Pubblichiamo un ulteriore omaggio a Francesco Corbetta, per lunghi anni Segretario e poi Presidente della Federazione Nazionale Pro Natura, recentemente scomparso. Si aggiunge ai ricordi di Valter Giuliano e Giuliano Cervi, pubblicati sullo scorso numero di “Natura e Società”.
LE ARCHE MIGRANTI
Leonardo Badioli
Non ricordo esattamente quando – ma tu neanche c'eri, amico cane – il professor Corbetta, passeggiando con me ed Elia Tomassetti lungo la spiaggia tra Ciarnin e Marzocca, fu scosso all’improvviso da un violento tremito ed emise un gridolino d’orrore facendo sobbalzare i suoi cento e passa chili di sapienza biologica: “È arrivata anche qui!”
“Cosa?”, diciamo noi, allarmati.
“Scafarca” fa lui.
“E cos’è Scafarca”.
“Scapharca inaequivalvis. Mollusco venuto dall’oriente attaccato alle navi. La chiamano ‘la giapponese’, ma a quanto pare si è ambientata benissimo in Adriatico”.
Il professore si china con flessuosa agilità e prende su due conchiglie molto simili tra loro; a noi sembrano di quelle che di solito i turisti raccolgono come souvenir, Acanthocardia, ‘Cuore d’acanto’ col nome di Linneo, o più semplicemente ‘Cuore’, sempre scelte per la forma e per i suoi colori.
“Con Acanthocardia non ha molto in comune se non una vaga somiglianza - taglia corto lui - L’orientale è più coriacea; la forma delle valve è squadrata; nel punto della loro congiunzione – fammi dire bene: nella zona ligamentare che separa i due umboni - ha uno spessore nero. Si chiama scafarca perché il guscio è capiente come fosse un’arca, come tutte le Arcidi d’altronde; ‘inequivalve’ per il fatto che la crescita sviluppa le valve in maniera ineguale”.
Apprendemmo da lui che la nuova venuta era stata classificata da Bruguière nel 1789 (si vede che in quell’anno non tutti i francesi facevano la rivoluzione) e che si tratta di una specie capace di vivere in acque costiere molto povere di ossigeno. Questa sua facilità di adattamento alle condizioni prevalenti del nostro mare opaco e poco ossigenato le permette di sottrarre spazio ad altre specie bivalvi dotate di minore resistenza. Approdata nel porto di Ravenna alla fine degli anni sessanta, aveva allargato la sua area fino ad arrivare qui da noi, con una progressione sufficientemente rapida da sbigottire i più attenti osservatori.
Non negherò che in seguito mi sono fatto bello con gli amici riprendendoli ogni volta che distrattamente raccoglievano un’orientale scambiandola per un’autoctona; l’ho fatto con tanta convinzione che alla fine vedevo scafarche dappertutto. Ricevevo in regalo un sonaglio thailandese con sette elefantini e conchigliette pendule comprato a Canton Art: erano loro. L’ho avvistata addirittura su una pubblicazione che la mia città aveva fatto stampare per propagandare la sua spiaggia e il suo mare pulito: nel lussuoso dépliant, mollemente adagiata sopra un letto di sabbia, era esibito un magnifico esemplare di Scafarca inequivalve.
“Vi siete data la zappa sui piedi - ho sghignazzato rivolto ai responsabili - avete fatto pubblicità al degrado dell’ambiente costiero”.
“Eh - banalizzava lui - ma chi vuoi che le sappia queste cose”.
“I bambini delle elementari”, ho detto io per metterli a sedere; e non era una bugia, perché tutta la mia scienza in materia di conchiglie, oltre al fatto di avere ascoltato il professor Corbetta, proveniva da un libretto per ragazzi edito nell’ottantuno: tra le specie che si trovano nei mari italiani c’era lei, Scafarca, indicata come proveniente dalle coste indopacifiche e localizzata ‘solo lungo le coste veneto-emiliane’, dove era data per ‘molto abbondante’. Dovrebbero aggiornare questo libro man mano che le popolazioni marine si vengono espandendo.
La giornata è di quelle che onorano l’inverno, con un vento tagliente di borino che non porterà neve ma del resto non ci fa mancare niente. L’altro ieri c’è stata burrasca e tutto il lido è segnato dalla linea del trasporto, minutaglia vegetale, merceologia plastica e una galassia di conchiglie di ogni tipo. Mentre tu vai ravanando tra i rifiuti spiaggiati e manifesti la tua predilezione per certe matasse vegetali schifosette e informi, io traccio sulla sabbia un perimetro quadrato (un tocco di sistematicità all’osservazione non è mai da biasimare) per vedere al suo interno che conchiglie trovo, e in quale rapporto quantitativo tra le diverse specie. Intanto per scoprire con sollievo che Acanthocardia – per quanto ormai sappia che non c'è correlazione – è tuttora prevalente su Scapharca. Ce ne sono come al solito di molti colori; tuttavia, diversamente da quanto mi ricordo, stavolta le rosse e le chiare sono in numero minore rispetto alle scure; mi domando allora se il colore non dipenda da un programma genetico che realizzano, così come esistono conigli bianchi, neri, grigi e anche fulvi, o piuttosto dalle varie sostanze che il mollusco utilizza nel luogo in cui si trova; il caso del gran numero di nere attesterebbe una morìa, quando le valve finiscono sepolte sotto la sabbia dove non c’è ossigeno; in quanto alle conchiglie variegate propendo per la seconda spiegazione, che i colori dipendano dal sedimento che quei molluschi assimilano dall’acqua in soluzione.
Perché se no sarebbero così mutevoli secondo tempo e luogo? Acantocardia avrebbe dunque suoi colori locali e temporanei, dialetti cromatici che passano dal bianco al bruno attraverso le gamme dell’arancio e del grigio, con transiti appena percettibili su un verde spento e contrappunti di giallo citrino?
Bisognerà che affronti prima o poi il rischio di dire stupidaggini e mi decida a interrogare qualcuno della biologia marina. Le valve a quanto pare si accrescono dal nucleo primitivo caricando i nuovi cerchi secondo una continuità ritmica che ne determina la trama; il risultato è una testura variegata come quei maglioni che si facevano una volta con la lana d’avanzo, a costine o rasati. Qualcuna a un certo punto della progressione evidenzia un’incertezza, una cesura che farebbe pensare a una crisi momentanea prontamente ripresa con un balzo in avanti della crescita.
Attraverso le sequenze modulari si possono leggere sviluppi temporali e caratteri del luogo in cui si sono formate: la conchiglia è la trama illustrata di un racconto: un paradigma del rapporto tra struttura e processo, diceva il vecchio Bateson; ed è appunto il suo procedere formale che la rende bella.
Lo stesso, vorrei dire, intendeva l’amico Bebo Conti provando nuovi giri alla chitarra. “Che cosa ti piace esattamente - ci teneva a sapere - e perché”; in questi casi tornava molte volte su un passaggio in cui il declinare di una tonalità maggiore in una minore poteva provocare un effetto di struggente meraviglia. Mi è sembrato che l’avere scoperto dove sta l’arcano non dissolva l’effetto; demolisce i mezzucci ma può anche approfondire l’emozione, se la trama tiene. Similmente noi possiamo scomporre le armonie o ordinare le serie biologiche, scandirle, compararle, trasformarle in numeri e comporle in equazioni: la conchiglia marina sarà sempre figlia della pietra e meraviglia per le menti dei bambini, come ai tempi di Alceo. E nel ripetere quelle parole faccio caso che il poeta dice proprio ‘menti’, ‘frenàs’, e non ricettori periferici come gli organi del tatto o della vista.
All’interno del perimetro che ho tracciato si trova una miriade di altri relitti che il mare con ondate successive ha trasportato a riva. Sono gusci di ostriche, Ostrea edulis, suppongo, e di cozze in gran numero, segno che l’onda ha battuto con forza la scogliera dove stavano attaccate e le ha strappate via; ma forse le ha portate già morte e la sua azione era soltanto una ripulitura. A Venezia le chiamano “peoci”, a Senigallia “capuloŋi” e in Ancona “mósciuli”, ma il nome scientifico (il nome del nome, direbbe ancora il vecchio B.) è Mitilus galloprovincialis. Su tutto il quadrato le sue valve, integre o frantumate, riflettono il nero dell’esterno o l’argento perlaceo dell’interno.
Un numero alto di presenze è garantito da Tellina nitida e Tellina tenuis, ovali leggeri e lucenti chiamati “calcinèi”, o “calcidòr” se sono quelli più grossetti dal colore dorato, e più ancora dal minuto Lentidium mediterraneum: dopo una mareggiata se ne trovano a milioni e formano da soli la massa più cospicua del trasporto.
Ci sono poi le vongole, Chamelea gallina, tantissime, forse scombinate dal frugare quotidiano che fanno le turbosoffianti sotto il fondo marino; più rare le vongole veraci, e questa loro rarità mi evita il confronto con un tizio che conosco, originario delle latitudini meridionali del Tirreno, che mi fa una capa tanta sostenendone il primato sulle mie poveracce. La “verace”: come se Chamelea fosse solo una bugiarda mentitrice che si spaccia per quello che non è. Con tutto il rispetto che gli porto, e concedendogli pure che sia l’altra più buona, io sono patriota: nessun Tapes decussatus soppianterà mai la freschezza salina e mattinale delle mie adriatiche.
Deriva dall’infanzia la mia preferenza: ai tempi della grande povertà, mia madre andava a raccoglierle sulla battigia, le metteva sulla piana di ghisa della cucina economica e quelle sfrigolando si aprivano; le mangiavamo appena scottate e sgocciolanti, un sapore così vivo che soltanto un’infanzia protratta dei sensi potrebbe rinnovarlo.
Tanto più preferisco le vongole nostrane se considero poi che le veraci che vendono al mercato non sono affatto tali; dovremmo chiamarle “le mendaci”; il loro nome infatti era in origine Tapes philippinarum, altra specie migrante, succedanea o addirittura sostituta della vera verace, Tapes decussatus; per confondere le idee dei compratori, le cambiarono nome: la chiamarono Tapes pseudodecussatus. Approfittando del sonno di Linneo.
Sul mucchio di conchiglie gocciolanti che abbiamo isolato affiorano anche quelle Mactra stultorum belle grosse e forse anche tontolone come dice il nome (una specie di dispensa degli scemi?); e quelle altre di cui pure non ricordo il nome, ancora più grandi, che mi fanno pensare agli unghioni di un gigante trasandato, orlati di nero; con un colpo d’occhio scovo anche un bell’Aequipecten opercularis, il cui nome locale è ‘canestrello rosa’, parente minore della grande capasanta, Pecten Jacobaeus, che vive su un fondale più profondo e contrassegna i pellegrini che ne usavano la valva come conca per bere. ‘Jacobaeus’ è per San Giacomo, Santiago de Compostela, in fondo alla Via Lattea, vicino all’oceano.
Poi ci sono le varie lumachelle, Aporrhais pespelecani, che ad Ancona chiamano ‘crucéte’ e più a nord ‘garagòi’, le cui digitazioni assumerebbero nella tassonomia la forma di una zampa di pellicano; Bolinus brandaris, il murice che localmente è chiamato ‘ragusa’, anche lui carico di storia per il fatto che i romani ne cavavano la porpora. Chissà se ai tempi nostri sarebbe così facile averne a sufficienza, sapendo che ne servivano ottomila per avere un solo grammo del prezioso colorante. Tintorie famose non erano soltanto a Tiro: in Adriatico i murici erano presenti con più varietà, di modo che anche a Rimini la porpora si produceva.
Rinvengo un certo numero di Nassarius vulgatus, ghiottoneria che qua chiamiamo ‘bumbulìŋ’ (sughetto con cipolla, spruzzo di vino bianco, conserva di pomodoro e odori dell’orto), e Nassarius reticulatus, lumachino che i pescatori detestano perché, pur essendo commestibile, non è vendibile, sporca le pescate e li costringe a una cernita piuttosto laboriosa; e ancora due lumachelle molto simili per dimensione, Neverita josephinae, tondeggiante e leggera, di un cipria rosacenere rischiarato da un alone diafano, e Naticarius millepunctatus, la guancia trapunta di marrone il cui nome originario, oggi tornato in uso, è stercusmuscarum. Sarebbe da capire perché mai una chioccioletta così tenera e graziosa si sia meritata nomi derisori come “chiappa-di-culo” e “cacatina-di-mosca” se non per un particolare sprezzamento di chi l’ha battezzata. E poi, naturalmente, c’è Scapharca; anche di questa mi accade di trovare, come del Cuore, non pochi esemplari interamente neri: le descrizioni la danno di un bianco avorio con sfumature ocra negli esemplari adulti e azzurrine in quelli più giovani. Ho sempre guardato con sospetto fin da quando il professore me l’ha fatta scoprire questa intrusa che attesta il decadimento dell’ambiente marino e lo depriva essa stessa attivamente soppiantando altre specie che ci sono familiari. Dev’essere la stessa insofferenza verso i nuovi venuti che contagia chi ha paura della loro prevalenza o di un inarrestabile meticciato; ma ormai la giapponese si è diffusa ugualmente lungo tutta la costa adriatica, e con essa si è diffusa una cattiva fama: chi raccoglie i molluschi sulla riva inorridisce constatando che ‘butta fuori il sangue’, ossia che possiede emoglobina come noi (la chiamano per questo ‘Sanguinella’); i vongolari la vedono come rivale e l’accusano di divorare le stesse Chamelea che loro pescano e che trovano meno abbondanti; per quanto sia difficile che una bivalve diventi predatrice e carnivora come sono, al contrario, diverse varietà di gasteropodi. In ogni caso non è certo colpa sua se le acque costiere dell’Adriatico versano spesso in condizioni di ipossia e lei riesce a cavarsela meglio degli altri.
In realtà molte specie bivalvi – anche questo rammento rovistando nei cassetti della memoria – sopravvivono a lungo in condizioni di scarsa ossigenazione o totale mancanza di ossigeno. Il fatto stesso che vivono nelle sabbie basse o nelle zone interessate dalle maree le espone a variazioni cadenzate del loro habitat. Qui agiscono diversi fattori che limitano la quantità di ossigeno disciolta nell’acqua: la temperatura più alta, la presenza di sostanze organiche e l’eutrofizzazione algale. A queste condizioni Scafarca risponde trattenendo acqua e sottraendo da essa l’ossigeno residuo; se non basta, apre le valve in modo da favorire lo scambio acqua-aria. Ha anche adattamenti di tipo biochimico: rallenta il metabolismo riducendo l’attività enzimatica a livelli minimi. In altri termini, certi molluschi entrano in una specie di letargo, che per le vongole è piuttosto breve, per le cozze più lungo e per Scafarca così lungo da permetterle di vivere anche un mese in totale assenza di ossigeno. Attenzione però a non confondere Scapharca inaequivalvis con Scapharca demiri, ammoniscono i testi. Sono molto somiglianti, ma la seconda è più piccola e meno panciuta. In qualche caso servirebbe un occhio esperto per distinguere una specie dall’altra, e talvolta perfino i malacologi rimangono indecisi, o incontrano sorprese; non sempre la tassonomia è chiara e non è mai definitiva.
Cercando su internet qualche tempo fa, ho messo il naso sulla corrispondenza che gli aderenti alla Società Italiana di Malacologia intrattengono tra loro. Un giapponese, il signor Ono Yuya, ha comprato uno stock di arche che abitano il Mediterraneo; rispondendo a chi gliele ha inviate dice, certo, che è molto soddisfatto, gli specimen gli sono pervenuti in buono stato, e spiega come il suo interesse per Scapharca derivi dal fatto che it also lives in Japan; tuttavia fa presente che gli esemplari di inaequivalvis che colui gli ha fatto pervenire sono differenti da quelli che nel suo paese chiamano con lo stesso nome: somigliano piuttosto a Scapharca subcrenata. Il che li renderebbe, se vogliamo, anche più interessanti.
Il venditore, Stefano Rufini, che non è certamente un bottegaio e nemmeno uno Scoglionatissimo Ricercatore Eternamente Precario dell’Università (SCREPUN) deciso comunque a fare rendere al meglio i suoi talenti, ma un vero luminare della malacologia, assicura che quegli esemplari, prima di finire in Giappone, erano già appartenuti a una collezione e cartellinati come provenienti da San Benedetto del Tronto.
“A prima vista sembravano inaequivalvis, nell’accezione corrente del termine; né mai mi è capitato di avere subcrenata sottomano”. Poi, però, rivolto ai suoi corrispondenti, avanza un dubbio: ma questo giapponese non sarà mica uno che vuole confonderci le idee, come già altri hanno tentato di fare?
“Lascio a quelli che vogliono indagare il Meraviglioso Mondo delle Arche Migranti - conclude amarognolo il professore - il compito di chiarire cosa nasconde questo mistero”.
Il suo messaggio è inviato alle dieci del mattino. Lo raccoglie da Ancona Cristiano Solustri, che alle dieci di sera risponde: “Il giapponese può avere ragione. Un amico russo col quale collaboro mi ha fatto osservare quanto sia differente la scultura della nostra inaequivalvis da quella giapponese e, in misura minore, dalla thailandese. Che non si tratti della stessa specie?”
Ma allora crollerebbe l’ipotesi della migrazione, mi scopro a commentare con sgomento. Aspetto inutilmente che il tam-tam malacologico faccia qualcosa per risolvere l’enigma, perché invece se ne è subito scordato, sopraffatto da un annuncio capace di eclissare ogni altra fantasia: ‘Demiri in Adriatico!’ La costa romagnola è, come al solito, la prima ad avvistarla, ma Solustri l’ha trovata poco dopo tra Ancona e Senigallia, proprio dove io e Klaus ci troviamo a camminare. Non solo ha rinvenuto numerosi esemplari, ma valuta che abbiano fino a tre anni di vita. Sembra probabile che la nuova migrante sia arrivata con le casse di vongole che importiamo in estate dalla costa turca, dove già quella specie era presente, seppure non autoctona. “È incredibile con quale leggerezza sono fatti i controlli, e con quanta incoscienza per le conseguenze sulla vita biologica locale”, si sdegna il ricercatore.
Ma rullano i tamburi: demiri è dappertutto, l’hanno vista addirittura a Brindisi. Solo io sono qui da più di un’ora che confronto tutte le scafarche che ho trovato per vedere se in mezzo alle tante inaequivalvis ce ne sia una più piccola e schiacciata, come scrivono che demiri debba essere. Per fortuna o disgrazia questa specie è straordinariamente prolifica e tra poco non avrò difficoltà a riconoscere la nuova ondata di bivalvi extracomunitarie.
Avrei voglia di fare due chiacchiere con questo Cristiano: chissà che nel frattempo non abbia trovato la chiave del mistero. Può succedere a volte che una cosa che prima ti era ignota e ti sarebbe parsa poco interessante, se non addirittura astrusa, diventi in un momento indispensabile. L’incontro però sembra difficile, perché dall’Istituto dove lui lavorava mi rispondono che si è trasferito e che non sanno dove. Ammettiamo che chi lo sostituisce anche lui sia al corrente del mistero: mi verrebbe più difficile chiedere a un altro col rischio che quello mi risponda senza troppo entusiasmo: “Sì, certo. Scultura differente. Sul blog dei malacologi. Ma lei come ha detto che si chiama?”
Per questo mi sento di sospendere la soluzione dell’enigma nell’attesa che rintracci il prescelto intenditore di conchiglie di mare. Se non è partito per uno di quei viaggi che a volte i naturalisti si sobbarcano sulla scia di von Humboldt o del Beagle, da qualche parte lo devo pur trovare.