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Meglio prevenire che curare

Riccardo Graziano

 

Meglio prevenire che curare. Questo ci insegna la medicina, ma anche la saggezza popolare. Non solo. Meglio evitare di sporcare piuttosto che dover pulire, meglio una manutenzione costante che una straordinaria, meglio evitare di compromettere il suolo piuttosto che doverlo rinaturalizzare, eccetera.

L’Europa ha varato una legge per il ripristino della natura, passata tra mille opposizioni, emendamenti, contestazioni e strumentalizzazioni politiche. Di per sé, è una cosa buona, visto che l’ambiente è talmente degradato da necessitare non più soltanto di varie forme di tutela, ma di restauri e ripristini. Tuttavia, tutto questo rischia di essere inutile se, mentre mettiamo a posto da una parte, continuiamo a sfasciare dall’altra.

Facciamo qualche piccolo esempio, in breve e certamente in modo non esaustivo, partendo dal livello globale per arrivare a quello locale, negli ecosistemi marini e terrestri.

Deep sea mining
Il “Deep Sea Mining” è l’ultima frontiera della devastazione degli habitat. L’industria estrattiva, alla continua ricerca di risorse da sfruttare, ha deciso di mettere nel mirino nientemeno che i fondali marini, scavandoli con appositi macchinari come se fossero cave o miniere in ambiente terrestre. Le deleterie conseguenze provocate da un’attività così invasiva in questo ambiente delicato e in parte poco conosciuto hanno messo in allarme le organizzazioni ambientaliste sia per i danni diretti alle forme di vita presenti sul fondale, sia per le enormi quantità di polveri  provocate da scavi e perforazioni, che finirebbero inevitabilmente in sospensione, andando a inquinare anche la colonna d’acqua soprastante e/o limitrofa alla zona di estrazione. Inoltre, i macchinari emetterebbero un frastuono che, veicolato dal fluido marino, si espanderebbe a grandi distanze, disturbando la fauna ittica e in particolare i cetacei, le cui popolazioni sono già sotto stress e minacciate da numerosi altri fattori.

È chiaro che ha poco senso pensare di riqualificare qualche tratto di mare destinato a riserva marina se nel frattempo si permette un simile sfacelo, magari a poche miglia nautiche di distanza. Prima di pensare a ripulire il mare bisogna pensare a non sporcarlo, quindi porre attenzione a scarichi industriali e agricoli, plastiche monouso, pratiche di abbandono delle reti e così via, monitorando e bloccando sul nascere nuove minacce come quella rappresentata dal Deep Sea Mining e, nel frattempo, curare la manutenzione ordinaria di aree protette evitando disastri ecologici come quello recentemente avvenuto nella laguna di Orbetello.

La strage di Orbetello
Le elevate temperature dell’estate appena trascorsa, sintomo dei cambiamenti climatici in atto, hanno provocato, tra le altre cose, una moria di pesci nella laguna di Orbetello, uccisi dal riscaldamento delle acque, dalla carenza di ossigeno e dall’accumulo di alghe. Secondo Slow food, che ha raccolto le testimonianze di operatori della zona, le problematiche della laguna si trascinano da almeno un trentennio, a causa di incuria e mancanza di manutenzione. Il sito, ricco di biodiversità e di elevato valore paesistico e turistico, è in effetti frutto di interventi artificiali di bonifica e canalizzazione delle acque, quindi non può autoregolarsi come un ambiente naturale e aperto, bensì richiede attenzione e interventi continui e mirati. La profondità è minima, dunque se i sistemi idraulici non garantiscono un adeguato ricambio delle acque, si rischia un surriscaldamento e una carenza di ossigeno fatali per la fauna ittica presente, specialmente se nel frattempo non si è tenuta sotto controllo la proliferazione delle alghe, favorita anche da scarichi industriali di sostanze che ne hanno favorito la moltiplicazione. Il danno faunistico ed ecologico è stato rilevante e naturalmente ha avuto inevitabili ripercussioni economiche sia per i pescatori, sia per i ristoratori e gli operatori del turismo in genere.

Un tema, quello del profondo legame fra ecologia ed economia, che spesso si tende a dimenticare o sottovalutare, ma che incide profondamente, sia – come abbiamo visto – in mare, sia sulla superficie terrestre, a partire dal disastro ambientale che sta devastando il più grande habitat e scrigno di biodiversità del pianeta, la foresta amazzonica.

Il collasso dell’Amazzonia
Fra i vari ambienti che l’Unione Europea si prefigge di ripristinare con la nuova normativa ci sono le foreste, in particolare i pochi residui di quella che un tempo era la vasta foresta planiziale del continente, spazzata via dall’antropizzazione del territorio e ridotta a poche e piccole porzioni isolate. Un’ottima iniziativa, volta a tutelare anche quella biodiversità che ancora vi trova riparo. Ma mentre noi siamo impegnati a restaurare i residui frammenti dei nostri boschi primordiali, dall’altra parte dell’Atlantico la distruzione della foresta dell’Amazzonia prosegue a ritmi forsennati. Secondo una denuncia di Greenpeace, che nel solo mese di luglio ha registrato 666 km² di deforestazione, ci stiamo avvicinando pericolosamente al punto di non ritorno, oltre il quale questo habitat fondamentale per la biodiversità planetaria rischia di collassare. L’Amazzonia è infatti una foresta pluviale e in quanto tale sopravvive solo grazie ad abbondanti precipitazioni, buona parte delle quali sono innescate dall’umidità che deriva dalla traspirazione della sua stessa massa vegetale. Va da sé che più deforestiamo, meno ci sarà traspirazione e cappa di umidità, dunque le precipitazioni diminuiranno, e con esse anche la capacità di rigenerazione della copertura arborea, quindi verrà a mancare altra traspirazione e umidità e così via, in una spirale degenerativa che rischia di far seccare la parte di foresta risparmiata dal taglio intensivo.

Ora, qualcuno potrebbe pensare che tutto ciò a poco a che vedere con l’Europa e le sue direttive comunitarie, perché le responsabilità sono dei Paesi sudamericani i cui confini includono porzioni di questo polmone verde, in particolare il Brasile. Ma la realtà è che buona parte di quella deforestazione è indirettamente causata dal mercato europeo, la cui domanda di prodotti alimenta l’offerta dei Paesi che disboscano come se non ci fosse un domani. Siamo noi infatti ad acquistare una quota rilevante del legname e dei suoi derivati estratti dalla foresta amazzonica, ma non solo. Sui terreni disboscati si allevano enormi mandrie di bestiame, la cui carne arriva in grandi quantità sulle nostre tavole in svariate forme, dallo scatolame ai sughi. E ancora, vaste porzioni dei terreni strappati alla foresta ospitano coltivazioni intensive di prodotti importati dall’industria mangimistica che alimenta i nostri allevamenti intensivi, ai quali non basta più la sola produzione nazionale, tanto sono ormai numerosi ed estesi, con milioni di capi stipati nei capannoni. E qui ci colleghiamo a un altro tema.

Allevamenti intensivi e territorio
In Italia si mangia troppa carne. Lo sostiene la FAO, i cui studi documentano che il consumo medio in Italia è di circa 73 kg pro capite all’anno, quasi il doppio della media mondiale. Per fronteggiare questa domanda elevata e crescente importiamo carne, ma soprattutto continuiamo ad aumentare il numero e l’estensione degli allevamenti intensivi, il che comporta non pochi problemi. Dal punto di vista della salute, l’eccessivo consumo di carne (e insaccati) può portare a varie patologie, sulle quali non ci dilungheremo in questa sede. Inoltre, la zootecnia intensiva è responsabile di una quota rilevante di inquinamento in Europa, con una percentuale del 54% delle emissioni di metano e addirittura del 94% di quelle di ammoniaca, la quale a sua volta causa la formazione di polveri sottili, le famigerate PM, molto insidiose per le nostre vie respiratorie. Ma quello che ci preme sottolineare qui è il consumo di suolo diretto e indiretto che tali allevamenti comportano. Nell’agricoltura tradizionale del passato e nell’attuale bioagricoltura, dove l’uso della chimica era ed è marginale o nullo, erano gli animali stessi, liberi al pascolo, a provvedere da un lato a diserbare brucando e dall’altro a concimare con le loro deiezioni direttamente sul campo. Oggi usiamo diserbanti chimici per liberare terreni che coltiviamo con concimi chimici per una produzione agricola in gran parte destinata a nutrire animali chiusi dentro a capannoni di cemento costruiti su (ex) suolo fertile che non potrà più essere coltivato. Senza dimenticare che queste “fabbriche di carne” dove gli animali stanno ammassati in condizioni assolutamente innaturali e con livelli igienici non sempre adeguati, sono i luoghi ideali per l’incubazione e lo scoppio di epidemie sempre più frequenti e devastanti, che spesso portano alla necessità di abbattere tutti gli animali di un allevamento, con un danno economico proporzionale al numero di capi presenti. Quando ciò accade in campo suinicolo, si dà immancabilmente la colpa ai cinghiali, senza peraltro che nessuno ci spieghi come sia possibile per un cinghiale arrivare a contatto con dei maiali chiusi in un capannone. Se succede ai polli, si dice che è colpa degli uccelli migratori che portano l’aviaria. Al momento però nessuno ha ancora trovato un possibile “capro espiatorio” fra i selvatici per quando succede alle pecore, alle mucche e persino alle stesse capre. Indiscutibili invece le responsabilità umane per disastri come “mucca pazza” o i polli alla diossina di funesta memoria. E qualcuno definisce tutto questo sistema “agricoltura tradizionale”, contestando pervicacemente qualunque richiesta di conversione produttiva, anche se lautamente finanziata.

È chiaro come anche in questo caso, oltre al lodevole intento di ripristinare oasi naturalistiche e boschetti sparsi, occorre prima di tutto porre un freno all’espansione degli allevamenti intensivi che continuano a divorare territorio direttamente e indirettamente, puntando su un’agricoltura che si riavvicini al vero modello tradizionale, evitando l’abuso di chimica e favorendo i piccoli produttori invece della grande agroindustria. Mettendo in campo anche un’azione di tipo culturale per riportare i consumatori verso un modello di dieta mediterranea a ridotto consumo di carne, riconvertendo le coltivazioni verso produzioni destinate al consumo diretto, anziché alla mangimistica animale, il che consentirebbe anche una sensibile riduzione delle superfici necessarie all’agricoltura. E qui ci ricolleghiamo a un altro aspetto di uso (o abuso) del territorio.

Coltivare fotovoltaico
Secondo l’EEB (European Environmental Bureau) basterebbe il 2,2% del territorio europeo per installare impianti di energie rinnovabili sufficienti a dare all’UE l’energia necessaria a raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione entro il 2040. Questo per ovviare al fatto che, sempre secondo la stessa fonte, i tetti non basterebbero per il fotovoltaico. Discorso analogo per i siti attualmente idonei all’eolico onshore (cioè a terra, tradotto nel nostro idioma, rispetto all’eolico offshore delle pale piazzate in mare). Quindi, secondo qualcuno, sarebbe il caso di rinunciare a porzioni di terreno agricolo a favore dello sviluppo delle rinnovabili per accelerare la transizione energetica. Per supportare questa tesi, si fa notare che ad esempio in Francia e in Italia la superficie coltivata per la produzione destinata all’alimentazione animale è doppia o tripla rispetto a quella che servirebbe per posizionare pannelli solari e pale eoliche, dunque basterebbe cambiare dieta e mangiare meno carne per avere molto più terreno (ex) agricolo da destinare alla “coltivazione” di energia rinnovabile.

Una tesi che fa sorgere non pochi dubbi, visto che in Italia, ma non solo, buona parte di quello che arriva dall’Unione Europea (a parte i soldi, come i generosi sussidi all’agricoltura industriale) viene ferocemente contestato, a volte persino in forma autolesionistica (piuttosto che passare all’auto elettrica pago di più di benzina, piuttosto che coibentare la casa pago di più di riscaldamento e così via). In un contesto simile, convincere gli europei a mangiare meno carne per avere più terreni agricoli da seppellire sotto i pannelli fotovoltaici otterrebbe probabilmente l’effetto di scatenare grigliate oceaniche di protesta o di portare le dimensioni dei taglieri di salumi a quelle di una portaerei, e pazienza se il colesterolo si innalza esponenzialmente.

Oltretutto, a noi che siamo ambientalisti, pur volendo puntare molto sulle energie rinnovabili, ci fa un po’ effetto pensare che dei suoli coltivabili vengano (ab)usati per la loro installazione, quando abbiamo una marea di territorio cementificato, asfaltato o comunque compromesso da sfruttare prima di utilizzare suolo libero.

I tetti non bastano? Sicuri? Avete contato anche quelli dei capannoni dismessi? Le tettoie dei distributori? E poi i parcheggi di supermercati e outlet? I margini delle autostrade e delle ferrovie? La possibilità di mettere pannelli galleggianti sugli invasi destinati all’idroelettrico? Sinceramente, ne dubitiamo. Ma anche fosse, prima sfruttiamo tutti quei siti, poi dopo, se non basta, vediamo quanto terreno agricolo ci serve ancora.

In realtà, lo studio non prevede l’utilizzo dei terreni agricoli in generale, ma si limita a considerare solo quelli più degradati e a rischio abbandono per infertilità. Inoltre, esclude le aree che dovrebbero essere oggetto di intervento secondo la nuova direttiva sui ripristini. Tuttavia, il buon senso suggerisce di iniziare a utilizzare prima il terreno già impermeabilizzato da cemento e asfalto, senza intaccare un metro di suolo libero. Se anche non lo coltiviamo o decidiamo di non ripristinarlo con i fondi previsti dalla nuova direttiva UE, lasciamolo comunque a disposizione della Natura. Magari scopriamo che è più brava ed efficiente di noi a ripristinare i suoli degradati. E, cosa tutt’altro che trascurabile, lo fa gratis.

Due esempi virtuosi di ripristino ambientale

Mauro Furlani

 

I fiumi in Italia, così come molti ecosistemi naturali, nel corso dei secoli hanno subito, in maniera massiccia, profonde modificazioni che hanno riguardato l’alveo e il profilo di scorrimento, la vegetazione ripariale e le biocenosi che ci vivono.

In molti casi le alterazioni sono state ancora più radicali giungendo alla modifica del corso d’acqua per fare spazio ad insediamenti abitativi, per il recupero di aree agricole là dove in precedenza erano presenti aree alluvionali o paludose o semplicemente aree di naturale espansione.

Negli anni più recenti la costruzione di impianti idroelettrici, invasi per le riserve idriche ad uso civile e agricolo hanno modificato ulteriormente e profondamente i paesaggi fluviali, limitando le possibilità di trasporto e il deposito di inerti lungo gli alvei e lungo le coste. In sostituzione di acque tumultuose in grado di incidere in milioni di anni profonde forre si sono sostituiti ampi bacini lacustri con acque a lento scorrimento.

Nei secoli, le aree alluvionali di espansione e paludose, soprattutto nelle confluenze con il mare, sono state quasi interamente bonificate, alterando la naturale dinamica del fiume con il mare e cancellando ecosistemi di straordinaria importanza dal punto di vista naturalistico. Di tutto ciò ben poco è rimasto. Qua e là antiche tracce nella memoria collettiva o la testimonianza storica di espansioni fluviali in cui le massime portate si riappropriano terreni di propria competenza. Alcune antiche carte o taluni toponimi: Fangacci , Pantano, Pianello, Saline ecc. ricordano o fanno facilmente immaginare ciò che è stato.

Il fiume Metauro, oggetto di questo breve intervento, prima della costruzione degli argini avvenuta all’inizio del ‘900, espandeva le proprie acque verso sud, distante dalla città Fano. Parallelo alla linea di costa esisteva un grande lago retrodunale, certamente salmastro e per le sue grandi dimensioni chiamato “Lagone”. L’intera area di espansione, bonificata nel ventennio fascista, è chiamata Metaurilia, lasciando facilmente immaginare le sue origini. Quell’area, a seguito delle bonifiche, divenne area agricola e più recentemente ha subito una forte urbanizzazione. Quando il fiume esonda, nonostante la costruzione degli argini, riversa le proprie acque in queste zone, esattamente come accaduto per secoli.

Nei decenni alcuni alvei fluviali, assieme alle montagne calcaree e marnose, hanno rappresentato la principale risorsa di materiali inerti, soprattutto ghiaie, usate massicciamente per la costruzione di infrastrutture viarie, infliggendo imponenti modificazione agli assetti originari. Ciò che in passato erano aree di espansione naturale sono state irresponsabilmente urbanizzate e una barriera pressoché continua di scogliere rocciose sono state posizionate a difesa della costa e dei manufatti in sostituzione del mancato apporto di materiali solidi del fiume.

Lungo il Metauro, così come in molti altri fiumi, la costruzione dei diffusi complessi industriali, spesso associati a caotici processi di urbanizzazione, oltre a sottrarre fertili suoli agricoli è stata la causa di alterazioni irreparabili delle aree di pianura e golenali.

A distanza di pochi decenni, spesso rimangono inospitali e respingenti periferie urbane, oltre ad aree industriali, che, terminato il loro ciclo produttivo, sono state spesso abbandonate e lasciate al loro rapido degrado.

Rimangono le profonde ferite al territorio, sia nelle nostre montagne, con le enormi cave la cui rinaturalizzazione richiederà decenni e forse secoli, e decine di cave lungo i fiumi, nel migliore dei casi lasciate al loro destino, ricoperte di terreni di escavazione o, ancora peggio, negli anni usate per depositarvi materiali di scarto, talvolta anche di origine industriale.

Raramente il destino di questi nuovi ambienti ha seguito un percorso virtuoso di una rinaturalizzazione, ripristinando antiche zone di espansione o ricreando aree paludose, riconoscendo loro un ruolo ecologico all’interno del più complesso e articolato ecosistema fluviale.

La storia che qui in breve è descritta può rappresentare un esempio virtuoso la cui esperienza può costituire un esempio per numerose altre realtà, perseguibile anche in situazioni analoghe.

L’Argonauta, nostra storica Associazione, ha profondamente trasformato in nuovi ecosistemi alcune di queste profonde ferite, ricreando ambienti importanti non solo dal punto di vista ambientale, ma anche didattico-educativo e di ricerca.

Quanto riportato rappresenta una breve descrizione di interventi protratti negli anni. Dettagli maggiori sono riportati e documentati nel libro distribuito dalla stessa Argonauta dal titolo “Tre storie naturali”. Due di queste, di cui parleremo, riguardano la rinaturalizzazione di due cave abbandonate, lo Stagno Urbani e il Lago Vicini. La terza storia naturale di cui parla il libro riguarda Casa Archilei e si riferisce al recupero ad uso didattico di un vecchio podere agricolo, di proprietà comunale e divenuto un importante centro didattico-ambientale nel cuore della città di Fano.

Nelle Marche, poco più a Sud del Metauro, un altro esempio di recupero e rinaturalizzazione di una vecchia cava di ghiaia abbandonata riguarda la Riserva Naturale di Ripa Bianca sul Fiume Esino, sorta a metà degli anni ’80 per garantire adeguata protezione alla prima garzaia di nitticore nelle Marche. A seguito di interventi di restauro ambientale la riserva, che ha inglobato parte del fiume, ha facilitato la nidificazione di altri ardeidi e l’insediamento di altre importanti popolazioni ornitiche, oltre ad avere stimolato attività di studio e luogo di divulgazione naturalistica. La sua gestione attualmente è affidata dalla Regione al WWF.

Spostandoci più a sud, in Puglia, un più impegnativo ripristino di aree degradate ad opera della nostra federata Centro Studi Naturalistici ha coinvolto la Laguna del Re. L’intero intervento ha comportato non solo la restituzione alla naturalità di un’area di elevato valore ambientale, ma anche attivato un percorso di riqualificazione sociale, all’interno di un contesto più ampio che comprende anche il Lago Salso e altre superfici umide nella zona della Capitanata.

Rimaniamo tuttavia alle due aree del Fiume Metauro. Entrambe hanno la stessa origine e derivano dalla escavazione per ricavare inerti, utilizzati in gran parte per la costruzione dell’autostrada adriatica.

Il primo, anche in ordine cronologico, è lo Stagno Urbani: esso venne acquistato grazie a fondi ministeriali dalla Federazione Nazionale Pro Natura e dall’allora Kronos 1991. Il secondo, il Lago Vicini, fu acquistato con finalità naturalistiche dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Fano e affidato per il ripristino e la gestione all’ Argonauta, che già gestiva per conto della Federazione lo Stagno Urbani. Entrambe le aree si trovano in riva sinistra del fiume Metauro a pochi chilometri dalla foce.

Nel 1989, quando la Federazione acquistò lo Stagno Urbani, la cui estensione è poco meno di cinque ettari, questo risultava ormai quasi completamente interrato con materiali di risulta e rifiuti provenienti anche dalla vicina zona industriale. Le superfici di escavazione non raggiungevano grandi profondità a causa della presenza di argille plioceniche subito al di sotto del profilo sfruttabile delle ghiaie.

Il primo intervento consistette nel rimuovere parte dei detriti accumulati, recintare l’area per evitare ingressi abusivi e incursioni di cacciatori al suo interno. Dal punto di vista naturalistico gli interventi miravano a ricreare alcune zone umide di varie profondità al fine di offrire habitat adatti a specie con esigenze trofiche differenti. Acque relativamente alte per anatidi, piccoli stagni a diversa profondità per limicoli e trampolieri con diverse esigenze.

L’intera superficie era quasi completamente priva di vegetazione arborea, se non per la presenza di alcune roverelle e lembi di siepi con prugnolo, paliuro, rovo e altre specie che in passato diffusamente caratterizzavano antiche siepi di confine o margini stradali. Nelle aree depresse, con ristagno di acqua, era sviluppato il fragmiteto e il tifeto.

Nel lato dell’area rivolto verso il fiume, per dare continuità alla vegetazione ripariale esistente, sono state piantumate specie igrofile e mesofile, tra cui pioppi neri e bianchi, ontani, aceri minori e altre specie autoctone, oltre che assecondare lo sviluppo spontaneo di specie locali.

Successivamente ai lavori di naturalizzazione dell’ambiente e allo scopo di assolvere anche il compito di divulgazione e ricerca naturalistica, nei punti ritenuti strategici sono stati allestiti ripari in legno per l’osservazione, lo studio e per la fotografia naturalistica.

Nel 1996 venne costruito un piccolo Centro visite in legno, con lo scopo di creare uno spazio in grado di ospitare almeno una classe, oltre che di deposito delle attrezzature indispensabili per i costanti lavori di manutenzione sia dei sentieri di accesso agli osservatori che delle piccole infrastrutture presenti.

Contemporaneamente all’evoluzione vegetazionale vennero effettuati monitoraggi faunistici e alcune campagne di inanellamento, al fine di verificare le modificazione delle specie ornitiche presenti nell’area in funzione alle trasformazioni ambientali. Il rapido sviluppo della copertura vegetazionale e l’assenza di disturbo hanno favorito la frequentazione anche di mammiferi di medie e gradi dimensioni: tra questi cinghiali, caprioli, volpi, tassi, istrici con incursioni all’ interno di lupi, attirati probabilmente dagli ungulati, ma forse anche dalla cospicua presenza di nutrie.

Tra le specie di maggiore rilevanza ricordiamo la presenza nidificante di cavaliere d’Italia, tarabusino, folaga, tuffetto e molti altri uccelli. Interessante la presenza di una popolazione riproduttiva di testuggine palustre (Emys orbicularis), che purtroppo si trova a competere con la ben più diffusa specie esotica Trachemys ssp. Alcune uscite notturne hanno anche potuto valutare le specie presenti di chirotteri.

Seppure l’origine del Lago Vicini sia analoga a quella dello Stagno Urbani è assai diverso l’ambiente in cui i due si trovavano prima degli interventi. In primo luogo la profondità del lago Vicini è ben superiore a quello dello Stagno Urbani, raggiungendo nella parte centrale la profondità di circa otto metri; anche lo specchio d’acqua è ben più esteso rispetto allo Stagno Urbani.

Il lago, non essendo alimentato da acque superficiali ma direttamente dalla falda, si presentava estremamente povero di nutrienti, con una scarsa produttività primaria e di conseguenza anche di componenti faunistiche rilevanti. L’elevata profondità e gli argini del lago, verticali, impedivano l’insediamento e lo sviluppo di una vegetazione ripariale.

I primi interventi effettuati hanno riguardato il rimodellamento delle sponde, dando loro una certa pendenza, così che la vegetazione ripariale potesse insediarsi e sviluppare una copertura circostante sull’intero perimetro.

La progettazione degli interventi ha mirato essenzialmente a rendere il lago quanto più simile ad uno specchio d’acqua di origine naturale. Altri interventi hanno riguardato la creazione di strutture rivolte all’osservazione faunistica e all’accoglienza di bambini e ragazzi e all’uso didattico; tra questi osservatori faunistici, creazione di un modello di fiume dalla sorgente alla foce con le varie tipologie di substrato e di acclività, cartellonistica esplicativa, impianto di fitodepurazione, ecc.

Altri interventi si sono rivolti alla creazione di strutture adatte alla riproduzione di alcune specie che negli anni avevano subito un declino. Tra questi la costruzione di una serie di acquari in cemento in grado di ricevere acqua direttamente dal lago. Dopo un attento esame delle specie autoctone presenti nel basso corso del fiume Metauro è stato ritenuto utile dedicare attenzione alla riproduzione di specie ittiche come scardole, tinche, alborelle e altre. Queste sono ospitate in acquari diversi in funzione alle diverse fasi di sviluppo fino a quello adulto per una loro successiva liberazione nel lago. Alcune voliere proteggono la riproduzione della moretta tabaccata, specie in forte declino e i cui individui adulti sono stati acquistati da un allevamento regolarmente autorizzato.

Infine, all’interno del progetto nazionale Emys, una particolare attenzione è riservata alla riproduzione e alla diffusione della testuggine palustre, al fine di sottrarre al rischio di estinzione la esigua popolazione già presente nello Stagno Urbani. Alcuni piccole aree protette da una rete metallica consentono la deposizione delle uova, la loro schiusa lo sviluppo dei giovani fino alla diffusione in natura.

Nel lato del lago a ridosso dell’argine fluviale è stata creata un’area paludosa, rapidamente colonizzata da cannuccia d’acqua, così da favorire un habitat idoneo ad uccelli limicoli, ma anche ad anfibi, rettili e numerosi invertebrati acquatici.

L’evoluzione delle componenti faunistiche è costantemente rilevata anche con l’utilizzo di fototrappole, in modo da seguire costantemente le modificazioni in funzione anche alle trasformazioni ambientali e per valutare l’efficacia degli interventi effettuati.

A conclusione di questa breve descrizione ricordiamo che il 17 giugno 2024 l’Unione Europea ha varato la Nature Restoration Law, che è entrata in vigore in Italia il 18 agosto (si veda, in questo numero, l’articolo di Giovanni Cordini “Il ripristino della natura”). Il Governo italiano, purtroppo, in compagnia di Ungheria, Paesi Bassi, Finlandia e Svezia, ha ritenuto di opporsi a questa importante normativa. Malgrado ciò, tutti i Paesi, Italia compresa, dovranno applicare le norme e adempiere a quanto richiesto. La Nature Restoration Law prevede il ripristino degli ecosistemi degradati stabilendo anche i tempi di applicazione. Entro il 2030 dovranno essere ripristinati il 30% degli ecosistemi in cattive condizioni individuati nell’Allegato I sia terrestri che marini, il 60% entro il 2040 e il 90% al 2050. La norma prescrive che entro la scadenz,a del 2030 dovranno essere resi a deflusso libero, rimuovendo tutti gli ostacoli, almeno 25.000 chilometri di fiumi in Europa. Ad oggi 15 paesi europei hanno già smantellato quasi 500 opere artificiali che sbarravano il flusso naturale. Ciò che ancora più delle percentuali appare centrale è l’acquisizione, da parte dell’Unione Europea, dell’idea che la natura deve essere al centro delle politiche e che da essa non si può prescindere e ancor meno a sue spese come avvenuto fino ad ora.

L’intervento nei due ecosistemi di cui abbiamo scritto si potrebbe configurare, secondo quanto riportato in   allegato I, nel Gruppo 3 - Habitat fluviali, lacustri, alluvionali e ripariali, in particolare nella tipologia Stagni temporanei mediterranei e/o laghi e stagni distrofici naturali.

Come è stato verificato dai monitoraggi effettuati, il restauro dei due piccoli ecosistemi ha consentito di migliorare, localmente, la presenza di alcune specie. Hanno tratto certamente beneficio la piccola popolazione di testuggine palustre presente per altro in allegato II della Direttiva Habitat 92/43/CEE, forse l’unica delle Marche, quella di pesci del basso corso come tinche, scardole e altre ed alcuni anfibi come la rana dalmatina o il rospo smeraldino, oltre a numerosi uccelli che trovano ambienti nidificazione adeguati e protetti dal prelievo e disturbo venatorio.

Certamente non si ha la pretesa che le opere effettuate in modo volontaristico nei due ecosistemi o dei pochi altri esempi riportati, possano abbracciare seppure parzialmente quanto richiesto dalla Nature Restoretion Law. Non è questo. I numerosi esempi virtuosi, e questi riteniamo lo siano, possono costituire un piccolo anello all’interno di quanto richiesto dall’Unione Europea per il risanamento ambientale. Servono competenze specifiche, servono investimenti adeguati, ma serve anche una reale convinzione da parte delle strutture amministrative statali, a partire da quelle di più alto livello, in grado di guardare l’orizzonte. Il raggiungimento degli obiettivi può apparire utopistico, ma la strada da intraprendere non può essere ignorata o peggio ostacolata. È lo sforzo di un intero paese non di una o alcune Associazioni naturalistiche e di pochi volontari.

Verde urbano e Nature Restoration Law 2024: una prima lettura

Elsa Ravaglia, Sofia Filippetti

 

Da molto tempo le associazioni ambientaliste promuovono in varie forme il riconoscimento dell’importanza della conservazione e valorizzazione del verde urbano, per il ruolo fondamentale di tutela della salute umana, dell’ambiente e degli animali. Spesso purtroppo ciò accade anche in contrasto con le amministrazioni locali che, anziché sviluppare una coscienza ambientale nella cittadinanza, tendono a focalizzarsi principalmente sugli aspetti gestionali e in particolare sulle ricadute economiche immediate. L’approvazione della “Nature Restoration Law” del giugno 2024 potrebbe (dovrebbe) migliorare questa situazione.
La parola chiave è: ripristino.
Secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani, utilizzare questo termine vuol dire indicare ogni azione e operazione volta a “restituire l’aspetto e la consistenza che […] [qualcosa, nda] aveva a una data epoca, per lo più fra le più antiche della sua storia, e che aveva perduto in seguito a opere successive di trasformazione e adattamento” ma anche “riportare [qualcosa, nda] a uno stato di funzionalità”. Concetto (più o meno) quotidianamente associato ad elementi come, ad esempio, il sistema di un computer oppure un edificio o un monumento, e che da ora si ricollega anche alla natura.
Il “Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio sul ripristino della natura” (2024), infatti, evidenzia che la sola protezione della biodiversità, pur rimanendo senza alcun dubbio sempre essenziale, ormai non è più sufficiente a mantenere uno stato adeguato dell’ambiente: sono dunque necessarie misure di recupero o, appunto, ripristino degli ecosistemi.
Dobbiamo infatti ricordare che un ambiente sano consente la salute anche umana e animale, come affermato dall’approccio scientifico One Health, che “riconosce il nesso intrinseco tra la salute umana, la salute animale e una natura integra e resiliente”.
Questo nuovo Regolamento europeo, che declina la One Health in riferimento al pilastro “ambiente”, si occupa praticamente della totalità degli ecosistemi: terrestri, costieri e di acqua dolce, marini ed anche gli ecosistemi urbani. D’altra parte, gli ecosistemi urbani costituiscono il 22% della superficie terrestre dell’Unione Europea, e di certo non potevano mancare, poiché rappresentano un tassello tanto importante quanto complesso nell’immenso puzzle della natura. Non solo perché è qui che si concentra la maggioranza della popolazione, e la tendenza all’urbanizzazione non sembra arrestarsi, ma anche perché “costituiscono habitat importanti per la biodiversità, in particolare per le piante, gli uccelli e gli insetti, compresi gli impollinatori”. Come il Regolamento ci ricorda, l’ecosistema urbano fornisce numerosi servizi ecosistemici definiti come essenziali, tra cui si annoverano “la riduzione e il contenimento del rischio di catastrofi naturali, ad esempio per le inondazioni e gli effetti "da isole di calore urbano", il raffrescamento, le attività ricreative, la depurazione dell'acqua e dell'aria, nonché la mitigazione e l'adattamento ai cambiamenti climatici”. Viene da sé che il miglioramento, il ripristino e l’aumento degli spazi verdi urbani “migliorerà, in molti casi, la salute dell'ecosistema urbano. A loro volta, ecosistemi urbani sani sono essenziali per favorire la salute di altri ecosistemi europei fondamentali, ad esempio grazie al fatto di collegare le aree naturali situate nelle zone rurali circostanti, di migliorare la salute dei fiumi lontano dalla città, di offrire un rifugio e un luogo di riproduzione per le specie di uccelli e impollinatori legate agli habitat agricoli e forestali, nonché di fornire habitat importanti per gli uccelli migratori”.
Per quanto riguarda il contesto urbano, la Nature Restoration Law sottolinea che è indispensabile “scongiurare il rischio di riduzione della copertura di spazi verdi urbani, in particolare di alberi”. Gli spazi verdi urbani vengono definiti dall’Articolo 3 della normativa come “superficie totale di alberi, di boscaglie, di arbusti, di vegetazione erbacea permanente, di licheni e di muschi, di stagni e di corsi d'acqua presente nelle città, nelle piccole città e nei sobborghi, calcolata sulla base dei dati forniti dal servizio di monitoraggio del territorio di Copernicus”. Si intende raggiungere tale obiettivo attraverso il ripristino, l’ampliamento e l’integrazione delle “infrastrutture verdi e le soluzioni basate sulla natura, come tetti e muri verdi, nella progettazione degli edifici. Tale integrazione può contribuire a mantenere e ad aumentare non solo la superficie degli spazi verdi urbani, ma anche, se include alberi, la superficie della copertura della volta arborea urbana”.

È l’Articolo 8 del Regolamento che parla esplicitamente di Ripristino degli ecosistemi urbani, e che dovrebbe garantire l’assenza di perdita netta di spazio verde entro il 2030, rispetto all’anno di entrata in vigore delle norme, e l’aumento della copertura arborea nelle città.

Certo, agli occhi di chi scrive sembra che il comma 1 di tale articolo meriti un’attenta lettura e riflessione per garantire un effettivo miglioramento dello stato del verde urbano nei nostri centri abitati...

Eccolo di seguito: “Entro il 31 dicembre 2030 gli Stati membri provvedono affinché non si registri alcuna perdita netta della superficie nazionale totale degli spazi verdi urbani né di copertura della volta arborea urbana nelle zone di ecosistemi urbani determinate a norma dell’articolo 14, paragrafo 4, rispetto al … [anno di entrata in vigore del presente regolamento]. Ai fini del presente paragrafo, gli Stati membri possono escludere da dette superfici nazionali totali le zone di ecosistemi urbani in cui la quota di spazi verdi urbani nei centri urbani e negli agglomerati urbani supera il 45% e la quota di copertura della volta arborea urbana supera il 10%.”

Il dibattito è aperto.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI/SITOGRAFICI

- Enciclopedia Treccani, “Ripristino”: https://www.treccani.it/vocabolario/ripristino/

- Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio sul ripristino della natura (2024), testo completo: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CONSIL:PE_74_2023_REV_1

- Consiglio dell’Unione Europea, “Nature restoration law: Council gives final green light”: https://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2024/06/17/nature-restoration-law-council-gives-final-green-light/

- IUCN, “The EU adopts its new Nature Restoration Law”: https://iucn.org/news/202406/eu-adopts-its-new-nature-restoration-law

La migrazione “climatica” delle piante

Piero Belletti

 

Il clima sta cambiando. E lo sta facendo molto in fretta, troppo perché le piante possano sviluppare meccanismi di adattamento alle nuove condizioni. Che fare dunque? Una possibile strategia, di certo non l’unica ed esclusiva, è la migrazione assistita

Ho dedicato l’ultima parte della mia carriera universitaria a studiare le modalità di propagazione delle specie forestali più adatte per le esigenze non solo e non tanto umane, quanto soprattutto ecosistemiche.

Una doverosa premessa: molti sono convinti che l’intervento umano in campo forestale sia sempre e comunque deleterio e da evitare: secondo questa concezione i boschi sono perfettamente in grado di “badare a sé stessi” ed è solo questione di tempo affinché si ricostituiscano condizioni naturali anche nei casi di degrado più evidenti.

Personalmente concordo solo fino a un certo punto. È vero che i boschi, soprattutto se partono da condizioni di discreta naturalità, sono dotati di una elevata resilienza; tuttavia vi sono delle situazioni in cui il recupero delle condizioni di piena funzionalità ecosistemica non può avvenire, oppure lo può fare ma in tempi talmente lunghi e a costi ambientali così elevati da essere di fatto improponibili. Due problemi su tutti. Il primo riguarda le specie alloctone (o esotiche), cioè quelle non originarie dell’area sotto esame ma che vi sono state importate, volontariamente o meno, dall’uomo. È vero che oggi il concetto di “alloctonia” sta assumendo connotazioni diverse rispetto a quelle di qualche decennio orsono. La globalizzazione, ma soprattutto i cambiamenti climatici, rendono infatti sempre più facile la migrazione di esseri viventi, siano essi piante o animali (sui microrganismi sappiamo poco, ma tutto lascia presagire che anche qui regni la confusione più totale). Un bosco lasciato a sé, con ogni probabilità verrà coinvolto, in modo più o meno massiccio, dall’ingresso di specie alloctone, soprattutto se si tratta di boschi di neoformazione su superfici prive di vegetazione, quali ad esempio ex coltivi abbandonati, aree percorse dal fuoco o interessate da dissesti idrogeologici, cave in fase di recupero e così via. Come dicevo prima, oggi il problema delle specie alloctone va trattato in modo diverso rispetto al passato, tuttavia è evidente come numerose specie, soprattutto se di provenienza geograficamente molto lontana, rallentino o addirittura impediscano il raggiungimento di condizioni quanto meno naturaliformi. Non mi riferisco tanto alla robinia (ormai quasi “naturalizzata”, quanto, ad esempio, ad ailanto, falso indaco, ciliegio tardivo, poligono del Giappone, quercia rossa, ecc. Tutte specie che, favorite da condizioni ecopedologiche a loro congeniali, entrano in competizione con specie autoctone, mettendole in difficoltà e causando, quanto meno su scala locale, pesanti conseguenze sugli equilibri ecologici. La situazione è peggiorata dal cambiamento climatico, ormai palese ed evidente a tutti, se non a chi, in ovvia malafede, teme di perdere posizioni di vantaggio nel caso di una reale (e sottolineo reale) transizione verso modelli di società e di produzione più compatibili con le esigenze di conservazione dell’ambiente.

Fino a qualche decennio fa, nelle operazioni di rimboschimento, o comunque recupero ambientale, la parola d’ordine era “provenienza locale”. Esistevano addirittura (ed esistono tuttora, anche se spesso disattese) precise normative, sia comunitarie che regionali, le quali disciplinavano tali operazioni. Si prevedeva, ad esempio, di utilizzare materiale propagativo ottenuto il più possibile vicino alla zona di intervento, nella convinzione che la selezione naturale avesse favorito individui particolarmente adatti a quelle specifiche condizioni di suolo e clima. E in effetti, numerose evidenze sperimentali confermarono la validità di questo concetto. Moltissimi interventi, effettuati con materiale di provenienza non locale, se non addirittura ignota, fallirono miseramente. Ricordo, in particolare, alcuni ciliegeti realizzati a partire da materiale di scarto (semi) dell’industria conserviera. Un totale fallimento, per quanto annunciato, che però ha causato ingenti perdite di risorse ma soprattutto di tempo.

Oggi, l’ambiente è sottoposto a processi di radicale mutamento, soprattutto a causa del già citato cambiamento climatico. Le temperature aumentano, sia come valore medio che come estremi, mentre anche le precipitazioni presentano una forte irregolarità e distribuzione, con la manifestazione di eventi “estremi” che ormai sono diventati quasi routinari.

In queste condizioni il processo naturale di adattamento, che si realizzerebbe attraverso meccanismi di selezione naturale, viene di fatto impedito dalla velocità del processo di cambiamento climatico. Pertanto, la più funzionale risposta degli esseri viventi risulta essere la migrazione, alla ricerca di condizioni il più possibile simili a quelle preesistenti, cui le specie si erano adattate durante la loro evoluzione. Ciò significa, ad esempio, spostarsi a nord, oppure verso quote più elevate. Ma questo non sempre è possibile, ad esempio a causa dalla presenza di barriere, sia naturali che artificiali (bacini idrici, insediamenti umani, aree agricole, ecc.). Anche l’innalzamento della quota cui vivere non sempre è perseguibile, sia perché anche le montagne, come ogni cosa, hanno un termine, sia perché, alle quote più alte, subentrano altri fattori, quali la ventosità, l’incoerenza del suolo, ecc., che rendono estremamente difficoltosa la sopravvivenza.

C’è poi il problema della velocità dei processi. Se si concretizzerà lo scenario che prevede un aumento medio di temperatura di circa 3°C entro il 2100, cosa tutt’altro che improbabile, dato l’andazzo attuale…., le piante dovrebbero spostarsi, per trovare condizioni accettabili per la loro sopravvivenza, di 600 km verso nord oppure di 600 m di quota. Tale ipotesi risulta di difficilissima concretizzazione, a causa in particolare della lentezza con cui le popolazioni vegetali si spostano (o meglio si spostano le generazioni successive, attraverso il meccanismo della dispersione dei semi), con punte che possono arrivare a un chilometro lineare o pochi metri di quota all’anno nel caso delle popolazioni forestali ma molto, molto di meno per quanto riguarda le specie erbacee. In ogni caso, quindi, ampiamente fuori tempo massimo.

Che fare dunque?

Dato per scontato che, laddove possibile, è opportuno che il bosco si ricostituisca secondo processi naturali (eventualmente con qualche piccolo aiuto da parte nostra), appare necessario rivedere il concetto di “provenienza locale”. Infatti, è molto probabile che quando il materiale oggetto di impianto avrà raggiunto l’età adulta, le condizioni climatiche saranno diverse (forse anche molto diverse…) da quelle che vigevano al momento dell’intervento iniziale, con conseguente perdita di adattabilità dalle conseguenze potenzialmente disastrose. Sarebbe quindi preferibile utilizzare materiale propagativo adatto non alle attuali, ma alle future condizioni climatiche, da prelevare laddove oggi si verificano quelle condizioni che in futuro coinvolgeranno l’area in cui si interviene. È la cosiddetta “migrazione assistita”, definizione coniata nel 1992 dai genetisti forestali Ledig e Kitzmiller.

Ovviamente, le cose non sono così semplici come potrebbero sembrare a prima vista. Intanto per la difficoltà di effettuare previsioni sui futuri andamenti climatici sufficientemente attendibili, e poi perché i rischi di creare “confusioni ecologiche” con immissioni non sufficientemente verificate sono sempre presenti. È vero che in questi casi di solito si parla di trasferire provenienze (o potremmo dire popolazioni, se non proprio ecotipi) della stessa specie, per cui i rischi sembrano ridotti: tuttavia è opportuno sempre fare molta attenzione. Ad esempio effettuando rigorosi e approfonditi studi, che mettano in evidenza le caratteristiche ecoclimatiche dei siti di provenienza e destinazione del materiale di propagazione. Studi che dovrebbero anche verificare, dapprima su scala ridotta, se quanto proposto può essere percorribile e, se sì, con quali modalità operative. Importante anche la successiva fase di monitoraggio, che deve essere regolare e attenta. Si tratta, come è evidente, di sperimentazioni lunghe, costose e per certi versi anche poco stimolanti, in grado di fornire con difficoltà quei risultati rapidi ed eclatanti che alcuni ricercatori pongono come obiettivo primario della loro attività. È d’altra parte evidente che se non si comincia, i processi lunghi saranno sempre irraggiungibili…

Conservare le foreste e i suoi processi naturali

Alessandro Bottacci

 

Le foreste del mondo coprono attualmente quasi 4 miliardi di ettari, pari al 31% delle terre emerse. A partire dal neolitico (circa 15.000 anni fa) l’uomo ha distrutto (per agricoltura, pastorizia, tagli forestali, urbanizzazione, desertificazione indotte, ecc.) circa il 45% delle foreste originarie (oltre il 5% solo negli ultimi 20 anni). Alla base di questa distruzione del patrimonio boschivo mondiale vi è una visione parziale e pericolosa del rapporto uomo/bosco.

Le foreste sono spesso considerate come un semplice insieme di alberi, che ha, come scopo principale, la produzione di legna (da ardere e da cippato) e/o di legname da opera. Questa visione riduzionistica è molto diffusa, specialmente nel mondo dei tecnici forestali.

In realtà, con l’ampliarsi delle conoscenze scientifiche, gli ecosistemi forestali sono sempre più considerati come sistemi biologici, complessi, autopoietici, adattativi. Questi sistemi sono cioè composti da molti organismi collegati tra loro da una fitta rete di relazioni. Hanno la capacità di organizzarsi autonomamente seguendo dei processi naturali, con lo scopo di adattarsi di volta in volta al mutare delle condizioni ambientali, essendo essi stessi capaci di modificare le condizioni ambientali.

Alla base della funzionalità degli ecosistemi forestali si trova un elevata biocomplessità. Il termine biocomplessità tiene conto non solo della varietà di specie presenti in un ecosistema (comunemente indicato con il termine biodiversità), ma anche la rete di collegamenti tra di esse. Più un ecosistema è evoluto e indisturbato e più alta è la sua biodiversità.

Per questo le foreste vetuste, dove l’uomo ha inciso in misura minore, sono più ricche di complessità e, di conseguenza, presentano maggiori valori di resistenza (capacità di non perdere il proprio equilibrio), di resilienza (capacità di recuperare l’equilibrio al cessare del disturbo esterno) e di adattabilità (capacità di modificare la propria struttura e composizione per adeguarsi ad una nuova situazione ambientale stabile).

La Biocomplessità di un ecosistema forestale è, poi, dipendente dal tempo e dallo spazio.

Il tempo è un’altra caratteristica necessaria per ottenere foreste resiliente. Il ciclo di vita di un albero (dalla nascita dal seme alla morte e decomposizione) richiede vari secoli. Troppo spesso l’uomo si approccia alle foreste con un parametro temporale umano, dimenticando che, rispetto all’uomo, il tempo degli alberi è decisamente più lento. Ogni tentativo di velocizzare la crescita di una foresta, ad es. attraverso tagli di diradamento, si trasformano in un disturbo, che influisce negativamente sulla vitalità del sistema. Al contrario alcuni interventi (come i tagli rasi) vanificano l’azione positiva del tempo.

Non possono esistere foreste funzionanti su superfici ridotte e frazionate. Gli studi indicano in almeno 500 ha la superficie forestale minima vitale, priva di disturbi antropici.

Lo spazio permette di poter essere presenti, in un’adeguata superficie, tutti gli stadi funzionali-strutturali della foresta: dalla fase giovanile a quella adulta, a quella di invecchiamento e morte. Il tutto non avviene contemporaneamente su tutta la superficie ma secondo un mosaico molto variegato.

Occorre inoltre considerare che esiste non solo lo spazio bidimensionale (la superficie del bosco), ma anche la sua terza dimensione, quella verticale. Gli ecosistemi forestali sono particolarmente caratterizzati dallo spessore ecologico, cioè dalla porzione di spazio verticale che va dagli apici più profondi delle radici fino alle parti più alte della chioma. Anche in questo caso, l’aumento dello spesso ecologico aumenta positivamente la biocomplessità.

La porzione della foresta che si sviluppa sotto la superficie del suolo è estremamente importante; nel suolo infatti si svolgono le interazioni più importanti, tanto che le radici sono considerate il cervello della foresta. Nel suolo gli alberi si scambiano le sostanze e l’acqua, ma anche molte informazioni attraverso una fittissima rete di ife fungine che collegano gli apici radicali tra loro, anche tra specie arboree diverse. Questa rete è chiamata rete micorrizica o, con un termine inglese più diffuso, Wood Wide Web (l’ampia rete del bosco). Attraverso la rete si scambiano informazioni, acqua, sostanze nutritive, zuccheri, trasformando i singoli alberi in una parte di un sistema più complesso, il tutto sotto la direzione degli alberi più vecchi, chiamati alberi madre. Naturalmente perché la rete micorrizica si sviluppi occorre un tempo adeguato (almeno vari decenni) senza disturbo. Occorre un suolo evoluto e ricco, che non sia solo il supporto fisico degli alberi, ma il luogo delle interazioni di tutto l’ecosistema.

L’ecosistema forestale è un sistema molto forte ma anche molto delicato. Ogni intervento di taglio rappresenta un disturbo che semplifica la complessità e riduce i benefici ecosistemici forniti dalla foresta.

Purtroppo una serie di provvedimenti normativi (Testo unico delle foreste e delle filiere forestali, le leggi forestali regionali, gli incentivi alla selvicoltura, gli incentivi all’uso di legno vergine come fonte energetica, ecc.), in Italia e in Toscana, stanno seguendo sempre più un indirizzo industriale-utilizzativo piuttosto che quello conservativo-responsabile. Alla base vi è un mercato “drogato” da tanti fondi europei, nazionali e regionali, che spingono alla liquidazione del patrimonio forestale, accumulatosi grazie a decenni di perdita di interesse da parte dei boschi. A causa di questi incentivi e per colpa della scelta di spingere la filiera legnosa basata sul taglio ceduo e sull’uso del cippato per alimentare le centrali termoelettriche, si sono affermate ditte boschive di carattere industriale che operano su vaste superfici e con mezzi di grandi dimensioni.

Queste ditte boschive sono sradicate dal territorio ed operano spesso ai limiti della legalità, sia per quanto riguarda il rispetto delle norme di sicurezza del lavoro, sia per quanto riguarda le assunzioni e la contribuzione degli addetti, sia per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti legnosi e l’aspetto fiscale.

In conseguenza di tutto questo si creano ampi margini di guadagno a scapito sia dei proprietari boschivi (pubblici o privati), sia a scapito delle foreste come bene comune, capace di fornire ecobenefici come assorbimento dell’anidride carbonica, produzione di ossigeno, mitigazione del clima, conservazione del suolo, regolazione del regime delle piogge, difesa dalla perdita di biodiversità, ecc.

Negli ultimi anni si è diffusa una informazione distorta sulla consistenza del patrimonio forestale nazionale. Da varie parti si esalta l’aumento delle foreste italiane. SU questo punto occorre fare un doveroso chiarimento. Prima di tutto la crescita della superficie forestale evidenziata dall’ultimo inventario nazionale del 2015, fa riferimento ai primi anni cinquanta, quando il nostro Paese aveva segnato il livello più basso di copertura forestale della storia. In secondo luogo l’incremento della superficie, così tanto declamato, è legato sia ad una modifica di definizione statistica di bosco (per cui sono stati inclusi nella superficie forestale anche le aree di arbusteti e simili), sia nell’inclusione nella superficie forestale dei boschi di neoformazione (aree ex agricole nelle quali si hanno i primi stadi di ricolonizzazione da parte della vegetazione forestale). In conclusione i dati parlano di un patrimonio ancora povero e semplificato, ancora debole e difficilmente capace di rispondere in modo efficace alle sfide climatiche in atto.

La povertà dei nostri boschi è evidenziata se, invece di parlare di superficie, si parli di volume unitario delle foreste. Il valore medio italiano è ancora molto basso (165 m3/ha) rispetto ai valori di Paesi forestalmente più evoluti come l’Austria e la Germania (entrambi con volumi unitari superiori a 360 m3/ha).

Ad aggravare la situazione rispetto all’ultimo inventario forestale del 2015, ci sono situazioni negative come i danni dell’uragano Vaia (2018), la conseguente infestazione di bostrico dell’abete rosso, la recrudescenza degli incendi boschivi, specialmente dopo la soppressione del Corpo forestale dello Stato avvenuta nel 2016.

La Toscana è la regione più ricca di boschi. Sia come superficie che come volume totale. Ci si aspetterebbe una politica forestale attenta, considerato anche il fatto che, proprio in Toscana, è nata la storica Scuola forestale italiana. Ci si aspetterebbe una legislazione forestale attenta alla conservazione di questo patrimonio, costruito da generazioni di buon governo, invece oggi questa regione è una di quelle meno attente e più tolleranti verso le utilizzazioni industriali, volte esclusivamente a massimizzare il profitto, non tenendo conto degli effetti negativi (ambientali ed economici) di questo tipo di indirizzo.

Da un’analisi del Global Forest Watch si evince che, nel periodo dal 2001 al 2023, la Toscana ha perso 96.500 ha di copertura forestale, pari all’8,9% della copertura forestale riferita all’inizio del periodo. È importante infatti chiarire che, dopo il taglio raso, la superficie forestale catastale rimane invariata, mentre diminuisce decisamente la copertura e il volume, influendo negativamente su tutti gli ecobenefici forniti dal bosco.

Boschi semplificati, poveri e antropizzati non riescono a svolgere a pieno le funzioni produttive e protettive che potrebbero fornire. Di fronte ai sempre più intensi e frequenti eventi meteorici “eccezionali”, il territorio privato della copertura forestale è più vulnerabile, come dimostra la cronaca dei disastri ambientali più recenti.

La risposta a questa situazione deve essere veloce e decisa. Dovranno essere adottare norme più restrittive e conservative, limitando lo strapotere delle ditte che agiscono con criterio minerario. Si dovrà produrre politiche forestali più attente con azioni concrete come l’abolizione del taglio ceduo e del taglio raso (a partire dai boschi di proprietà pubblica e comunale), la interruzione degli incentivi alle biomasse da legno vergine, l’incentivazione all’avviamento a fustaia di tutti i cedui, il rispetto totale della vegetazione ripariale lungo i corsi d’acqua, l’adozione di sistemi selvicolturali basati sulla copertura forestale continua, la messa in atto di interventi (anche con finanziamenti pubblici) di restauro forestale e di rimboschimenti, l’aumento del volume unitario di necromassa (piante morte in piedi o a terra), la previsione di un volume forestale minimale al di sotto del quale non potranno scendere nessun bosco (in genere volumi superiori a 300 m3/ha), ecc.

Occorre assolutamente cambiare il paradigma di riferimento, puntando verso la massimizzazione della complessità delle foreste in modo da massimizzare anche i loro effetti benefici.

Le foreste sono il sistema biologico più efficace ed economico per contrastare e rallentare il fenomeno del global change. Il Pianeta ha bisogno di regolare la temperatura atmosferica, recuperare l’equilibrio del ciclo dell’acqua (fermando la perdita vertiginosa di acqua dolce a cui si assiste ogni giorno di più), riequilibrare il rapporto tra ossigeno e anidride carbonica, tutelare la biodiversità e proteggere il suolo.

Occorre quindi tutelare i processi naturali ed evitare più possibile le tante azioni (in primis certi interventi selvicolturali) contro tali processi, richiedendo una gestione consapevole ed ecocentrica e abbandonando la visione antropocentrica che ha provocato e provoca gravi danni alle foreste in tutto il mondo.

Ricordiamo quello che ha scritto un grande forestale, J.H. Cotta, nel suo Trattato di selvicoltura del 1814: “Non è il bosco ad avere bisogno dell’Uomo, ma è l’Uomo che ha bisogno del bosco”.

Il ripristino della Natura

Giovanni Cordini

 

IL REGOLAMENTO 2024/1991 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO DEL 24 GIUGNO 2024 IMPEGNA GLI STATI DELL’UNIONE EUROPEA AD ATTUARE NORME PER IL “RIPRISTINO DEGLI ECOSISTEMI”: CONTENUTI E AMBITI DI APPLICAZIONE

Il Parlamento Europeo ha approvato, in via definitiva, il Regolamento 24 giugno 2024 n. 2024/1991 (in GUUE 24 luglio 2024) sul ripristino della natura. Da questa data gli Stati membri hanno l’obbligo giuridico di dare corso alle disposizioni contenute nel testo che si compone di 23 articoli. Sono varie le motivazioni che hanno indotto la Commissione Europea a sottoporre al Parlamento Europeo e al Consiglio questo progetto di regolamento avente per oggetto il ripristino della natura. Una prima evidenza rileva che la perdita di biodiversità e il conseguente degrado degli ecosistemi, nonostante le varie iniziative internazionali e gli impegni di numerosi Stati, risultano in aumento. Nella relazione che introduce la proposta la Commissione fa riferimento, in particolare: a) alla comunicazione della Commissione dell’11 dicembre 2019 dal titolo “Il Green Deal europeo”; b) alla Convenzione per la diversità biologica, di cui l’Unione e gli Stati sono parti; c) alla conferenza delle parti della convenzione sulla diversità biologica, tenutasi dal 7 al 19 dicembre 2022; d) agli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite; e)  alla strategia dell’Unione sulla biodiversità per il 2030 che stabilisce l’impegno a proteggere giuridicamente almeno il 30%  della superficie terrestre, comprese le acque interne e il 30% dei mari dell’Unione. La salute degli ecosistemi viene ritenuta essenziale per il benessere collettivo in quanto gli ecosistemi forniscono alimenti e sicurezza alimentare, acqua pulita, pozzi di assorbimento del carbonio e protezione dalle catastrofi naturali provocate dai cambiamenti climatici. Il progetto, dunque, introduce misure dirette a ridurre lo sfruttamento dei sistemi naturali oltre le loro capacità di adattamento promuovendo, in ambito comunitario europeo, azioni dirette a meglio proteggere e rispristinare le aree naturali degradate per invertire la perdita di biodiversità. Adottando una proposta di regolamento la Commissione ha ritenuto necessario procedere entro termini ben definiti, predisponendo un atto giuridicamente vincolante. La Commissione, dunque, ha confermato l’indirizzo espresso dal Parlamento Europeo nella Risoluzione del 9 giugno 2021 riguardante le strategie europee per il 2030 in materia di biodiversità. Come è noto, infatti, il regolamento entra in vigore all’atto della definitiva approvazione e risulta vincolante per tutti gli Stati membri. Non posso avere, in questo primo commento riassuntivo, la pretesa di prospettare un esame esaustivo di un testo che si compone di ben 91 considerazioni introduttive 28 articoli e cinque corposi allegati. In questa sede propongo un primo sommario excursus di questo complesso atto giuridico europeo che dovrà trovare attuazione da parte degli Stati membri dell’Unione entro i termini a cui farò riferimento nella fase conclusiva di questa rassegna.

Il regolamento adottato dall’Unione Europea si inserisce nel ben più ampio quadro dell’azione ambientale comune delineata come Green Deal e, più specificamente, nell’ambito del “piano strategico per la biodiversità 2011-2020” ove sono delineate le azioni da intraprendere entro l’anno 2030 al fine di portare a zero la perdita di zone di maggiore importanza in termini di biodiversità, con particolare riferimento agli ecosistemi di elevata integrità ecologica. La conservazione, il ripristino e l’utilizzo sostenibile degli ecosistemi, a giudizio degli estensori del regolamento, risulterebbero indispensabili per conseguire gli obiettivi di sviluppo sostenibile tracciati nell’ambito delle azioni promosse dalle Nazioni Unite. Di conseguenza l’azione comunitaria viene considerata coerente rispetto agli indirizzi globali approvati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La strategia europea sulla biodiversità intende garantire che non si verifichi un ulteriore deterioramento dello stato di conservazione degli habitat, prospettando un’adesione all’idea di “non regressione” prospettata dalla dottrina giuridica (Cfr. M. PRIEUR e G. SOZZO, Le principe de non règression en droit de l’environnement, Bruylant, Bruxelles, 2022; M. PRIEUR, L’émergence du principe de non régression  ou l’illustration du rôle de la doctrine dans la crèation du droit de l’environnement in Rivista Quadrimestrale di Diritto dell’ambiente, 2021, 2, pagg. 19 e sgg). Per conseguire questi obiettivi, a giudizio degli estensori del regolamento, sarebbero necessari non solo vincoli e sanzioni ma anche impegni volti a ripristinare, gli ecosistemi degradati in tutto il territorio dell’Unione per assicurare, per quanto possibile, il recupero degli habitat naturali e delle specie di fauna e flora selvatiche protette. La proposta, nelle considerazioni introduttive indica ampiamente tutti gli obiettivi che, mediante atti giuridici adottati in precedenza, nella forma di regolamenti e direttive, l’Unione ha indicato al fine di assicurare il sostegno comune alla politica ambientale europea. In ambito scientifico sembra opportuno valutare la relazione tra l’attuazione di un’efficace politica ambientale e le condizioni e modalità che   possono giustificare gli interventi, sempre problematici e delicati, che agiscono su ecosistemi già degradati. Sarà bene tenere presente, inoltre, che i “considerando”, pur non avendo un’efficacia giuridica diretta, consentono di comprendere gli orientamenti e le finalità dell’atto giuridico e di valutare i confini entro cui opera l’azione comune messa in atto dalla Commissione e avvalorata dal Parlamento e dal Consiglio con l’approvazione definitiva del regolamento. Per gli specialisti, una adeguata lettura delle considerazioni introduttive, riesce, perciò, assai opportuna e può consentire di accertare anche le difficoltà, i limiti, i compromessi che si sono determinati nel processo formativo dell’atto al fine di conciliare ipotesi differenti, obiettivi interdipendenti e valutazioni difformi prospettate dagli Stati membri e dagli altri protagonisti del complesso procedimento necessario per rendere efficace un regolamento europeo. L’articolo 1 del regolamento 2024/1991 indica l’oggetto dell’atto normativo le cui norme devono contribuire: a) al recupero, a lungo termine e duraturo, della biodiversità e della resilienza degli ecosistemi in tutte le zone terrestri e marine degli Stati membri attraverso il ripristino degli ecosistemi degradati; 2)  al conseguimento degli obiettivi generali dell’Unione in materia di mitigazione dei cambiamenti climatici, adattamento ai medesimi e neutralità in termini di degrado del suolo; c) ad una maggiore sicurezza alimentare; d) all’adempimento degli impegni internazionali dell’Unione. L’atto ha un vasto ambito di applicazione definito dagli articoli da 4 a 12: a) ecosistemi terrestri, costieri e di acqua dolce; b) ecosistemi marini; c) energia da fonti rinnovabili; d) difesa nazionale (delimitazione delle esenzioni); e) ecosistemi urbani; f) ripristino della connettività naturale dei fiumi e delle funzioni naturali delle relative pianure alluvionali; g) ripristino delle popolazioni di impollinatori; h) ripristino degli ecosistemi agricoli; i) ripristino degli ecosistemi forestali; l) messa a dimora di tre miliardi di nuovi alberi. Per la realizzazione di questi obiettivi l’articolo 14 impegna gli Stati membri dell’Unione a predisporre “un piano nazionale di ripristino, quantificando la superficie che dovrà essere ripristinata per conseguire gli obiettivi tracciati dal regolamento”.  Gli Stati membri dovranno presentare alla Commissione Europea il “progetto di piano nazionale di ripristino” entro il 1° settembre 2026. La Commissione, entro sei mesi dalla presentazione del piano nazionale dovrà valutare, in collaborazione con il rispettivo Stato membro, i contenuti e le indicazioni del piano nazionale. Lo Stato membro dovrà tenere conto delle osservazioni presentate dalla Commissione e sarà tenuto a predisporre il piano definitivo entro sei mesi dal ricevimento di tali osservazioni. Il regolamento, dunque, indica, con precisione, i termini entro i quali gli Stati devono dare attuazione agli obblighi normativi che ne conseguono, in quanto atto giuridico direttamente applicabile sin dal momento della sua approvazione. Il regolamento, infine, dispone che gli Stati membri debbano effettuare un riesame del piano nazionale di ripristino entro il 30 giugno 2032 e, successivamente, almeno una volta ogni dieci anni. La Commissione dovrà effettuare un primo complessivo riesame del regolamento sui settori agricolo, forestale e della pesca entro il 31 dicembre 2033.

Come per la gran parte degli atti normativi relativi all’ambiente anche questo regolamento contiene un cospicuo e corposo insieme di “allegati tecnico-scientifici” che non sarà possibile trattare in questo contesto. Merita, tuttavia, in questa fase conclusiva della essenziale rassegna qui prospettata, fornire qualche indicazione relativa al contenuto di questi allegati. In essi vengono esaminati, in dettaglio, i tipi di habitat per i quali, gli Stati membri, devono indicare, nel rispettivo piano nazionale, le misure specifiche di ripristino che intendono adottare e i risultati che si propongono di conseguire: a) ecosistemi terrestri, costieri e di acqua dolce (all. 1); b) ecosistemi marini (all. 2); c) specie marine (all. 3); d) indicatori di biodiversità per gli ecosistemi agricoli, (all. 4); e) avifauna in habitat agricolo a livello nazionale, (all. 5); f) indicatori di biodiversità per gli ecosistemi forestali (all. 6).

Restaurare il mare?

Ferdinando Boero

 

La legislazione europea si è evoluta e, nelle sue ultime direttive, si propone di restaurare la natura. Prima intendeva proteggerla ma ora, visto che gli obiettivi di protezione non sono raggiunti, si passa al restauro. Una decisione sorprendente. Se non riusciamo a proteggere la natura significa che non riusciamo a rimuovere gli impatti che ne minano la salute e l'integrità, e che derivano dai nostri sistemi di produzione e consumo. Se non riusciamo a rimuoverli, è pensabile che un restauro abbia successo? Se una tubatura idrica perde e rovina un muro, possiamo pensare di restaurare il muro senza aver riparato il tubo? Proporre il restauro senza aver eliminato gli impatti ci porterà a brucianti insuccessi: inutile porre rimedio ai sintomi se non si rimuovono le cause.

A terra il restauro è presto fatto: si piantano alberi. Volendo, si reintroducono specie animali che un tempo prosperavano e che abbiamo sterminato, come gli orsi. Non mi voglio addentrare nel restauro terrestre, però. Dato che il pianeta è coperto per il 71% dall'oceano e che questo ha una profondità media di quattromila metri, il volume oceanico rappresenta più del 90% dello spazio abitato dalla vita. Uno spazio che "funziona" in modo radicalmente differente rispetto alla terraferma. Le "piante" o, meglio, i produttori primari (alghe e fanerogame marine), non vivono solo a contatto con il fondo marino, come le piante terrestri, ma si sviluppano, come unicellulari fotosintetici, nel volume oceanico fin dove la luce penetra e permette la fotosintesi. Il fitoplancton, composto essenzialmente di diatomee e flagellati, è una foresta invisibile che svolge funzioni essenziali senza avere una struttura che noi possiamo percepire.

Un conto è piantare alberi, altro conto è pensare di restaurare il fitoplancton! Anche perché il fitoplancton innesca il funzionamento degli ecosistemi marini con "pulsazioni", dette anche bloom, di durata relativamente breve ma di grandissima intensità. La pulsazione del fitoplancton è seguita da quella di zooplancton erbivoro, prima di tutto piccoli crostacei come i copepodi, cibo per gli stadi larvali e giovanili di pesci che, una volta cresciuti, si mangeranno tra loro, e saranno cibo per mammiferi e uccelli marini. A terra le piante costituiscono il paesaggio vivente e sono l'ossatura di tutti gli habitat, in mare no: gli elementi funzionali di base, i produttori primari, sono microscopici e vivono sospesi nell'acqua. Sul fondo marino, a parte le prime decine di metri dove arriva luce sufficiente, la copertura biologica è prevalentemente animale.

Dato che restaurare il plancton è praticamente impossibile, gran parte del restauro marino si sviluppa a livello del benthos, cioè degli organismi che vivono a contatto con il fondo. Le procedure di restauro sono identiche a quelle praticate a terra: si ripiantano le specie danneggiate dalle nostre attività. Il riscaldamento globale fa morire la grande barriera corallina australiana? E noi ripiantiamo quei coralli, magari avendo selezionato qualche ceppo resistente alle alte temperature, visto che l'Australia continua a usare il carbone e a causare il riscaldamento globale che uccide i coralli. Duemila chilometri di Grande Barriera si restaurano piantando qualche corallino qua e là? Lo stesso ci proponiamo, in Mediterraneo, per le piante marine, prima di tutto la posidonia. In questo caso l'impresa è votata sicuramente al successo, ma non per merito nostro: la posidonia sta attraversando un periodo di rigoglio, indipendentemente dalle nostre attività. Anzi, proprio a causa delle nostre attività.

Per restaurare qualcosa è necessario conoscerla bene, anche per capire se ci si vanta meriti non propri. Le praterie di posidonia sono un habitat prioritario della Direttiva Habitat e sono state a lungo considerate a serio rischio di estinzione, a causa di nostre attività, prima di tutto lo sviluppo costiero, la pesca industriale, gli ancoraggi, l'inquinamento. Non a caso la rete Natura 2000, in Mediterraneo, comprende principalmente le praterie di posidonia. Oggi, però, le cose si stanno rimettendo a posto, paradossalmente proprio a causa del nostro impatto globale che genera l'innalzamento delle temperature.

Posidonia oceanica è un relitto della Tetide, il bacino oggi occupato dal Mediterraneo e che, in passato, era connesso con l'Indo-Pacifico. Era un mare tropicale, come mostrano le tracce fossili di formazioni coralline del passato. Cinque milioni di anni fa la connessione con l'Oceano Indo-Pacifico si occluse e la Tetide evaporò, visto che le piogge portavano meno acqua di quella che evaporava, proprio come succede anche oggi. Nelle parti più profonde della Tetide restarono stagni molto caldi e salati, dove sopravvissero diverse specie, tra cui la posidonia. Quando si aprì lo stretto di Gibilterra, l'acqua atlantica formò l'attuale Mediterraneo, popolandolo con una fauna e una flora di affinità atlantica, diverse da quelle originali, di affinità indo-pacifica. Alcuni relitti tetidei, però, riuscirono a sopravvivere a caldo e salinità estremi, e ad adattarsi alle nuove condizioni, più temperate delle precedenti: la posidonia è tra questi. Fino a una cinquantina di anni fa questa fanerogama si riproduceva solo asessualmente e gli eventi di fioritura e la germinazione di nuove piante erano quasi sconosciuti. Le condizioni del Mediterraneo erano ben diverse da quelle ideali per questa pianta che, comunque, prosperava asessualmente, senza produrre fiori e frutti. A partire dalla fine degli anni settanta, però, si iniziarono a registrare fioriture di posidonia che, però, non portavano alla formazione di frutti; in seguito i fiori diedero frutti e, dopo qualche decennio, i frutti iniziarono a produrre semi che germogliarono. Le condizioni del Mediterraneo stavano diventando favorevoli alla crescita e alla riproduzione sessuale della posidonia... grazie al riscaldamento globale!!! Una pianta tropicale vive bene in un ambiente che si sta tropicalizzando! Lo stesso vale per le tartarughe marine, oramai arrivate a nidificare anche nelle parti più settentrionali del Mediterraneo dove, prima, la loro presenza era solo occasionale e dove di nidi non si vedeva l'ombra. I rettili stanno bene al caldo, proprio come la posidonia!

Ritenute in passato specie a rischio, posidonia e tartarughe non sono mai state così bene. Giustamente abbiamo cercato di proteggerle da vari impatti come interramenti, pesca distruttiva, ancoraggi, inquinamento e abbiamo inserito la posidonia tra le specie di importanza comunitaria nella Direttiva Habitat e le tartarughe sono protette e accudite, ogni volta possibile, ma la rinascita delle due specie non è dovuta a "restauro": semplicemente, sia la posidonia sia le tartarughe sono favorite dal riscaldamento globale. Il restauro di pochi lembi di posidonia per recuperare le piante perdute a seguito di nostre attività è ben poca cosa, rispetto all'estensione delle praterie. Oggi non stanno bene grazie al restauro, ma grazie all'instaurarsi di nuove condizioni favorevoli.

Ovviamente, quel che fa bene ad alcune specie è letale per altre: le alte temperature causano morie di specie ad affinità temperata, come le gorgonie. Quando le condizioni cambiano, ci sono specie che "vincono" e specie che "perdono". Se una specie "perde" a fronte di nuove condizioni e, al suo posto, ne arrivano altre che "vincono", è saggio tentare di eradicare i nuovi vincitori, di solito considerati alieni "cattivi", per reinstallare i "vinti"? Che garanzie ci sono che riportare gli habitat alla struttura antecedente gli impatti (prima di tutto il cambiamento climatico) si rivelerà un'impresa di successo? Per loro fortuna, posidonia e tartarughe non sono ritenute perfidi alieni invasori, e quindi nessuno è allarmato per il loro nuovo rigoglio, ma molte specie tropicali si sono insediate grazie alle nuove condizioni e stanno gradualmente realizzando nuovi ecosistemi. Se le eradichiamo non riporteremo le specie di "prima", perché le nuove condizioni ambientali non lo permettono.

A volte, invece, si può tornare indietro, ma non con il restauro. Il degrado trofico, accanto al riscaldamento globale, è il cambiamento più drammatico verificatosi in Mediterraneo a partire dagli anni cinquanta, con l'avvento della pesca industriale. L'efficienza dei sistemi di prelievo ha decimato i grandi predatori, dai tonni agli squali; quando questi arrivarono sull'orlo dell'estinzione commerciale, passammo ai predatori di livelli trofici inferiori. Le reti trofiche marine sono molto lunghe, con carnivori che mangiano carnivori che mangiano altri carnivori. Scendendo nelle reti trofiche le abbiamo degradate, fino ad arrivare agli erbivori, come le salpe. I carnivori che non ci sono più sono allevati in gabbie, nutriti con farine di pesce derivanti da pesci di piccola taglia e di scarso valore commerciale: semplicemente una follia insostenibile.

Restaurare le popolazioni di pesci e squali prevede azioni sulla colonna d'acqua, un ambiente molto dinamico e mutevole. Possiamo pensare di ricostituire i grossi predatori reimmettendoli nell'ambiente, come abbiamo fatto con l'orso in Trentino? Non ce n'è bisogno. Se smettiamo di prelevare industrialmente i pesci, le loro popolazioni si ricostituiscono rapidamente, visto che ogni femmina produce migliaia di uova, a differenza di quel che avviene per i vertebrati terrestri. Se il prelievo industriale viene limitato, le popolazioni ittiche si ricostituiscono. Non c'è bisogno di restauro attivo, basta rimuovere l'impatto. Lo dimostrano le rigogliose popolazioni ittiche nelle aree marine protette con buona gestione, e la ripresa di popolazioni quasi sull'orlo dell'estinzione commerciale, come il tonno rosso, a seguito di limitazioni dei prelievi. Se il recupero è rapido per i pesci ossei, l'impresa è più difficile per squali e razze, non altrettanto prolifici.

Una volta ricostituite le popolazioni, il prelievo deve essere modulato in modo da non compromettere il rinnovo delle popolazioni bersaglio. Purtroppo, con l'eccezione della pesca del tonno, sottoposta a limitazioni, oggi l'industria della pesca sopravvive a seguito di sovvenzioni. Che significa? Se la pesca industriale fosse redditizia, la spesa per praticarla sarebbe inferiore alla resa derivante dalla vendita del pescato. Attualmente operare un peschereccio industriale costa molto di più dei guadagni derivanti dalla vendita del pesce che il peschereccio riesce a pescare. In una situazione del genere, gli operatori dei pescherecci fallirebbero, il numero di pescherecci diminuirebbe, magari si svilupperebbero modalità di prelievo meno distruttive, e le popolazioni di prede si riprenderebbero. Per "difendere" il reddito dei pescatori, invece, li sovvenzioniamo in modo che possano continuare a pescare e a distruggere le risorse che dovrebbero garantire il loro benessere. Un suicidio economico ed ecologico! Poi, magari, investiamo altri fondi per restaurare le popolazioni depauperate. Magari reimmettendo avannotti che dovrebbero fondare nuove popolazioni! Ma che futuro avrebbero queste popolazioni restaurate se il prelievo industriale continuasse ad essere sovvenzionato? I tonni rossi sono tornati in Mediterraneo perché sono state imposte quote di prelievo, senza particolari restauri.

Le azioni di restauro marino sono di solito focalizzate su determinati habitat, la cui struttura viene "indirizzata" verso stati ritenuti ideali: di solito gli stati del passato. L'approccio a livello di habitat, però, contrasta con i concetti sviluppati dopo la direttiva Habitat: l'approccio ecosistemico prevede che non sia solo la struttura ad essere considerata (l'habitat, di solito di fondo) ma che i vari interventi debbano riguardare le funzioni ecosistemiche. Un habitat prospera se prospera l'ecosistema di cui fa parte e, in mare, gli ecosistemi dipendono da quel che avviene nella colonna d'acqua. Ed eccoci tornare al fitoplancton e allo zooplancton erbivoro, a sostenere le parti basali degli ecosistemi marini.

Non basta restaurare qualche habitat, quindi, visto che gli ecosistemi marini funzionano grazie a un comparto microscopico (fito e zooplancton) di difficile manipolazione. D'altra parte gli habitat bentonici contribuiscono anch'essi al funzionamento degli ecosistemi. In queste condizioni, il restauro è analogo a un'operazione di chirurgia plastica che tenti di ridare giovinezza a un corpo molto segnato dall'età. Il passato non ritorna, e il vecchio si rinnova con nuove soluzioni e non con qualche "puntello" estetico. Le nuove soluzioni sono i nuovi ecosistemi, dove dominano specie adattate alle nuove condizioni. In quest'ottica la "conservazione" e il "restauro" assumono anche in ecologia il significato che da sempre hanno in politica: scarsa propensione al cambiamento e tendenza al mantenimento dello statu quo.

Dare l'illusione che si possa ricostituire quel che non c'è più induce a pensare che si possa distruggere, per poi restaurare. Un atteggiamento analogo alla convinzione che, una vota protetta un'area, ci sia facoltà di alterare i territori circostanti con attività antropiche non rispettose dell'ambiente. Le intenzioni di restauratori e conservatori della natura sono encomiabili e non è lecito pensare che agiscano con secondi fini. Si tratta, comunque, di atteggiamenti che interferiscono con i processi naturali. Come insegna la medicina: prevenire è meglio di curare. Occorre rimuovere le cause del degrado ambientale, per fare in modo che non ci sia bisogno di restaurare quel che abbiamo rovinato. Se questo fosse un atteggiamento diffuso, il restauro diventerebbe necessario, e lecito, solo in casi di incidenti acuti che compromettano le condizioni naturali in aree circoscritte, come il naufragio di una petroliera. In questi contesti il restauro non è una novità ed è viene chiamato "bonifica": l'azione tesa a far tornare in buone condizioni un sito contaminato. La bonifica dei siti contaminati è una forma di restauro ed è bene che venga perseguita, a patto che cessino le contaminazioni.

Il restauro marino si dovrebbe basare sulla conoscenza della struttura e delle funzioni degli "oggetti" da restaurare: biodiversità a livello di specie ed habitat, e funzionamento degli ecosistemi. Dato che le nostre conoscenze sono molto limitate, sia riguardo alla biodiversità marina sia riguardo agli ecosistemi, per non parlare dei collegamenti tra la struttura e le funzioni dei sistemi viventi, ogni intervento al riguardo si basa su profonda ignoranza. Dovendo applicare il principio di precauzione, è senz'altro meglio rimuovere gli impatti e astenersi dall'interferire con sistemi che conosciamo solo approssimativamente: la natura, di solito, si restaura benissimo da sola.

Foreste da ricollocare

Paolo Pupillo

 

Lo status e la funzione delle foreste sono diventati un punto nodale dei dibattiti su ambiente, clima che cambia, antropocene ed estinzioni in corso. In questa diversa prospettiva occorre riflettere con rinnovato spirito critico sulla considerazione giuridica e la stessa collocazione del settore forestale: come trattare dunque le foreste in senso burocratico (e in molti altri sensi)? Il discorso è complesso: partiamo da lontano.

Se per gli Italiani poco più di un secolo fa la natura quasi non esisteva, o non era comunque soggetto di interesse ai fini della conservazione, quando anche i naturalisti erano dei gran cacciatori, tuttavia molti monumenti di importanza storica o architettonica si consideravano degni di tutela; e, con essi, anche alcuni monumenti naturali di particolare pregio soprattutto paesaggistico, compresi i “monumenti” forestali. La situazione e l’atteggiamento della gente in questo campo sono stati ben documentati da Luigi Piccioni in molti scritti e ora nel suo recente libro (“Parchi naturali. Storia delle aree protette in Italia”) pubblicato nel centenario dei primi nostri parchi, Gran Paradiso e Abruzzo. Benché gli Stati Uniti avessero istituito la prima area protetta fin dal 1864 (Yosemite) e nel 1872 il grande Parco nazionale di Yellowstone, il primo provvedimento italiano in difesa di qualcosa di “naturale” fu la legge Rava del 1905 a favore di ciò che restava dell’antica foresta delle Pinete ravennati. Ciò grazie alla loro rilevanza storico letteraria (Dante e Boccaccio: la novella di Nastagio degli Onesti); a prescindere dalla reale “naturalità” di questa formazione arborea, che si fa risalire a impianti di pini sulle dune costiere in epoca almeno medievale, se non già romana.

Ciò per ricordare che poco più di un secolo fa una idea della natura vivente come patrimonio meritevole e bisognoso di tutela per il suo valore intrinseco, per il fatto stesso di esistere – diciamo una concezione etica della natura - era circoscritta in Italia a una minuscola élite. Quella stessa concezione etica che oggi è divenuta in qualche modo patrimonio di gran parte dell’umanità, almeno a parole; perché nei fatti, lo sappiamo bene, la distruzione della natura procede senza sosta in gran parte del mondo (e l’Italia è ai primi posti per consumo dissennato del suolo). Se il genio visionario di Edward O. Wilson chiedeva la salvaguardia del 50% del Pianeta per prevenire l’estinzione di massa in arrivo (E.O. Wilson ”Metà della Terra. Salvare il futuro della vita”), oggi ci si accontenterebbe di un 10-20%. E leggiamo sui media di proposte al ribasso, come quella di tutelare dallo snaturamento antropico nientemeno che l’1% delle terre emerse!

Ma tornando alle nostre foreste, c’è da aggiungere che anche la legge per le pinete ravennati fu una eccezione. Benché percepiti come qualcosa di estraneo alla civiltà, quasi di alieno (quindi “foresto”, in quanto rifugio di lupi, orsi e orchi), i boschi sono sempre stati un bene territoriale come gli altri. Largamente di proprietà privata, o ecclesiastica (ad esempio le foreste toscane dei Camaldolesi), o sociale (le “comunità”, “comunanze”, come quelle dei boschi fiemmazzi), o in minor misura appartenenti al demanio degli staterelli italiani, il loro sfruttamento era una fonte di reddito, oltre che risorsa importantissima per gli Stati marittimi e navali. Ancora negli anni a cavallo della metà dell’Ottocento le antiche foreste della Sardegna vennero smantellate per finanziare i debiti del Regno di Sardegna (appunto) e poi dello Stato unitario, così come nei secoli precedenti grandi boschi delle isole mediterranee e sulla terraferma greca e dalmata erano caduti sotto la mannaia dei Veneziani. E del resto ancor oggi che i boschi italiani sono in qualche misura protetti dalla legge nazionale e da norme regionali e locali, non esiste nella realtà nessun vero argine al loro abbattimento, spesso con la scusa della “filiera del legno” e della “espansione incontrollata dei boschi”; con la distruttiva fame di “cippato” da bruciare in centrali e centraline termoelettriche dette “a biomasse”. Perfino nelle aree protette italiane il taglio dei boschi è prassi normale. La verità è che non c’è difesa per i boschi.

I boschi sono per gli imprenditori del legno e dell’energia elettrica nient’altro che fonti di materiali ed “energia rinnovabile”; ma senza alcun riguardo alla sostanza della “rinnovabilità”, su cui torneremo fra poco. Compaiono tuttora proclami a pagamento del tipo “Tagliamo senza paura! perché una gestione sostenibile dei boschi fa bene all’ambiente e alla nostra economia”. Facoltà universitarie studiano lo sfruttamento “sostenibile” delle foreste e gli alberi esteri più produttivi, discipline come l’Estimo forestale si impegnano nella valutazione del legname. E in fondo che c’è di strano?  Non si chiama forse “Holz” in tedesco sia il bosco che il legno, come “wood” in inglese o “bois” in francese? Intere regioni del Nord Europa basano la propria economia su foreste-piantagioni da legno e da carta, che vengono periodicamente estirpate e rinnovate. Ovunque in Europa (e da qui nel mondo) il bosco è identificato col legname da taglio. Ancor più se i territori sgombrati dalla foresta, magari primaria, vengono convertiti in praterie per l’allevamento del bestiame o in distese di Elaeis guineensis, la palma da olio.

Naturalmente non è sempre così e non è stato sempre così. Senza rievocare i popoli raccoglitori e cacciatori, massimi custodi dei loro territori, molte popolazioni dedite all’agricoltura avevano un profondo rispetto per i boschi e per l’ambiente in generale, a cominciare dalle acque. Tracce di queste credenze le troviamo nelle letterature greca e latina più antiche, o nel nome della dea Reitia eponima del popolo alpino dei Reti: la dea delle sorgenti capace di guarire da tutte le malattie. Molti templi nell’antichità erano circondati da un bosco consacrato (lucus), la cui sacralità se violata comportava pesanti pene per gli empi, inferte dagli Dei stessi o dai loro rappresentanti in terra. E come ben ricorda Alessandro Chiarucci nel suo libro “Le arche della biodiversità”, ancora oggi molte aree sacre – a partire dal monte Fuji in Giappone – sono coperte o circondate da foreste intoccabili. Ma in generale è evidente che il mondo occidentale e la modernità hanno considerato le foreste alla stregua di fonti di legname e cacciagione, con poche eccezioni di carattere storico o paesaggistico. Sempre sotto la spada di Damocle di essere abbattute per ragioni speculative o sotto la spinta della crescita della popolazione, magari col pretesto di essere albergo di briganti e covo di belve. Ma, ci chiediamo, è almeno vero ciò che spesso si sostiene - anche da parte di gente non incolta e perfino in relazioni di accompagnamento a provvedimenti legislativi - che il taglio del bosco è a “emissione zero” di CO2, in quanto “il bosco ricresce”, dunque dal legname si ricava “energia rinnovabile”?

Ovviamente no, è una menzogna impudente. Gli alberi abbattuti certo tendono a ricacciare polloni, ma questi ci metteranno molti anni a ricrescere se tutto va bene, o anche secoli ove le condizioni di luce, acqua e terreno siano meno favorevoli, dando comunque origine a formazioni cespugliose di ceduo su suoli impoveriti e superficiali. Con l’ovvia conseguenza che lo scambio di biossido di carbonio sarà a lungo positivo (con prevalenza di rilascio!) e tornerà negativo, per forza della fotosintesi, solo a distanza di molti anni dall’intervento di taglio. Intanto la CO2 emessa in atmosfera andrà a nutrire l’incessante crescita dei gas serra che è all’origine della grande febbre del Pianeta.

Certo, alle foreste era da sempre riconosciuto qualche merito, oltre a quello di produrre legname: proteggere il suolo dall’erosione e formare il suolo “agrario” innanzitutto; trattenere, filtrare e drenare le acque meteoriche; mitigare il clima locale e assorbire gas serra, abbattere gli inquinanti. Da quando Lavoisier scoprì l’ossigeno e De Saussure la fotosintesi, alle foreste si riconosce una parte importante nell’origine e nella perpetuazione dell’aria che respiriamo. Tutto questo chi poteva negarlo? La foresta è vita per tutti, si sa ma non si dice. Infine, le foreste assicurano rigenerazione fisica e forse spirituale a quanti le frequentano, e sempre più si aprono a un turismo sportivo ormai enorme. Ma se alle industrie forestali, del legno e del cippato non è mai importato nulla di un discorso che andasse al di là del business del legno, è pur vero che da alcuni anni si fa strada una nuova consapevolezza delle importanti funzioni delle foreste sotto il velo dei “servizi ecosistemici”: aria, acqua, ombra, tanti altri benefici per l’umanità. Si tratta di un modo, se vogliamo antropocentrico, per far passare e rendere economicamente competitivo non più il taglio del bosco, ma la sua sopravvivenza e il suo accrescimento. Infatti, i servizi ecosistemici si possono misurare in una sorta di rinnovato “estimo dei servizi” che non calcola più (o non solo) i metri cubi e il costo delle cataste, ma quello che le foreste donano a noi umani rendendoci gradevole, e in realtà possibile, l’esistenza.

Sì, perché dipende interamente dalla vita delle foreste (e dalla vita nei mari, beninteso) se noi umani godiamo di un ambiente di vita piacevole o almeno tollerabile. Tanto per dirne una, ci furono epoche nella storia della Terra in cui la concentrazione atmosferica di CO2 fu più di 20 volte quella precedente alla rivoluzione industriale (e oltre 10 volte quella odierna, in vertiginoso aumento), con tutte le conseguenze sul clima di allora. Ma le enormi foreste del Carbonifero riequilibrarono la situazione, come poi - per quanto ne sappiamo - avvenne in molte altre occasioni. Intendiamoci: oggi le aree boschive non stanno diminuendo né in Italia (anzi aumentano: quasi il 40% del territorio nazionale oggi è boscato a qualche titolo), né nel mondo, perché nonostante la feroce deforestazione in corso nuove e vaste aree nell’estremo Nord vengono colonizzate dalla taiga grazie al clima più caldo. Il problema sta piuttosto nella tipologia delle aree boschive. I boschi in Italia sono per la maggior parte di bassa qualità, gracili e di origine recente; ci vorranno decenni o secoli per vederli trasformati in fustaie disetanee, ricche di specie, di suolo e di biodiversità. E quando leggiamo apprezzabili proposte di piantare tanti miliardi di alberi per far fronte (un po’) all’aumento dei gas serra, sappiamo bene che, qualora fossero realizzate, queste sarebbero pur sempre piantagioni e non foreste.

Tuttavia, vediamo che negli ultimi anni la sensibilità del pubblico per le foreste “autentiche” è grandemente aumentata. La corrente di studiosi e operatori del settore che vede nelle foreste un valore in sé e non solo un bene economico non è più di poche personalità elette e isolate. I tempi in cui Fabio Clauser ideò e quasi impose l’istituzione della prima riserva forestale integrale di Sasso Fratino sono ormai lontani. Esistono scuole universitarie orientate a una gestione forestale di tipo naturalistico, allo studio di boschi e alberi vetusti, ed esistono sodalizi (come i GUFI, Gruppo di Intervento Forestale Italiano) che si propongono esplicitamente la difesa delle foreste. E si sono formati negli ultimi anni anche in Italia un gran numero di comitati e movimenti spontanei consapevoli della posta in gioco e dell’urgenza di intervenire contro le tendenze in corso, attivissimi nel contrasto all’abbattimento di alberi e boschi. Adesso questi gruppi contano poco, ma stanno ottenendo molti successi locali e fra qualche anno saranno in grado di influenzare fortemente le scelte politiche ed economiche.

E anche questa è una buona ragione, e non l’ultima, per sostenere che oggi non ha più senso che le foreste “stiano” incardinate nel Ministero dell’Agricoltura (che, appunto, era anche “delle foreste”), poi nel Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo (2018), fino a ieri quando le foreste sono state sostituite a Roma dalla misteriosa “sovranità alimentare”. È ben vero che oggidì le foreste “stanno” più nelle Regioni (e nei Parchi) che al Ministero, e che in queste multiple sedi decentrate alloggiano spesso o di preferenza presso gli assessorati con delega alle questioni ambientali; ma ci sono competenze in materia forestale che tuttora restano in capo al governo della Repubblica. E mentre i Carabinieri forestali esercitano importantissime funzioni in tutta Italia, non dimentichiamo un buon Ministro dell’Ambiente (così si chiamava quel Ministero, prima che le Transizioni confondessero le idee) che proveniva proprio da questo nuovo ramo dell’Arma. Tuttavia, presso il Ministero dell’Agricoltura (ecc.) è sempre esistita una Direzione generale per l’Economia montana e le foreste, poi per la Valorizzazione dei Territori e delle Foreste (ahi la valorizzazione…) che per la sua incerta missione ha contribuito non poco al contestato “Testo Unico in materia di Foreste e Filiere Forestali”, voluto qualche anno fa dalla lobby del legno.

Pure, chi scrive queste note non crede che il destino delle nostre foreste sia davvero in mano alla “filiera” industrial-forestale o al Ministero dell’Agricoltura (ecc.), né alle variegate decisioni delle Regioni. Al netto di improbabili ma sempre possibili catastrofi direttamente imputabili alla avidità umana, un complesso di sagge leggi statali veglia sulle sorti a medio termine delle nostre foreste, a cominciare dalla legge Serpieri del 1923. Sicché sembrano pochi e isolati coloro che tramano seriamente contro di esse (standosene, giustamente, nell’ombra). Sì, restano ben vive e si allargano le foreste: anche se gli uomini non gli permettono quasi mai di svilupparsi come natura vorrebbe.

E tuttavia incombono altri tipi di rischi, a partire dalle sempre più frequenti crisi di bufere e alluvioni alternate a lunghe siccità (fu un brusco risveglio per tutti la tempesta Vaia nelle Alpi orientali, anno 2018), che potrebbero travolgere molti dei nostri boschi e miriadi di specie vegetali e animali ad essi legate, a cominciare dalle più fragili aree meridionali del nostro Paese. Le foreste, custodi della salute dell’aria e delle acque, delle piante, degli animali e pure degli Dei, e quindi custodi di tutti noi, meritano di essere comprese e protette ancor di più e sempre meglio nel cambiamento globale che si svolge veloce sotto i nostri occhi; meritano di essere lasciate crescere in pace verso uno stato di quasi naturalità. Salvo magari contenerle là dove siano da preservare quelle deliziose aree prative ed ecotoniche di origine antropica che conservano tanta biodiversità. Certamente non meritano, le foreste, di essere valutate solo per servire a produrre legname o “energie rinnovabili”, come pensava l’Homo Faber mentre si autoeleggeva al vertice di tutte le cose che sono (e di quelle che non sono). D’altra parte, sono pienamente legittime e da espandere le piantagioni di alberi da taglio periodico per le esigenze delle industrie. Pensiamo solo alle foreste di abeti rossi delle Alpi, in gran parte retaggio della forestazione austriaca dell’altro secolo, già ricordate con altri esempi anche più antichi, ma anche a coltivazioni più modeste come i pioppeti di pianura. Le foreste sono un’altra cosa.

Per tutti questi motivi noi crediamo e proponiamo che le competenze statali e quelle regionali per le Foreste debbano passare in toto al Ministero dell’Ambiente. Che si potrà chiamare, così noi suggeriamo, Ministero dell’Ambiente e della Natura. I due termini non sono sovrapposti né superflui: ciascuno di essi ha un suo significato e una evidenza anche per l’uomo della strada, cosa ormai rara. Questo nuovo nome dovrà essere simbolo di un rinnovato rapporto con la natura e anche un segno di ravvedimento: tardivo, ma meglio che niente. Per conservare e accrescere le foreste, sostegno del mondo.

Nature Restoration Law, la legge per il Ripristino della Natura

Riccardo Graziano

 

Il 17 giugno l’Unione Europea ha approvato la Nature Restoration Law, la legge per il ripristino della Natura, dopo un percorso complesso e travagliato, reso difficoltoso dall’opposizioni di vari Stati membri. Il punto di svolta è stato il cambio di indirizzo da parte della ministra dell’Ambiente austriaca Leonore Gewessler la quale, in contrasto con il suo stesso governo, ha deciso di appoggiare il provvedimento, permettendo di raggiungere la maggioranza qualificata di 15 paesi e almeno il 65% dei voti a favore della legge. A opporsi all’approvazione soltanto Italia, Ungheria, Paesi Bassi, Polonia, Finlandia e Svezia, in pratica i Paesi dove governano le Destre, che si sono mostrate fin da subito profondamente ostili al progetto, mettendo in campo una campagna di disinformazione vastissima, che paventava una serie di ricadute economiche negative in caso di approvazione. Al contrario, la legge è stata fortemente sostenuta dalla società civile, con in testa le organizzazioni ambientaliste - promotrici di una petizione che ha raccolto oltre un milione di firme – affiancate da 6mila scienziati, decine di imprese, anche di grandi dimensioni, consapevoli delle opportunità economiche aperte dalla conversione ecologica, oltre a centinaia di associazioni sparse in tutta Europa, di cui 32 in Italia (Actionaid, AIDA - Associazione Italiana di Agroecologia, AITR - Associazione Italiana Turismo Responsabile, Altura, Apinicittà aps, CIPRA, CIRF - Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale, Cittadini per l'Aria, CIWF Italia, ENPA, Federbio, Forum Salviamo il Paesaggio - Difendiamo i Territori, Free Rivers, Greenpeace Italia, ISDE- Medici per l’Ambiente Italia, Italia Nostra, LAV, Lega abolizione caccia – LAC, Legambiente, Leidaa, Lipu – BirdLife Italia, MareVivo, Mountain Wilderness, OIPA, Pro Natura, Rete Semi Rurali, Slow food Italia, Terra!, The good lobby, Touring Club Italiano, VAS - Verdi Ambiente e Società, WWF Italia).

La Nature Restoration Law è un nuovo, fondamentale tassello della strategia europea nota come New Green Deal e si inserisce nel solco di altri due provvedimenti basilari delle politiche ambientali UE varati ormai da tempo, le direttive Habitat e Uccelli, la cui applicazione ha portato alla creazione dei siti protetti appartenenti alla Rete Natura 2000, sui quali non a caso si concentreranno i primi interventi. La legge nasce infatti dalla constatazione che le sola protezione “formale” della Natura non basta più. Uno studio dell’Agenzia Europea dell’Ambiente pubblicato nel 2020 ha infatti reso noto che solo il 15% degli habitat presenti nel continente gode di uno stato di conservazione “buono”, a fronte di un 45% giudicato “inadeguato” e un 36% addirittura “cattivo”, oltretutto con una tendenza ad ulteriori peggioramenti. Senza contare che per alcuni siti lo stato di conservazione è semplicemente “sconosciuto”, fattore che mette in luce una preoccupante mancanza di controlli, verifiche e ricerche sull’Ambiente, settore evidentemente ritenuto (finora?) di scarsa valenza strategica.

La nuova direttiva prevede quindi l’obbligo di ripristinare almeno il 30% degli habitat in cattive condizioni entro il 2030, il 60% entro il 2040 e il 90% entro il 2050, ponendo anche attenzione a che tale ripristino sia durevole e non permetta un nuovo degrado delle zone soggette a intervento. Questo obbligherà gli Stati membri - compresi quelli che si sono opposti all’adozione del provvedimento, inclusa l’Italia – a dotarsi in breve tempo di piani strategici che indichino nel dettaglio quali misure (e relative coperture finanziarie) intendono adottare per porre in atto tali ripristini, visto che la normativa europea appena approvata è vincolante per tutti i Paesi dell’UE.

Tra i primi habitat su cui si prevede di intervenire ci sono le torbiere, fra i siti in generale più compromessi, che dovranno essere ripristinate almeno per il 30% entro il 2030 e per il 50% entro il 2050. Allo stesso tempo si dovrà iniziare a intervenire sui fiumi, ripristinando almeno 25.000 chilometri a scorrimento libero, eliminando barriere e argini, misura che nel nostro Paese, densamente popolato e a forte rischio idrogeologico, risulterò senz’altro complessa e prevedibilmente con fortissime opposizioni. Una particolare attenzione viene anche riservata alla tutela degli insetti impollinatori, il cui declino non è solo preoccupante in termini di biodiversità, ma anche per le ripercussioni che la mancanza della loro azione potrebbe avere sulla produzione di derrate alimentari. E sempre nel settore dell’agricoltura verranno valutati i progressi nella rinaturalizzazione in base al miglioramento di almeno due dei tre parametri individuati come indicatori di biodiversità: abbondanza di specie e numero di farfalle; quantità di materia organica presente nel suolo e relativa capacità di stoccare carbonio; percentuale di superficie agricola con elementi caratteristici del paesaggio con elevata diversità, quali siepi, filari di alberi, terreni a riposo, fossati, terrazzamenti con muretti a secco e così via. Inoltre, si prevede di mettere a dimora tre miliardi di alberi entro il 2030. Per quanto riguarda le città, si punta sull’arresto del consumo di suolo a scapito delle aree verdi, anzi si prevede l’ampliamento di queste ultime e un contestuale aumento della copertura arborea, una delle tante misure atte a mitigare l’effetto “isola di calore” che caratterizza i centri urbani.

La speranza è che l’adozione di tutte queste misure serva a tutelare (e incrementare) la biodiversità ancora presente in un continente altamente antropizzato e contribuisca a rallentare il decorso dei mutamenti climatici in atto o, almeno, a mitigarne gli effetti.
Basterà?

Quel che è certo è che la situazione di partenza è sensibilmente compromessa, tale da far svegliare persino le istituzioni europee, ma non abbastanza da convincere i negazionisti climatici, annidati nelle Destre europee e fra i loro elettori, in costante aumento grazie anche a efficaci strategie comunicative che parlano “alla pancia” delle persone, amplificandone le paure e le insicurezze e individuando poi nelle politiche ambientali il nemico da abbattere. Il che porta agevolmente a prevedere che, dopo la lunga battaglia per l’approvazione della Nature Restoration Law, assisteremo a una serie di scontri altrettanto radicali nel momento in cui si cercherà di applicarla. È facile immaginare cortei di trattori diesel fumanti con sopra agricoltori che rifiutano di piantare una siepe in mezzo ai loro campi coltivati in maniera intensiva, o che insistono pervicacemente nell’uso dei concimi chimici piuttosto che di quelli organici. È ancora più facile immaginare l’opposizione di interi territori alla rinaturalizzazione di un fiume che abbia provocato esondazioni negli ultimi anni, con le popolazioni locali che all’opposto chiedono argini faraonici, e così via. Opposizioni che saranno puntualmente cavalcate dalla parte politica avversa al cambiamento per ottenere deroghe, rinvii ed eccezioni che, alla fine, avranno l’esito di depotenziare notevolmente i possibili effetti positivi della direttiva emanata dall’UE.

E pensare che molti studi ormai ci dicono che ogni euro investito in tutela ambientale è in grado di produrre un ritorno economico almeno cinque volte superiore. Dunque la conversione ecologica non è solo un imperativo urgente per scongiurare il declino ambientale del pianeta e l’avvento di mutamenti climatici devastanti, ma è anche un affare dal punto di vista economico e occupazionale. Insomma, un vantaggio sotto tutti i punti di vista. Eppure, pare non si riesca a far passare questo semplice messaggio, anzi l’opinione pubblica diventa sempre più ostile a qualunque politica in favore dell’Ambiente. Un problema serio, perché rischiamo di accorgerci dell’errore quando sarà troppo tardi. L’auspicio è che questa nuova direttiva europea consenta un cambio di direzione graduale e progressivo.