direttamente afferenti allo studio della natura, degli ecosistemi, della biodiversità e alla comprensione delle dinamiche e delle interazioni tra dimensione antropica e naturale.
La biologia divenuta sempre più lo studio e l’insegnamento dell’infinitamente piccolo, in una dimensione estraniante dalla sperimentazione. Il microscopico non legato al macroscopico.
I pochi timidi tentativi che la scuola aveva cercato di portare avanti in questi anni, rispetto ad una innovazione non solo metodologica, ma anche didattica con l’apertura a tematiche come quelle dello studio dell’ambiente, sembrano al momento quasi completamente azzerati, sopraffatti dal contingente. Lo studio della natura ha bisogno di esperienze reali, di confronto, di sperimentazione laboratoriale e osservazione sul campo e quel poco che la scuola stava portando avanti è stato brutalmente interrotto.
L’allontanamento delle scienze della natura dal vissuto quotidiano, alienando le discipline sperimentali dell’approccio emozionale ed empatico, mina profondamente una acquisizione consapevole.

Certo, la tecnologia offre numerosi strumenti didattici, incrementati notevolmente in questi ultimi tempi sotto la spinta della necessità didattica. Tuttavia l’assenza del contatto fisico con l’oggetto della sperimentazione attenua quel saper fare e quel coinvolgimento emotivo e partecipato che dovrebbe accompagnare il sapere teorico.
Se la normale frequentazione degli spazi didattici riprenderà in tempi brevi, già dall’inizio del prossimo anno, gli effetti dal punto di vista educativo e culturale potranno essere limitati. Al contrario, se l’anno che si aprirà presenterà le stesse problematiche vissute nell’ultima parte di quest’anno, queste potranno incidere in profondità sui livelli culturali di queste generazioni con ferite profonde e forse non rimarginabili.
L’educazione ambientale che ogni Ministro negli ultimi anni ha interpretato in genere come una sorta di educazione alle buone abitudini ambientali, e quasi mai come scienze dell’ambiente, come scienza dotata di una propria metodologia di indagine, dovrebbe diventare strumento di formazione insostituibile, con un suo apparato teorico in grado di legare attorno a sè tutte le altre discipline. Ricongiungendo quell’unico sapere che dai due rami principali, umanistico e scientifico si è poi diramato ulteriormente in mille rivoli perdendo di vista i punti di partenza.

La paralisi del sistema scolastico fa emergere anche un altro problema, ben noto, ma sempre accantonato e ora non più eludibile, quello degli spazi fisici dentro i quali la didattica è praticata. Spazi fisici e strutture scolastiche spesso inadeguate, sia ad assicurare il distanziamento che il Covid-19 obbligherebbe, sia a sviluppare una didattica adeguata.
Un piano di rilancio del sistema produttivo del Paese dovrebbe ripartire proprio dalla centralità del sistema dell’istruzione, da una ridefinizione dei contenuti didattici ma anche degli spazi all’interno dei quali questi contenuti sono discussi ed elaborati, accantonando definitivamente quelle infrastrutture faraoniche che ciclicamente, come un fiume carsico, riemergono.

Ripensare la mobilità e puntare sull'elettrico

Riccardo Graziano

Il 2020 verrà ricordato nelle cronache come annus horribilis, funestato da una pandemia di portata planetaria. Al tempo stesso, possiamo considerarlo un anno di svolta. Sono infatti in parecchi a ritenere che dopo questa drammatica esperienza il mondo non potrà più essere come prima. Ciò è vero sotto molteplici aspetti, tra cui quello della mobilità.
È possibile che, una volta usciti a fatica dall’emergenza sanitaria, dovremo abituarci a un mondo ridimensionato: la produzione industriale vedrà una marcata flessione, così pure probabilmente gli scambi commerciali e gli spostamenti in genere. Non possiamo infatti dimenticare che un’epidemia nata in Cina si è propagata per tutto il pianeta con una rapidità un tempo impensabile, a causa della globalizzazione che favorisce o addirittura impone un vorticoso spostamento di merci e persone. All’opposto, il rimedio più efficace per contenere il contagio è stato ridurre gli spostamenti. Finita la fase emergenziale, dovrebbe apparire dunque chiaro come occorra comunque ridurre gli scambi globali, tornando a filiere locali che avvicinino produzione e consumo, riducendo le necessità logistiche dettate dall’attuale modello mercantilista.
La riduzione degli spostamenti deve essere poi attuata anche a livello locale. Nei giorni di blocco forzoso imposti dalla quarantena abbiamo sperimentato le ampie possibilità del telelavoro, dell’istruzione da casa, delle conferenze e dibattiti da remoto, restando tranquillamente nelle proprie abitazioni, senza perdere ore nel traffico. Abbiamo capito che tutto ciò è più comodo, più efficiente, più economico. E abbiamo riscontrato che può produrre una riduzione dell’inquinamento con una rapidità e un’ampiezza che non immaginavamo.

Naturalmente, è impensabile continuare così sul lungo periodo: scuole, uffici, fabbriche dovranno riaprire, le persone dovranno tornare a muoversi. Ma con una visione differente, sapendo che molti spostamenti potranno essere evitati, semplicemente collegandoci da casa tramite internet. Ne potrebbe conseguire una sensibile diminuzione del traffico privato, tale da favorire una valorizzazione del trasporto pubblico o della mobilità ecologica. Per capirci, un autobus non più imbottigliato nel traffico sarebbe in grado di portarci a destinazione in metà tempo, mentre potremmo (ri)scoprire la comodità e l’economicità di andare in giro in bici con maggiore sicurezza.
Nel frattempo, dovremmo rompere gli indugi e mettere compiutamente in atto quella transizione ormai avviata verso la mobilità elettrica, impiegando tempo e risorse per adeguarci rapidamente a un cambiamento inevitabile, piuttosto che per cercare di posticiparlo forzosamente. Prima che lo scoppio dell’epidemia stravolgesse ogni aspetto del nostro vivere, i segnali erano inequivocabili: dalle dichiarazioni degli addetti ai lavori all’interesse degli automobilisti, passando per le pubblicità, nella quali auto ibride ed elettriche comparivano regolarmente, tutto faceva capire che la direzione era quella. Anche il Salone di Ginevra, che a causa dell’epidemia già serpeggiante in Europa, si era svolto solo in modalità “virtuale”, aveva presentato svariati modelli con propulsione elettrica.

Dopo la quarantena, sia il Governo italiano che l’Unione Europea hanno deciso di puntare sulla mobilità elettrica, stanziando fondi ed emanando normative ad hoc. Analizziamo dunque  le prospettive di questa tecnologia ormai avviata verso una fase matura, evidenziando i suoi (molti) pro e (pochi) contro.
Dopo anni di ostracismo, fomentato dalle case automobilistiche tradizionali e dalle compagnie petrolifere che vedevano nell’auto elettrica un grave pericolo per i loro interessi miliardari, ora questo nuovo paradigma della mobilità sta prendendo piede e, nonostante resistenze preconcette e una inevitabile inerzia iniziale, arriverà a rivoluzionare il nostro modo di muoverci.
Intendiamoci: la mobilità elettrica non è e non sarà la panacea di tutti i mali, ma può produrre un sensibile miglioramento nella lotta all’inquinamento e al riscaldamento globale, grazie all’assenza di emissioni allo scarico e alla superiore efficienza rispetto ai motori termici. Argomenti che vale la pena approfondire, perché su questo c’è molta disinformazione, spesso voluta e non certo disinteressata.
Il testo di riferimento in materia è senz’ombra di dubbio la “Roadmap per la mobilità sostenibile”, pubblicato nel maggio 2017 sotto l’egida congiunta di tre Ministeri - Ambiente, Infrastrutture e Trasporti, Sviluppo Economico - alla cui stesura hanno partecipato tutti i “portatori di interesse”, compresi costruttori di auto e aziende petrolifere, oltre a produttori di energia, organizzazioni ambientaliste, enti statali e altro ancora. Dunque una pubblicazione che tiene conto di tutti i punti di vista e i cui dati possono essere assunti come certi e imparziali.

Per quanto riguarda gli inquinanti, vengono considerati più rilevanti il monossido di carbonio (CO), gli ossidi di azoto (NOx) e le polveri sottili (PM10 e PM2,5), misurati su cicli distinti individuati dalle sigle WTT (Well-to-Tank, dalla fonte al serbatoio), TTW (Tank-to-Wheel, dal serbatoio alle ruote) e WTW (Well-to-Wheel, in pratica la somma dei primi due). Prendendo in considerazione il ciclo TTW, ovvero quello che misura le emissioni delle automobili in marcia, pertanto il più rilevante per quanto riguarda l’inquinamento nei centri urbani, scopriamo che i motori a benzina, gpl e metano emettono molto più monossido di carbonio dei diesel, mentre questi ultimi emettono più ossidi di azoto e polveri sottili, particolarmente insidiose per la salute dei cittadini, fermo restando che le motorizzazioni più recenti hanno in generale emissioni inferiori rispetto a quelle dei motori più obsoleti.
All’opposto, i veicoli elettrici, semplicemente, NON hanno emissioni. Dal loro tubo di scappamento non esce nulla. Anzi, nemmeno ce l’hanno, il tubo di scappamento. Per questo possiamo dire che non è un semplice miglioramento dell’esistente, è proprio un radicale cambio di paradigma, come quando siamo passati dall’illuminazione con le candele alle lampadine. Con questa nuova tecnologia a disposizione, non ha più senso spendere milioni in ricerche tecnologiche per migliorare i motori termici, conviene invece investire per riconvertire le filiere alla produzione di veicoli elettrici.
E non è un caso se utilizziamo il termine “veicoli”. Perché è la stessa automobile intesa come mezzo di trasporto privato che verrà messa in discussione, in un mercato che sta lentamente transitando dalla mentalità del “possesso” a quella del “servizio”. Una modalità nuova, che abbiamo iniziato a conoscere col car-sharing, una delle nuove forme di mobilità condivisa, formula con la quale non si acquista più un mezzo proprio, ma la possibilità di utilizzarlo quando serve. Un passaggio necessario, perché la riduzione dei mezzi di trasporto individuali è fondamentale per abbattere gli inquinanti e rendere più vivibili le nostre città. Perché è vero che un’auto elettrica inquina infinitamente meno di una col motore a scoppio ed è anche più silenziosa, ma tiene lo stesso spazio nella circolazione e nei parcheggi. Meglio dunque incentivare il trasporto pubblico, purché sia ovviamente a sua volta elettrificato, sostituendo al più presto gli obsoleti bus a combustibili fossili.

Tornando alla mobilità individuale, non possiamo scordare che una parte rilevante del PM, il particolato fine che si insinua nei nostri polmoni, deriva dall’usura, sia quella provocata sulle “pastiglie” dall’utilizzo dei freni, sia quella degli pneumatici (e dello stesso asfalto) provocata dal rotolamento delle ruote. Problemi dai quali non sono esenti nemmeno le auto elettriche, che però godono di un enorme vantaggio, quello della frenata rigenerativa, che consente il recupero dell’energia cinetica come ricarica delle batterie, anziché dissiparla sotto forma di calore come avviene nei veicoli tradizionali. Un altro punto a vantaggio delle auto elettriche.

Ma prima ancora di tutto ciò c’è un altro aspetto fondamentale che fa pendere la bilancia verso il motore elettrico rispetto a quello a scoppio, cioè il suo miglior rendimento assoluto, ovvero la capacità di sfruttare meglio l’energia. I rendimenti dei motori termici migliori si attestano intorno al 30% per i benzina e 40% per i diesel, mentre i motori elettrici possono superare il 90%. Si tratta dunque di un sistema più efficiente di utilizzo dell’energia, che consente il risparmio sui consumi e di conseguenza minori emissioni inquinanti.
Naturalmente, sono in molti a far notare che l’energia elettrica occorre prima produrla. E qualcuno arriva addirittura a dire che se la si produce col carbone si inquina ancora di più che coi motori a scoppio. Indice di una mentalità fossile - nel senso di ancora troppo legata ai combustibili fossili – analoga a quella che non molti anni fa asseriva che le fonti rinnovabili “non potevano essere competitive”. Invece oggi sappiamo che lo sono, perché coprono ormai circa un terzo del fabbisogno energetico del nostro Paese e hanno anche raggiunto la grid parity, ovvero il pareggio di costo rispetto alle fonti fossili, come certificato a fine ottobre 2019 da Bloomberg, specializzato in stime finanziarie.

E a proposito di finanze, qualcuno ha iniziato a fare i conti su un parco vetture ormai significativo, giungendo a concludere che l’auto elettrica, a fronte di un maggiore esborso iniziale, consente risparmi notevoli, in grado di ammortizzare in pochi anni la differenza con i corrispettivi modelli termici. Un dato rilevante, perché sappiamo che nelle scelte di molti consumatori pesa più il portafoglio della coscienza ambientale o delle preoccupazioni per la salute collettiva.

L’auto elettrica costa davvero di più?

Riccardo Graziano

Il mercato delle auto elettriche in Italia è ancora una questione di nicchia, contrariamente a quanto succede in Norvegia, il Paese più avanzato in questo senso, dove queste vetture rappresentano ormai oltre un terzo delle nuove immatricolazioni.
Il mercato norvegese si è fortemente indirizzato in questa direzione grazie a cospicui incentivi statali, perché il Governo di Oslo ha scelto di puntare decisamente verso queste motorizzazioni meno inquinanti, fatto sorprendente se si considera che il Paese nordico è il maggior produttore petrolifero d’Europa (Russia esclusa), ma che denota la lungimiranza di una classe dirigente che progetta un futuro maggiormente ecosostenibile. Naturalmente, il successo dell’auto elettrica in Norvegia non sta solo nell’incentivo economico iniziale, ma anche nella soddisfazione degli utenti per il mezzo e nell’efficienza delle infrastrutture dedicate, ovvero la rete delle colonnine di ricarica.
Gli stessi fattori che, all’opposto, frenano la diffusione di queste vetture nel nostro Paese, dove gli utenti sono largamente influenzati da un’informazione che mette in risalto molto più le problematiche della mobilità elettrica rispetto ai numerosi vantaggi, peraltro “dimenticandosi” dei problemi ancor più rilevanti causati dalle motorizzazioni a scoppio. È per questo motivo, per esempio, che nell’opinione pubblica è più diffusa la preoccupazione di dover smaltire le batterie delle auto elettriche fra trent’anni, piuttosto che l’allarme per l’aria che respiriamo oggi nelle nostre città, appestate dalle emissioni dei motori termici.

In realtà, l’auto elettrica sconta certamente svariati problemi legati a una tecnologia agli inizi, ma la situazione sta evolvendo in maniera piuttosto rapida, anche se i più non se ne rendono conto, perché il sistema mediatico è ancora troppo sbilanciato a tutela delle energie fossili e delle vetture termiche e non mette in evidenza i progressi nel settore della mobilità elettrica.
Prendiamo le colonnine di ricarica: una delle obiezioni più frequenti di chi non si fida a comprare l’auto elettrica è che poi è difficile trovare dove ricaricare. In realtà, oggi in Italia abbiamo già più di 4.000 colonnine e ogni giorno se ne aggiungono di nuove. In Piemonte, per fare un esempio, si è passati dalle 2 (due!) del 2015 a circa un centinaio attuali, in poco più di quattro anni.
Ma il maggior freno all’acquisto di un’auto elettrica è la convinzione (errata) che costi enormemente di più di una vettura tradizionale. Questo sempre a causa di un’informazione sbagliata, ma anche perché a volte si identificano le auto elettriche con il leader di mercato, ovvero Tesla, azienda decisamente all’avanguardia rispetto a tutti gli altri concorrenti, che produce solo veicoli elettrici e dunque ha dovuto puntare su vetture di alta gamma per recuperare in tempi più brevi gli elevati investimenti che ha dovuto sostenere puntando su qualcosa di totalmente nuovo. È chiaro che, in questo caso, si tratta di auto non alla portata di tutti. Ma sarebbe come identificare il motore a scoppio con le Ferrari. In realtà ci sono elettriche per tutti i portafogli, grazie anche agli incentivi previsti per l’acquisto di vetture nuove e alla crescita di un mercato dell’usato con occasioni interessanti.

Ma il bello viene dopo l’acquisto, come dimostra un recente studio del Politecnico di Milano, lo Smart Mobility Report 2019, che mette a confronto i costi di gestione della motorizzazione elettrica e a benzina. L’analisi è stata fatta sul segmento “B” del mercato, quello delle utilitarie, dove le elettriche vantano diversi modelli. In effetti, si è visto che il prezzo iniziale di un’auto tradizionale di questa fascia è mediamente di 21.700 euro, mentre per l’elettrica si sale a 34.600. Una bella differenza, che però non tiene conto degli incentivi e del fatto che in tale cifra è ricompresa anche l’installazione di una wall-box, ovvero l’apparecchiatura per la ricarica domestica, che secondo l’indagine copre il 60% del fabbisogno di ricariche. Il resto è ripartito fra un 10% di ricariche normali, un 5% di “fast”, le ricariche veloci per quando si viaggia, e ben il 25% gratis, grazie alle colonnine di centri commerciali e strutture che le utilizzano come “bonus” per i clienti.
Con queste percentuali, si è calcolato che per una percorrenza annua di 11.000 km, al costo attuale dell’energia, l’esborso sarebbe di 283,8 euro, contro i 1.056 euro che si spenderebbero per fare lo stesso percorso a benzina, con un risparmio di 772,2 euro. A questo occorre aggiungere che, al momento, anche le polizze assicurative risultano più basse per i veicoli elettrici, che spesso godono anche di altre agevolazioni su base locale (esenzione dal bollo per 5 anni in quasi tutte le Regioni, parcheggi gratis in alcuni Comuni, ecc.). Non ultimo, i costi di manutenzione annua, ancora a favore dell’elettrica, mediamente 150 euro contro i 500 del termico.

Questi calcoli denotano un risparmio medio di 1.300 euro l’anno, in grado di ammortizzare nell’arco di dieci anni la differenza di prezzo iniziale, ma al lordo degli incentivi, come si diceva sopra. Se invece teniamo conto del bonus statale, il periodo di pareggio si dimezza a 5 anni. E va ancora meglio a quei cittadini che vivono in Regioni o Comuni che a loro volta erogano ulteriori contributi all’acquisto.
Nei casi più fortunati, si arriva al pareggio dopo un solo anno, nonostante l’apparente divario di costo iniziale, poi si è in guadagno per tutto il tempo di vita utile dell’auto, che è comunque meno soggetta a usura rispetto a una col motore a scoppio, grazie alla maggior semplicità costruttiva e di funzionamento dei propulsori elettrici che, tanto per fare un esempio, non necessitano del cambio marce.
Questo perché, come spiegherebbe un tecnico, il motore elettrico è sempre “in coppia”, dunque in grado di erogare in ogni istante il massimo della potenza, dalla partenza alla velocità massima. Caratteristica questa che consente accelerate brucianti e prestazioni sempre brillanti, il tutto nel più assoluto silenzio.
È proprio questo mix di potenza e comfort a far sì che chiunque provi a guidare elettrico, difficilmente torna indietro. Molti di coloro che si sono indirizzati su queste motorizzazioni per motivazioni “ecologiche”, per abbattere le emissioni, sono rimasti affascinati dalla insospettabile brillantezza delle auto “a batteria”. Dall’altro lato, chi non vuole rinunciare alla guida sportiva, può continuare a farlo con un minore impatto sull’ambiente.
Occorre solo quel pizzico di coraggio e determinazione necessari per fare un “salto” verso una tecnologia nuova, che richiede piccoli adattamenti rispetto a ciò a cui siamo abituati. Ma oggi il fattore economico potrebbe indurre molti a prendere seriamente in considerazione questa opzione, ormai uscita dalla fase pionieristica.

E poi, se proprio non ci si osa a fare il “grande balzo in avanti”, un’ottima soluzione di transizione può essere una vettura Phev, cioè l’ibrida con entrambi i motori, termico ed elettrico, ma anch’essa ricaricabile alle colonnine. Un modo per entrare nel nuovo paradigma della mobilità elettrica, con la sicurezza di non rimanere a piedi per mancanza di colonnine, grazie al motore a scoppio, da utilizzare il meno possibile, ma utilissimo per non soffrire di “ansia da ricarica” come a volte capita agli elettrici puri.

Le ricariche per viaggiare elettrico

Riccardo Graziano

Chi ha scelto di viaggiare in elettrico ben di rado è disposto a tornare all’auto tradizionale, anche se ha dovuto subire qualche inconveniente. Ma chi non si sente di compiere questo passo trova svariate motivazioni per non farlo. Una di queste è la difficoltà a ricaricare l’auto quando si è in viaggio, problema che ridurrebbe le autonomie, aumenterebbe i tempi di percorrenza e, in definitiva, impedirebbe di compiere lunghi percorsi. Questo perché mancherebbero le infrastrutture di ricarica pubblica, le cosiddette “colonnine”. Ma le cose stanno davvero così?
Questa situazione era in effetti vera qualche anno fa, ai tempi in cui optare per l’auto elettrica era davvero pionieristico, qualcosa a esclusivo appannaggio di pochi temerari o di chi possedeva comunque un’altra auto con motore a scoppio, per ogni evenienza. Ma le cose sono cambiate piuttosto in fretta e tuttora sono in rapida evoluzione. Per fare un esempio concreto, nel non lontano 2015 in tutto il Piemonte esistevano 2 (due!) colonnine pubbliche per la ricarica, in un centro commerciale poco fuori dal capoluogo. Oggi, se ne possono contare all’incirca un centinaio, distribuite su tutto il territorio regionale. Un incremento analogo può essere registrato nell’intero Paese, anche se con differenze a volte rilevanti fra Regione e Regione.

Di questo passo, fra non molto le infrastrutture per la ricarica elettrica saranno più numerose e soprattutto più capillari dei distributori di carburante.
Concentriamoci un attimo su questi ultimi: il nostro modello di sviluppo, incentrato sulla mobilità privata o comunque su gomma, ha imposto la diffusione massiccia dei distributori, tanto che oggi li diamo per scontati. In realtà, agli albori della mobilità automobilistica, non era affatto così. I pionieri delle quattro ruote avevano problematiche di rifornimento analoghe a quelle dei primi automobilisti “elettrici”, tant’è che per avventurarsi fuori città spesso si portavano delle taniche di riserva. Solo dopo sono arrivate le “infrastrutture” di supporto, ovvero la rete dei distributori, che consentono alle auto con motore a scoppio di spostarsi senza problemi di rifornimento.
Tuttavia, se analizziamo le cose in maniera oggettiva, prescindendo dallo status quo, ci rendiamo conto che non si tratta di un sistema ottimale, visto che le stesse stazioni di rifornimento vanno rifornite. E lo si deve fare con una filiera e con trasporti dedicati, perché i combustibili non nascono sotto le pompe di benzina. Arrivano da raffinerie spesso distanti centinaia di chilometri, dove erano arrivati sotto forma di greggio da giacimenti distanti migliaia di chilometri. Un sistema decisamente poco efficiente, se ci pensate un attimo.
Al contrario, la rete elettrica è decisamente più estesa, capillare e meno impattante. Ovunque possiamo trovare una presa di corrente, dove l’energia affluisce alla velocità della luce, ovvero in maniera pressoché istantanea, dalle centrali elettriche. O, meglio ancora, può essere prodotta direttamente lì. Non a caso, fra i primi acquirenti di auto elettriche ci sono moltissimi proprietari di pannelli fotovoltaici, che producono direttamente l’energia necessaria ai propri spostamenti, con costi decisamente contenuti, una volta ammortizzato l’investimento iniziale.
Una soluzione che, in prospettiva, andrà attuata anche per le colonnine pubbliche poste lungo la rete stradale. In Olanda, per esempio, esistono già distributori di corrente installati sotto grandi coperture fotovoltaiche, che provvedono a gran parte del fabbisogno energetico erogato. Non è difficile estendere un simile modello: basta installare pannelli solari sulle tettoie degli attuali distributori e sostituire gradualmente le pompe con le colonnine. Naturalmente, occorre un investimento rilevante, ma decisamente alla portata delle compagnie petrolifere, se la volontà politica le indirizzasse in tal senso. Ma questo, per ora, è un discorso utopistico.

Al momento, le colonnine vengono piazzate dalle aziende energetiche o da operatori indipendenti, che vanno a collocarle dove ritengono opportuno secondo vari criteri, primo fra tutti la disponibilità di potenza adeguata. Poi vengono le convenzioni con centri commerciali, Comuni e imprenditori privati, come gli albergatori che offrono la ricarica ai propri clienti.
In questo mosaico di operatori, convenzioni e tariffazioni varie, dove ancora si fa un po’ fatica a rendere omogeneo l’insieme, possiamo però già vedere numeri importanti, tali da metterci a livelli confrontabili con quelli delle altre nazioni europee. Vediamo di quantificare in cifre.
Come numero di prese di ricarica pubblica, primeggia di gran lunga la Germania, con oltre 22.000, seguita da Regno Unito (quasi 14.000), Olanda (oltre 10.000) e Norvegia (quasi 8.000). L'Italia, con circa 4.200 prese in 2.100 postazioni, è in quinta posizione e precede Svezia e Francia. Unico neo, la scarsa disponibilità di fast, le colonnine di ricarica veloce che consentono di rifornire in tempi più rapidi. Per capirci, un’auto elettrica media, con una batteria della capacità di 50 kWh in grado di garantire autonomie intorno ai trecento chilometri, impiegherebbe oltre due ore a fare il pieno in una colonnina standard che eroghi 22 kW, mentre con una fast in grado di fornire 43 kW potrebbe recuperare in meno di un’ora circa l’80% del “pieno”, sufficiente a consentire oltre 200 km di percorrenza.
Le cose vanno un po’ meno bene nel rapporto fra punti di ricarica e popolazione, perché con una media di una colonnina ogni 14.388 abitanti siamo nelle zone basse della classifica, ben distanti dalla Norvegia (1 presa ogni 671 abitanti), dall’Olanda (1 ogni 1.665) e dalla Germania (1 ogni 3.620), ma comunque meglio di Francia e Spagna.
Buona invece la proporzione fra colonnine e auto da ricaricare, contando sia le elettriche pure (BEV) che le ibride ricaricabili (PHEV), che vede un rapporto di 2,23 vetture per ogni presa. Sarebbe un ottimo risultato, sennonché il merito va più alla scarsa diffusione di questo tipo di veicoli, piuttosto che all’abbondanza di infrastrutture. Ma c’è in questo il lato positivo, ovvero che l’attuale rete distributiva sarebbe già in grado di supportare un auspicabile aumento del parco elettrico circolante.

Dunque, già oggi è possibile optare per l’auto elettrica non solo per l’utilizzo quotidiano in ambito metropolitano, ma anche per quelle volte che può capitare di usarla per le gite fuori porta o per andare in vacanza. Occorre solo l’accortezza di programmare l’itinerario con una certa attenzione, tenendo conto della disponibilità e accessibilità di colonnine e dei tempi di ricarica, al momento sicuramente superiori rispetto a quelli del rifornimento tradizionale. Tempi che possono essere proficuamente impiegati per soste di ristoro o per visite turistiche, a seconda delle opportunità o degli interessi. Un modo di viaggiare diverso, ma non per questo penalizzante, anzi forse più consapevole. Di sicuro più ecologico.

Appuntamenti trascorsi

Dal 2020, Dialoghi di Pace, sedi e date diverse (più info >>> www.rudyz.net/dialoghi)

2020 12 06 Magnago (MI), L'uomo saggio rispetta i comandamenti: riflessioni sull'interdipendenza fra le creature a partire dalla Laudato si'.
Incontro a distanza nell'ambito delle "domeniche comunitarie - è tempo di scelte" organizzate a Magnago (MI) dalla parrocchia di San Michele e dall'Azione Cattolica.
Per questo appuntamento sono state richieste la collaborazione del Gruppo Naturalistico della Brianza Cusano Milanino e la partecipazione di Giovanni Guzzi.
Gli interessati a ricevere la presentazione la richiedano a sanpioxc@gmail.com.

2020 09 26 San Giuliano Milanese (MI), Convegno "Rocca Brivio, un bene pubblico da tutelare e valorizzare" (apri la locandina >>>)

Comunicato di Pro Natura Lombardia contro la proposta dell'Assessore all'Agricoltura di voler destinare alla pioppicoltura industriale le aree golenali demaniali della Regione

L’Assessore Regionale all'Agricoltura, Alimentazione e Sistemi Verdi propone di destinare le aree del demanio di propria competenza allo sviluppo della pioppicoltura vantandone potenziali benefici ambientali ed economici.
Nello specifico le aree che sono indicate dal comunicato dell’Assessore, che riprende la comunicazione presentata il 22 marzo in Giunta regionale, sono limitate in termini assoluti, complessivamente poco più di tremila ettari, insufficienti a ripianare la riduzione della coltura di pioppo in Regione che è registrata negli ultimi anni, (certo legata a dinamiche economiche certamente preoccupanti e di devastante impatto ambientale nelle aree tropicali e in Nord Europa), è tuttavia una superficie significativa e qualitativamente importante.
Si tratta, come appare indicato nella nota dell’assessore, di aree connesse al reticolo idraulico principale, il cui mantenimento nella disponibilità pubblica ha lo scopo di conservarle alla principale destinazione di protezione idraulica ed ambientale.
Nel contesto della crisi ambientale generale, descritta dal modello dei “planetary boundaries”, i limiti planetari che l’attività umana sta superando, mettendo così a rischio la sopravvivenza della vita sul pianeta (https://www.researchgate.net/publication/270898819; https://www.stockholmresilience.org/publications/artiklar/2016-04-15-planetary-boundaries-guiding-human-development-on-a-changing-planet.html), consegue che tali aree siano preziosi elementi di difesa della biodiversità naturale e di regolazione dei cicli biogeochimici, oltre che del regime idraulico dei fiumi del regime padano: da decenni lungo le rive del Po e dei principali fiumi padani le comunità vegetali naturali sono state pressoché cancellate e la distruzione continua. I boschi igrofili sono quelle formazioni ripariali e planiziarie di cui rimangono solo pochi lembi ai margini dei fiumi e nelle aree retrodunali. Una volta erano superbe foreste formate da piante di grandi dimensioni, pioppi, salici, ontano nero, frassini, e farnia che rappresentavano la serie vegetazionale dei boschi igrofili ripariali e che conservano un prezioso valore di biodiversità.
Causa di tale devastazione sono spesso gli impianti intensivi della pioppicoltura intensiva con cultivar di pioppi ibridi canadesi che non nulla hanno a che fare con la vegetazione autoctona delle aree planiziali: la vegetazione ripariale e con la foresta planiziale: il querco-carpineto, esteso un tempo su tutta la Pianura padana ed oggi ridotto a pochi lembi lungo le principali valli fluviali (generalmente sotto la tutela dei Parchi regionali). Nella stessa situazione sono le aree umide quali paludi, torbiere, distese di acqua stagnante o corrente. In Italia tra il 1938 e il 1984 abbiamo perso il 66% di queste aree (ISTAT & ISMEA, 1992) ed il tasso di declino e perdita di alcune popolazioni di specie legate agli ecosistemi acquatici è quadruplicato dal 2000 a oggi.
L’idea di utilizzo delle aree di rispetto fluviale dell’Assessore Rolfi contiene dunque una grave minaccia: sottrarre aree strategiche alla conservazione della biodiversità e alla protezione idrogeologica (meglio svolta dalle comunità biologiche naturali) per impiantare schiere di pioppelle: c’è un problema di tecniche produttive, da adeguare ai principi dell’agroecologia e della produzione biologica rispettosa della biodiversità programmata e non programmata negli agroecositemi; ma soprattutto di localizzazione dell’attività di pioppicoltura da escludere in aree cruciali per la conservazione della biodiversità, quali le aree di rispetto fluviale.
Sul piano normativo rileviamo che l’art. 1 della Legge 5 Gennaio 1994, n. 37 (Norme per la tutela ambientale delle aree demaniali dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle altre acque pubbliche) prevede che i terreni abbandonati dalle acque correnti appartengono al Demanio pubblico. Ma l’invito di estendere (o conservare) la pioppicoltura intensiva nelle aree demaniali dei fiumi lombardi è incompatibile con la normativa vigente per la quale il suolo degli alvei abbandonati dal corso dei fiumi sono assoggettati al regime del Demanio pubblico sono quasi sempre tutelati dai vincoli previsti dal Testo Unico ambientale e non si possono manomettere.
Rileviamo poi che i presunti vantaggi in termini di stoccaggio di carbonio della pioppicoltura intensiva vanno valutati al lordo delle connesse profonde modificazioni dello stato dei terreni, che provocano perdite di sostanza organica dal suolo e della scarsa durata dello stoccaggio del carbonio nei prodotti ottenuti dalla pasta di legno. Infine l’impatto degli interventi antiparassitari nel pioppeto è paragonabile a quello su altre colture intensive, quali il mais o i fruttiferi.

San Giuliano Milanese, 29 marzo 2021

Franco Rainini

INVITO AD ADERIRE AL COORDINAMENTO PRO NATURA LOMBARDIA

Cari amici,
cominciamo costruttivamente la "famigerata" fase due post-COVID costituendo il coordinamento regionale Pro Natura Lombardia.
Le prime riunioni con questo obiettivo risalgono all'avvio del millennio, alcune delle persone che promossero quel tentativo oggi non sono più tra noi e più che mai ne sentiamo la mancanza.
Nel 2019 abbiamo avviato alcune iniziative di collaborazione: con il Gruppo Naturalistico della Brianza, in particolare con Umberto Guzzi, la Federazione è stata rappresentata nel Contratto di Fiume Lambro Settentrionale ed in altri contesti nei quali sono state portate proposte significative.
In questa e in altre occasioni la Federazione Nazionale ha assunto direttamente la funzione di rappresentarci, mentre le altre associazioni ambientaliste avevano rappresentanze Regionali più o meno strutturate, in grado di rispondere con maggiore immediatezza e forti del contatto diretto con le organizzazioni del territorio.
In prospettiva anche nel riverbero della grave crisi in corso molti sono gli impegni che la Federazione e le sue federate debbono assumere in Lombardia. Riguardano la tutela della qualità della vita nell'area milanese, la tutela della biodiversità, il contrasto a un sistema agricolo che alimenta soltanto i grandi conglomerati industriali a scapito della salute e degli interessi di agricoltori e cittadini, non ultima la necessità di contenere la continua violazione delle norme Nazionali e Comunitarie che una piccola minoranza di cacciatori sovrarappresentati politicamente impongono a questa Regione.
In questo quadro, e constatate le (oggettive) difficoltà che troviamo nel far partire ORA l'Associazione Pro Natura Lombardia sembra sensato proporre un modello organizzativo leggero, che non precluda la possibilità di uno sviluppo futuro ma che dia a tutti noi la possibilità di una rappresentanza diretta a fronte delle istituzioni Regionali, inaccessibili da ciascuna nostra associazione da sola.
Per rafforzare la nostra rappresentatività di una realtà Regionale tanto vasta, il coordinamento è aperto anche ad organizzazioni esterne alla Federazione purché si riconoscano nei principi del nostro statuto.
I termini di questa partecipazione sono fissati nel quadro dello stesso Statuto Federale ed hanno precedenti in altre realtà regionali.
Un primo significativo nucleo di associazioni federate ha sottoscritto il Protocollo di adesione (apri pdf >>>) avviando così il coordinamento.
Neppure per un attimo pensiamo a questa proposta come ad un punto di arrivo, la riteniamo invece un passaggio necessario per rafforzare e allargare la forza del movimento ambientalista in Lombardia, per cui ciascuna delle nostre organizzazioni deve giocare un ruolo maggiore.
Siamo tutti consapevoli che una sigla in più non ha alcun valore se non è sostenuta dalla volontà di fare insieme qualcosa di utile.
La diversità della natura e degli scopi presente tra le federate e le associazioni amiche deve essere considerata un elemento di forza per cui affrontare con flessibilità e creatività la disastrata realtà delle questioni ambientali in Lombardia.
Un caro saluto a tutti.

Franco Rainini
Coordinatore PRO NATURA Lombardia
maggio 2020