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Giù le mani dai Carabinieri Forestali. Stop al bracconaggio in Lombardia

Da oltre trent'anni le Associazioni ambientaliste firmatarie questo comunicato si battono per il ripristino della legalità nelle province di Brescia e Bergamo, a viso scoperto e sempre in leale collaborazione con le Istituzioni. Per questo motivo si dissociano con forza da azioni come quella che la settimana scorsa hanno comportato il danneggiamento di alcuni capanni da caccia in Franciacorta e in Val Brembana; gli autori di atti hanno ottenuto l’unico risultato di regalare alle solite sigle venatorie estremiste l'occasione per attaccare l'attività antibracconaggio.

Il danneggiamento dei capanni da caccia, opera di sedicenti animalisti, è stato infatti utilizzato da talune sigle venatorie per attaccare nuovamente gli organi di controllo con la diffusione di un comunicato stampa per così dire "fuori tema". Non poteva mancare poi, come ogni anno, il triste teatrino dei facinorosi “sparatutto” che si oppongono ai controlli dell'attività venatoria. Per costoro la verifica dei carnieri, dei richiami e di tutto ciò che è previsto per legge si trasforma puntualmente in perquisizioni arbitrarie e violenza ai danni di “indifesi cacciatori”, a cui sono accertate violazioni e comportamenti da bracconieri, cioè delinquenti molto spesso abituali.

A tutto ciò quest’anno si è aggiunta la singolare imposizione di indossare un abbigliamento ad alta visibilità da parte delle Guardie venatorie volontarie, tentativo puerile di inficiare l’attività di vigilanza.

È di questi giorni un video che mostra un controllo effettuato dai Carabinieri Forestali in Alone di Casto che è stato infatti utilizzato pretestuosamente per attaccare nuovamente la legittima attività di Polizia Giudiziaria. Evidentemente per taluni l'abbattimento di specie protette e la detenzione di richiami vietati, così come l’uso di reti da uccellagione e trappole, soprattutto in talune "zone franche", sono reati che non andrebbero perseguiti: Monte Ladino di Lumezzane (l'area in cui èavvenuto il controllo), le piane della Val Camonica, Preseglie sono solo alcuni luoghi in cui l'illegalità venatoria èprassi comune e i controlli impediti con vari stratagemmi (strade chiuse da sbarre, recinzioni create ad hoc, staffette che raccolgono gli uccelli protetti per eludere la vigilanza ecc.).

Proficue attività commerciali prosperano grazie al bracconaggio: come accertato a Trescore Balneario in provincia di Bergamo, dove centinaia di richiami vivi di provenienza illegale sono stati sequestrati dai Carabinieri Forestale ad un commerciante, che già aveva subito qualche anno prima analoga sorte a opera dell’ex Corpo Forestale e il cui procedimento penale, incomprensibilmente, era rimasto fermo sui tavoli dell’Autorità Giudiziaria e quindi l’autore dei reati accertati è rimasto impunito.

L'attacco alle Forze dell'Ordine e alla vigilanza venatoria nel suo complesso è una strategia oramai nota e ripetitiva e se si vuole anche noiosa, che ha il solo fine di garantire impunità ai bracconieri e il permanere degli interessi economici e clientelari legati al mondo della caccia illegale.

Non dimentichiamo che queste province sono identificate tra le aree “Black Spot” nel Piano d’Azione Nazionale per il contrasto degli illeciti contro gli uccelli selvatici del Ministero dell’Ambiente; in questo contesto di non rispetto delle normative nazionali e internazionali proliferano situazioni inconcepibili come appostamenti fissi di caccia autorizzati in proprietà private recintate, oppure attaccati o trasformati in villette o case, che - grazie alla Legge regionale che le definisce "immobili a carattere rurale destinati al riposo del cacciatore" possono dribblare anche i divieti della legislazione urbanistica e paesaggistica e garantiscono l’elusione dei controlli e il continuo massacro di uccelli protetti.
Gli ambientalisti che operano sul territorio in realtà sono ben consapevoli che molti cacciatori sono contrari all'illegalità e collaborano quotidianamente con segnalazioni puntuali sugli episodi di bracconaggio. Purtroppo questi cacciatori non sembrano trovare voce nelle associazioni che li rappresentano, che invece sembrano solo volere l’allentamento dei controlli e raccontare una favola distorta, dove il bracconaggio è inesistente o residuale e non invece pervasiva pratica come nella realtà.
Le Associazioni ambientaliste chiederanno nei prossimi giorni un incontro al Prefetto, al Procuratore della Repubblica e al Comandante dell’Arma dei Carabinieri di Brescia, alla luce della situazione del bracconaggio fuori controllo e con l’intento di chiedere il massimo impegno dello Stato in difesa della Natura e della legalità.

Milano, 23 ottobre 2020

Cabs
Enpa
Gaia
Gruppo Ornitologico Lombardo
Lav
Lega Abolizione Caccia
Legambiente Brescia
Lipu
Pro Natura Lombardia
WWF Lombardia

Le associazioni pro tramvie del Nord Milano replicano al sottosegretario Buffagni

Dopo aver letto le dichiarazioni alla stampa di Stefano Buffagni sul prolungamento della Metropolitana 5 di Milano e la realizzazione della metrotranvia Milano - Seregno ricordiamo che la metrotranvia costituisce l'asse di collegamento tra i paesi lungo la vecchia Valassina. Sia lo studio di per la M5 sia quello per la M3 la considerano come realizzata.
Purtroppo, anche da Stefano Buffagni, l'ipotesi di M5 viene considerata come un grimaldello utile a scardinare il progetto della tranvia che, ad oggi, è l'unico concretamente realizzabile per il Nord Milano. A titolo di esempio facciamo notare che nel 1981 è stato eliminato il tram Milano-Vimercate (noi c'eravamo!) promettendo che a breve sarebbe stata prolungata M2 da Cologno Monzese. Sono passati 40 anni. Forse ora c'è un progetto concreto che riguarda però una tranvia moderna.
Ben vengano i 15 milioni di euro promessi da Buffagni. Non risulta però sia ancora stata presa una decisione su cosa fare in merito allo sbinamento della M5 verso Bresso e Cusano Milanino anche perché questa decisione andrebbe inquadrata in uno studio generale sul trasporto del Nord Milano. Esiste questo studio? Nemmeno risulta sia stato prodotto il secondo passaggio del PFTE sullo sbinamento M5 con la relazione costi-benefici (Buffagni diceva che sarebbe stato fatto in tempi brevissimi).
Infine confutiamo un'altra falsa affermazione. L'eventuale sbinamento di M5 non può influire minimamente sul progetto della metrotranvia che è allo stadio di progetto esecutivo appaltato.
Per questo motivo, come in più occasioni abbiamo già fatto notare, la richiesta dei Sindaci di Bresso e Cusano di rivedere il progetto trasformandolo a binario unico non è minimamente accoglibile. Sorprende sia stata avanzata anche dal punto di vista sostanziale: visto che l'obiettivo del progetto è dare sino a Calderara un servizio simile a quello milanese della linea 4.
Ci si lamenta del fatto che i Comuni esterni a Milano vengono trascurati ma poi ci si oppone ai miglioramenti per accontentare non si capisce bene chi. Forse qualche elettore che preferisce usare come parcheggio personale lo spazio già attualmente sede dei binari.

23 ottobre 2020

Gruppo Naturalistico della Brianza Cusano Milanino - Comitato per il tram, Utenti Trasporto Pubblico, Pro Natura Lombardia

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ECOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE

LETTERA APERTA ALLA FEDERAZIONE NAZIONALE PRO NATURA

Carissimi Presidente, Consiglio Direttivo, associazioni federate e soci tutti della Federazione Nazionale Pro Natura,

come noto i principali - cosiddetti - “social” prevedono l’obbligo di registrazione sulle rispettive piattaforme per l’utente interessato ad accedere ai contenuti che vi sono proposti. Per questo motivo, se il privato cittadino è ovviamente libero di comportarsi come crede, ritengo invece inopportuno il loro uso sistematico, come abituali canali di comunicazione, da parte delle istituzioni pubbliche e di quelle private, incluse le associazioni.
Sul tema vorrei quindi aprire un confronto costruttivo nell’ambito della Federazione Nazionale Pro Natura sottoponendo alla comune riflessione alcune argomentazioni in proposito.
Perciò chiedo ospitalità per questa “lettera aperta” sui nostri “media” ed il suo inoltro alle singole associazioni federate che auspico vorranno rilanciarla sui propri.

RIFLESSIONI SUI SOCIAL (SPECIALMENTE FACEBOOK) - ECOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE

1. Soluzione comoda
So bene che molte associazioni, specialmente le più piccole e meno strutturate, sono in rete esclusivamente sulle piattaforme social: principalmente Facebook, perché la soluzione è tecnicamente più semplice rispetto alla pubblicazione e gestione di un vero e proprio sito internet ed è “apparentemente” senza costi.
Però Pro Natura un sito ce l’ha.

2. Efficacia della comunicazione tramite piattaforme social per Pro Natura
Per non ragionare “a sentimento” ma su basi concrete, chiedo se sia disponibile qualche dato / informazione in proposito da rendere noto.
Infatti credo sia utile (sempre come e quando si può) avere una misura dell’efficacia riscontrata attraverso questi strumenti di comunicazione, l’esperienza che ho io (anche di amici che hanno usato i servizi di Facebook a pagamento) non è che sia proprio quella attesa o creduta (ma posso anche sbagliarmi, quindi sarei contento di conoscere dati oggettivi che dimostrino il contrario).

Nell’intestazione del riquadro Facebook sempre presente “di spalla” su ogni pagina del sito di Pro Natura, al 7 ottobre 2020 leggo il numero “2011 mi piace”: non propriamente un gran successo (così come i poco più di 2000 seguaci e le 48 registrazioni)! A numeri analoghi a questi arrivo, ogni mese, grazie all’autorevolezza che ho acquisito per i suoi contenuti e senza che io abbia fatto alcuna pubblicità, semplicemente con il mio modesto sito giornalistico L’Eclettico (www.rudyz.net/eclettico), e io non sono certo un noto personaggio pubblico “influenzatore” di masse.

Da quel che so sulla situazione finanziaria e sui numeri delle adesioni alla Federazione Pro Natura (o ad altre associazioni che conosco ad essa affiliate) non mi risulta che la presenza sui social sia foriera di una grande utilità per noi (come per la maggior parte di chi vi è presente). Viceversa i nostri piccoli numeri, sommati a quelli di tanti altri come noi, decretano il successo commerciale dei padroni delle piattaforme.

Anche frasette come “Di’ che ti piace prima di tutti i tuoi amici” le trovo un po’ infantili ed un po’ stonate per chi, come Pro Natura, propone contenuti e proposte di ben altro livello; d’altra parte sono emblematiche della considerazione che i gestori dei social hanno per i loro utenti.

3. Le multinazionali
Multinazionali come Coca Cola ed altre, che molti di noi hanno boicottato e boicottano tuttora per ottime ragioni, ora a loro volta boicottano i social perché le azioni scorrette di questi ultimi ne danneggiano l’immagine (ed abbiamo detto tutto): farci “superare in coerenza” da queste realtà, che di etico hanno ben poco, mi sembra paradossale.

4. Spregiudicatezza e falsità dei social
Per le informazioni che ne ho leggendo quotidiani di una certa condivisibile serietà - NB le mie considerazioni si riferiscono in particolare a Facebook - sappiamo tutti quanto le piattaforme social più in uso, al di là della facciata “perbenista” o delle elargizioni caritatevoli (ben sfruttate mediaticamente oltre il loro risibile importo rispetto ai propri fatturati: come quella che tempo fa è valsa a Zuckerberg l’apertura di tutti i TG di prima serata con un minuto di servizio e ripresa video accanto a Papa Francesco: per una volta dimostratosi più sprovveduto di quanto in realtà sia):

  • prediligano contenuti riprovevoli, che hanno determinato anche gravi casi di cronaca nera (i cui filmati ancora vi circolano),
  • si pieghino al tradimento delle opposizioni democratiche ai regimi dittatoriali ancora esistenti in diversi paesi nel mondo,
  • possano arrivare fino alle conclamate scorrettezze in sede di consultazioni democratiche (che quindi tali, in definitiva, non sono state),
  • per non dire dei discutibili sistemi di filtro/blocco dei contenuti non opportuni, che spesso agiscono con criteri penalizzanti proprio per quelli invece più validi.

Purtroppo a “fare più contatti” è chi rimesta nel torbido e questo non sfugge a chi dal numero di contatti trae profitto.

5. Finalità dei social
La finalità di questi strumenti è fondamentalmente VENDERE IL TEMPO CHE RIESCONO A TENERCI COLLEGATI. Tenendo a mente questo, si capisce facilmente come ogni meccanismo di Facebook, WhatsApp (dal 2014 acquisita da Facebook), compagnie telefoniche e tutti gli altri è appositamente costruito con questo scopo, dimostrando un’ottima conoscenza della psicologia dell’essere umano.
Per fare soldi senza farsi scrupoli.
Lo dimostra come sono arrivati al successo, ciascuno cominciando con un’azione disonesta, personaggi come Zuckerberg, Gates ed altri. Replicando su altra scala economica e planetaria quanto nella nostra piccola Italia ha fatto un altro ben noto personaggio sceso in politica a difendere direttamente i propri interessi quando è venuto meno chi l’aveva protetto ed avvantaggiato fino a quel momento.
Poco valgono a ripulirsi coscienza e reputazione le fondazioni filantropiche costituite “a fine carriera”.
In proposito, anche per i non credenti, penso sia lapidario e condivisibile il versetto evangelico relativo a “cammelli” (che poi forse erano grandi funi di uso nautico) e “crune” di aghi.

Chi vuole davvero essere un benefattore dell’umanità si comporta diversamente.
Un esempio? Tim Berners Lee, l’inventore di internet che ha voluto condividere la sua idea anziché restarne proprietario per arricchirsi, risulta abbia dichiarato che “Il denaro è importante, ma non è tutto. La vera battaglia, da tempo, è tra chi vuole far progredire l’umanità e chi vuole fare soldi”.

In questo contesto l’illusione, propria anche di molte buone anime nel mondo ecclesiale, di portare contenuti positivi in un contesto che non è tale è, appunto, soltanto “pia” e fa il gioco dei burattinai di turno.

Sono orgoglioso di aver potuto incontrare di persona a Milano il Papa della Chiesa Copta d’Egitto: Tawadros (Teodoro) II di Alessandria, una persona che, a seguito di un grave fatto accaduto in un monastero sotto la sua giurisdizione, ha chiuso il suo profilo Facebook ed ha disposto che facessero altrettanto tutti i religiosi appartenenti alla sua Chiesa.

6. Analisi degli esperti della comunicazione
Conoscenti appartenenti ad associazioni che hanno come finalità loro propria lo studio dei mezzi di comunicazione, mi hanno confermato quanto la mia esperienza nell’organizzazione di eventi di qualità e la contestuale misura dell’efficacia della comunicazione adottata per essi mi avevano empiricamente dimostrato: i social funzionano bene per rilanciare sciocchezze effimere come versarsi secchiate d’acqua gelida in testa: che hanno esplosioni di contatti ma poi spariscono nel nulla. Funzionano meno bene per le cose serie.
Viceversa, un autorevole studio sull’efficacia della comunicazione “social” dei musei ha rivelato quanto questa sia sopravvalutata.
Non è un caso che un’importante quota dell’influenza di questi strumenti sull’opinione pubblica deriva dal rilancio dei loro contenuti da parte della stampa pigra che si appiattisce nella comoda pratica di limitarsi a riproporre - amplificandoli - sulle proprie testate di vario genere (stampate, elettroniche e radiotelevisive) i videomonologhi o i messaggi pubblicati su Facebook invece che pensare, confrontare le posizioni, verificare le notizie e “fare domande pretendendo risposte” aiutando così i lettori ad esercitare a loro volta l’autonomia di pensiero e la capacità critica.
Proprio questa è la ragione che rende convenienti gli imponenti investimenti economici che sui social vengono condotti perché sia considerato più del dovuto il seguito di chi vuole artificialmente gonfiare la propria autorevolezza.
Non credo invece sia qui necessario soffermarsi sulle notizie false, deliberatamente propalate come vere - senza vergogna - da parte di chi riveste importanti ruoli nella società e nelle sue forme di aggregazione.

7. Responsabilità istituzionali
Per quanto ho fin qui argomentato, ritengo che nessuna istituzione pubblica (includendo nella categoria non soltanto la Pubblica Amministrazione a tutti i suoi livelli, e deprecando i suoi esponenti che cedono a questo malcostume, ma anche un’associazione ambientalista che voglia proporsi come autorevole punto di riferimento) debba utilizzare forme di comunicazione diretta che non siano pienamente pubbliche e consultabili da chiunque in tutte le sezioni in cui sono articolate senza obbligo per l’utente di registrarsi.
Attualmente ciò viene invece richiesto anche sui profili pubblici di alcuni social (un tempo accessibili liberamente a chiunque) che, almeno per certi utenti (come capita a me), restano tali solo per pochi secondi e solo per la pagina iniziale.
Nel breve volgere di qualche istante una maschera automatica copre lo schermo invitando il lettore ad accreditarsi per poter continuare la lettura.
Il comando che posticipa questo adempimento vale a togliere di mezzo la maschera solo per poco: come un pupazzo a molla che salta fuori dalla sua scatola ce la ritroviamo di nuovo addosso in men che non si dica.
Quando questo accade io chiudo direttamente tutta la pagina, orgoglioso di farlo e fiero di potermi riconoscere in un verso che Francesco Guccini canta in “Canzone di notte n. 2”: “scusate non mi lego a questa schiera... morrò pecora nera”.

8. Fiducia negli incaricati ed Etica della comunicazione
Tutto ciò premesso tengo ovviamente a precisare che non ho alcun dubbio sulla correttezza della comunicazione che la Federazione Pro Natura fa attraverso i social grazie a chi se ne occupa,
8.1 la questione che pongo, invece, è se “è etico che per fini buoni un’istituzione utilizzi strumenti che, pur di successo, hanno ombre oscure alla loro origine e nella loro conduzione” come dimostrato di recente anche con i messaggi successivi all’uccisione del ragazzo nel Lazio; io su un sistema che non blocca queste nefandezze (e non lo fa perché gli conviene ci siano) non credo si possa stare, io almeno non ci sto e mi imbarazza che ci stia l’associazione alla quale appartengo.

9. Tracciamento
Il problema del tracciamento è evidentemente implicito nella mia obiezione ed alla base di tutto: proprio l’obbligatorietà di registrarsi è il problema che sollevo quando a proporla è un’istituzione. Fra chi ha già letto queste mie osservazioni c’è chi ha osservato che “Persino il papa e il Presidente degli USA ormai fanno politica prevalentemente attraverso Twitter.”…
Ma Papa Francesco almeno non usa Facebook, che invece usa il Vaticano (ahimè), come fanno anche tanti preti, diocesi e parrocchie, e questo lo considero sbagliato, come ho già scritto.
Quanto a Trump, qualsiasi mezzo usi per me non è un modello al quale fare riferimento, in qualsiasi campo.
E comunque dissento dall’argomentazione che la politica si faccia attraverso i social, qui si fa l’apparenza: del Papa, che ha cose più serie da dire, la maggior parte dei rilanci sugli altri media non si riferiscono a quanto scrive su Twitter.
Con Trump, Salvini ed altri di ogni parte politica - ma si noti chi mi è venuto immediatamente in mente e ci si domandi il perché - è il contrario: e questo conferma le mie argomentazioni.

10. Pro Natura e il buon esempio che attrae
Una presa di posizione netta della Federazione Pro Natura in questo senso, anche adeguatamente comunicata ai media, credo sia una notizia che ci darebbe più attenzione di quanta se ne possa avere attraverso i social e magari potrebbe anche concretizzarsi nella possibilità di suscitare nuovi aderenti, il Consiglio Direttivo ci pensi.
È come quando, in una successione di spot a colori, ne compare uno in bianco e nero: che si distingue dalla massa e desta maggior interesse.

11. I giovani
Inoltre, a chi obietta: “Che noi lo vogliamo o no, oggi il mondo (soprattutto quello giovanile) comunica così”, come ho già scritto, rispondo che i social seguiti dai giovani non sono Facebook e Twitter, chi fra i lettori è insegnante può verificarlo facilmente.

12. Vogliamo un’altra comunicazione
Ciò di cui c’è bisogno è di una comunicazione più riflessiva ed argomentata, che è più difficile, perché ci portano altrove tutte le forze economiche che ci vogliono condizionare: pensiamo alla telefonia, sulla quale avrei anche un altro tema da aprire con riferimento alla salvaguardia ambientale ed al risparmio energetico: mi sto battendo su questo contro il mio fornitore Wind (al quale sono arrivato lasciando per questo motivo Telecom) e cercherò di resistere fino a quando potrò.

Spero che quanto ho scritto possa essere utile per riflettere sull’argomento e procedere di conseguenza nelle relative scelte che riguardano la Federazione Pro Natura.

Per quanto mi riguarda non predisporrò mai un collegamento ad una delle pagine elettroniche di social con le caratteristiche descritte né ad altre che vi puntino.
Mi concederò solo un’eccezione quando dovrò necessariamente rilanciare la sopra citata pagina di Pro Natura Lombardia che ho con passione contribuito a costruire.
Ma nel farlo mi sentirò in imbarazzo ed in conflitto di coscienza con il mio desiderio di coerenza - la sola qualità che ci rende credibili agli occhi dei nostri interlocutori - perché porterò comunque una mia gocciolina d’acqua ad un mulino che macina una farina... “non proprio biologica”!

Grazie per l’attenzione che in Pro Natura si vorrà e potrà dedicare a questo tema, però non irrilevante.

Cordiali saluti con l’augurio a tutti dei migliori successi per tutte le iniziative di ciascuno.

Giovanni Guzzi

 

PS

Fin da piccolo ho iniziato a diffidare di chi mi prendeva per “fessacchiotto”.
A partire dai fumetti di Topolino quando, in un periodo in cui vi prevalevano storie disegnate male e “di poco spessore” (tranne la prima dopo la copertina), l’editore contava di far presa sui lettori allegando ad ogni numero dei giocattolini. Ho capito che mi prendevano per una persona di poca intelligenza... così ho smesso di comprarlo. Frequentavo le scuole elementari, ma la mia maestra mi dava da leggere anche i libri di Mario Rigoni Stern.

La tutela del paesaggio: principio costituzionalmente rilevante e preminente sulla indiscriminata diffusione degli impianti “green”

Stravolgere il paesaggio, quale bene comune, determina la cancellazione della memoria storica collettiva quindi la distruzione del nostro futuro. Secondo Zanzotto «un bel paesaggio una volta distrutto non torna più, e se durante la guerra c'erano i campi di sterminio, adesso siamo arrivati alla sterminio dei campi: fatti che, apparentemente distinti fra loro, dipendono tuttavia dalla stessa mentalità».

 

Ing. Donato Cancellara, Associazione VAS per il Vulture Alto Bradano

 

 

1. Il caso dell'impianto eolico alle porte di Matera

Ancora una volta il T.A.R. Basilicata si esprime sull'annosa vicenda dell'impianto eolico, denominato "Matine", della Zefiro Energy S.r.l. alle porte del Comune di Matera. Un impianto costituito da 15 aerogeneratori e dalle relative opere connesse, di potenza elettrica complessiva di 37.5 MW. Pale eoliche di potenza 2.5 MW ciascuna con altezza torre di 100 metri, diametro rotore 90 metri ed altezza complessiva 145 metri. Sin dal rilascio dell'autorizzazione unica da parte della Regione Basilicata, nel lontano 2013, svariate le contestazioni da parte di alcuni organi istituzionali locali e di svariate associazioni ambientaliste per l'ingiustificabile sfregio al contesto paesaggistico materano di altissimo pregio nonché al patrimonio storico, artistico e naturalistico. Prima di richiamare l'attenzione sulla recente pronuncia dei giudici amministrativi lucani, tramite la sentenza n. 23 del 3 gennaio 2020, occorre ritornare indietro con la memoria.

 

2. Prima importante pronuncia del TAR Basilicata sul caso Zefiro

Era il 20 dicembre 2014 quando il T.A.R. Basilicata pubblicò la sentenza n. 869/2014 successivamente confermata dal Consiglio di Stato con decisione n. 4947 del 29 ottobre 2015. Una sentenza che definimmo, sulla pagine di alcuni quotidiani locali, storica per la Lucania in quanto venne evidenziata la priorità dell'Ambiente, del Paesaggio e dei Beni culturali sulla realizzazione di un impianto eolico autorizzato dalla Regione Basilicata con D.G.R. n. 597/2013 a pochi chilometri da siti vincolati rispetto ai quali, pur non essendo direttamente interessati dalle croci d'acciaio rotanti, comunque avrebbe potuto arrecare negative conseguenze.

La società proponente il progetto "green" è la Zefiro Energy S.r.l. Tre furono i ricorrenti che nell'anno 2013 vollero affrontare la società Zefiro e la Regione Basilicata dinanzi al tribunale amministrativo: il Comune di Matera; la Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici della Basilicata e l'Ente Parco della Murgia materna. Ricorsi che vennero unificati per l'analoga richiesta di annullamento della Deliberazione della Giunta regionale avente ad oggetto l'Autorizzazione Unica per la costruzione ed esercizio dell'impianto eolico della Zefiro con i relativi atti di istruttoria compreso il verbale della Conferenza di Servizi del 16 aprile 2013.

Sentenza lunga decine e decine di pagine, ma a nostro avviso la frase meritevole di apprezzamento fu sicuramente quella con cui viene bacchettata la Regione Basilicata. Nella sentenza si legge: "Alcuna norma o principio, a livello comunitario o nazionale, riconoscerebbe come prevalente l'esigenza energetica rispetto a quella di tutela paesaggistica, per cui il regime di favore per gli impianti eolici non potrebbe mai condizionare in maniera assoluta il giudizio di compatibilità ambientale, nel senso di obbligare il rilascio dell'autorizzazione in relazione ai benefici legati all'efficienza energetica per la collettività". Ed inoltre, emerge che il parere della Soprintendenza non sarebbe stato presentato in seno alla Conferenza di Servizi motivo per cui, secondo il parere della società resistente Zefiro, il diniego espresso andava considerato inammissibile. Di parere opposto, il T.A.R. Basilicata secondo cui "tale assunto sarebbe errato [...] l'omessa valutazione del parere obbligatorio e vincolante reso dalla Soprintendenza renderebbe, quindi, invalidi ed inefficaci tutti gli atti amministrativi emessi in Conferenza di Servizi e l'Autorizzazione Unica, quale atto finale e conclusivo del procedimento".

Possiamo concludere che bene fece il T.A.R. Basilicata a ribadire ciò che di fatto è già insito nelle norme nazionali. Infatti, l’art. 12 comma 7 del D.lgs. n. 387 del 2003consente la realizzazione, in area agricola, di impianti alimentati da fonti di energia rinnovabile purché ciò avvenga nel rispetto del paesaggio rurale.

 

3. Rilevante sentenza del Consiglio di Stato nel 2014

Quanto evidenziato dal TAR Basilicata nel 2014, sul caso Zefiro, venne ribadito dalConsiglio di Stato, con riferimento ad altra vicenda, con la sentenza n. 2222 del 2014: “il paesaggio è bene primario e assoluto, la tutela del paesaggio è quindi prevalente su qualsiasi altro interesse giuridicamente rilevante, sia di carattere pubblico che privato [...] essere considerato come bene «primario» ed «assoluto», in quanto abbraccia l’insieme «dei valori inerenti il territorio» concernenti l’ambiente, l’eco-sistema ed i beni culturali che devono essere tutelati nel loro complesso, e non solamente nei singoli elementi che la compongono”.

 

4. Seconda importante pronuncia del TAR Basilicata sul caso Zefiro

La società Zefiro non ha voluto rinunciare alla realizzazione dell'impianto eolico così da ritornare all'attacco evidenziando, con una nota del 24 febbraio 2016, che i provvedimenti giurisdizionali non hanno riguardato il parere reso dal Comitato Tecnico regionale per l'Ambiente (C.T.R.A.) del 21 febbraio 2013 e che lo stesso andava considerato ancora valido ed efficace con necessaria conclusione del sub-procedimento di V.I.A. Tuttavia, è sfuggito alla società quanto affermato dalla Regione e condiviso dai giudici amministrativi: "benché non vi sia una disposizione che limiti l'efficacia temporale del parere del C.T.R.A., giova ricordare che, ai sensi del D.Lgs. n. 152/2006, il giudizio di compatibilità che ingloba il parere tecnico del C.T.R.A., ha una validità quinquennale, per cui un parere reso nel 2013 andrebbe, di fatto, riesaminato in ragione delle intervenute condizioni ambientali e normative".

La Regione Basilicata non ha voluto dare seguito alle richieste della Zefiro, tanto da rendere necessaria la nomina di un commissario ad acta tramite Decreto prefettizio del 24 agosto 2017. Il Commissario si espresse per la conclusione negativa della Conferenza dei Servizi del 12.11.2018, costatando le criticità dell'impianto in relazione alla L.R. n. 54/2015 "Recepimento dei criteri per il corretto inserimento nel paesaggio e sul territorio degli impianti da fonti di energia rinnovabili ai sensi del D.M. 10 settembre 2010"; le criticità rappresentate dal Comune di Matera, dall'Ufficio Urbanistica e pianificazione territoriale della Regione Basilicata e dalla Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio in ordine all'impatto visivo rispetto al Parco archeologico storico naturale delle chiese rupestri del materano,

Nella recente sentenza del T.A.R. Basilicata n. 23/2020, viene richiamata l'interferenza dell'impianto eolico con l'area buffer di 8.000 metri a partire dal perimetro esterno del sito UNESCO e con l'area buffer di 3.000 metri dal perimetro del manufatto "Torre Spagnola" su cui grava un vincolo archeologico - storico - monumentale diretto ed indiretto (Decreto del Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali del 20.07.1988).

Viene affermato dai giudici amministrativi che la conclusione negativa della Conferenza di servizi non si è affatto limitata ad affermare un'assoluta preclusione all'istallazione del parco eolico nel sito prescelto. Infatti, l'esito negativo non è frutto dell'applicazione meccanica della legge regionale n. 54/2015 avendo tenuto conto anche dei motivati dissensi espressi dal Comune di Matera, dall'Ufficio Urbanistica e Pianificazione territoriale, della Soprintendenza e dell'Ente Parco quali amministrazioni preposte alla tutela paesaggistico - territoriale e del patrimonio storico - artistico.

Sono i giudici amministrativi ad evidenziare che "la ricorrente non si avvede che ben 3 aerogeneratori distano 734 mt, 2761 mt e 3758 mt da Torre Spagnola, dalla Masseria Danesi e dal limite esterno del Parco delle Chiese Rupestri, violando inevitabilmente, le prime due, la prescrizione di un buffer dui 3000 mt e la terza la prescrizione del buffer degli 8.000 mt".

Pertanto, le disposizioni di cui alla L.R. n. 54/2015 non si pongo affatto in contrasto con le disposizioni previste dalle Linee Guida nazionale, D.M. 10 settembre 2010, così come alcun contrasto viene rilevato con l'art. 12, comma 10 del D.Lgs. n. 387/2003.

Nel rigettare il ricorso della Zefiro Energy S.r.l. secondo cui il diniego alla realizzazione del suo impianto si sarebbe posto in violazione delle norme costituzionale e comunitarie tese all'applicazione del principio della massima diffusione delle fonti di energia rinnovabile, i giudici del T.A.R. Basilicata sentenziano che "non si versa in ipotesi di totale preclusione dell'installazione di impianti eolici in tutto il territorio del Comune di Matera, bensì in una ben delimitata area in cui è ritenuto prevalente, con motivazione non manifestamente erronea o irragionevole, l'interesse costituzionalmente protetto alla tutela dell'ambiente e del paesaggio".

 

5. Il Consiglio di Stato ribadisce la rilevanza costituzionale della tutela paesaggistica e del patrimonio culturale

Non ci potrebbe essere conclusione migliore se non quella offerta dal Consiglio di Stato la cui recente pronuncia sancisce, nuovamente, la rilevanza della tutela paesaggistica e del patrimonio culturale quale principio costituzionale e, come tale, prevalente su altre materie legate al governo del territorio che sono evidentemente collocate in posizione subordinata ai principi della nostra Costituzione. Prendendo in prestito alcune frasi della sentenza del Consiglio di Stato n. 7839/2019, si spera in un anno 2020 maggiormente rivolto alla salvaguardia della memoria storica collettiva insita nel Paesaggio nel quale il nostro territorio, quindi tutti coloro che lo abitano, rappresenta parte integrante ed inscindibile:

"Giova premettere che la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa di tali valori.

La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela di un territorio qualificato è quella che garantisce la conservazione dei suoi tratti, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del territorio propedeutiche all’attività edilizia; non par dubbio che gli interventi di antropizzazione connessi alla trasformazione territoriale con finalità residenziali, soprattutto quando siano particolarmente consistenti per tipologia e volumi edilizi da realizzare, finiscono per alterare la percezione visiva dei tratti tipici dei luoghi, incidendo (quasi sempre negativamente) sul loro aspetto esteriore e sulla godibilità del paesaggio nel suo insieme. Tali esigenze di tipo conservativo devono naturalmente contemperarsi, senza tuttavia mai recedere completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio che sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei proprietari dei terreni che mirano legittimamente a sfruttarne le potenzialità edificatorie".

 

Il cinghiale: nemico pubblico o trastullo per i cacciatori?

Spesso viene presentato come il più grande disastro ambientale contemporaneo. Ma perché il cinghiale è proliferato in modo così rapido e massiccio? E soprattutto, quanto si sta facendo per contrastarne la diffusione è veramente efficace? Numerosi studi scientifici sollevano molti dubbi. E quasi mai si prendono in considerazione le possibili alternative.

 

Piero Belletti

 

Nel periodo medioevale il cinghiale era diffuso in gran parte del nostro Paese. A partire dal 1500 cominciò tuttavia, a causa delle uccisioni da parte dell’uomo, un declino, che culminò all’incirca un centinaio di anni fa, quando la specie, ad esempio, risultava del tutto assente nell’Italia nord-occidentale. Pare che proprio nel 1919 alcuni esemplari provenienti dalla Francia ritornarono in Piemonte e Liguria, dando il via ad un processo di ricolonizzazione che, dapprima lentamente, ma via via sempre più velocemente ha portato alla situazione attuale. Le cause dell’espansione del cinghiale sono fondamentalmente due: la prima è l’accresciuta disponibilità di territorio a lui congeniale, grazie all’abbandono di boschi e campi (soprattutto in aree montane e collinari) e alla grandissima capacità di adattamento della specie. Ma altrettanto, se non più importanti, sono state le massicce immissioni, compiute a scopo venatorio da Associazioni di cacciatori, ma anche da Amministrazioni pubbliche, che si effettuarono a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso e che sono durate (quasi) fino ai giorni nostri. Peccato che queste immissioni, come afferma l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) siano state “inizialmente operate con soggetti catturati all’estero e, successivamente, con animali prodotti in allevamenti che si sono andati progressivamente sviluppando in diverse regioni italiane. Ciò ha creato problemi di incrocio tra sottospecie differenti e di ibridazione con le forme domestiche, che hanno determinato la scomparsa dalla quasi totalità del territorio della forma autoctona peninsulare” (Carnevali L., Pedrotti L., Riga F., Toso S., 2009. Banca Dati Ungulati - Status, distribuzione, consistenza, gestione e prelievo venatorio delle popolazioni di Ungulati in Italia, Collana “Biologia e Conservazione della Fauna”, Volume 117). In pratica, la maggior parte degli esemplari liberati apparteneva al ceppo est-europeo (l’ecotipo autoctono dell’Italia settentrionale si era nel frattempo estinto), più grande e prolifico di quello maremmano, quindi caratterizzato da un maggior interesse venatorio.

Quindi, se oggi la situazione è quella che conosciamo, sia ben chiaro che la principale responsabilità è del mondo venatorio. Mondo venatorio che però approfitta della situazione e si propone quale unico soggetto in grado di risolvere un problema da lui stesso creato. In realtà, i cacciatori non hanno nessuna intenzione di risolvere il problema cinghiale, che sopperisce a una carenza di altre specie di interesse venatorio sempre più evidente. Non solo, poiché il cinghiale viene anche cacciato nell’ambito di piani di selezione (che prevedono l’abbattimento di individui predeterminati in base al sesso e all’età e che non sono limitati alla stagione venatoria, ma estesi per tutto l’anno) ecco che ai cacciatori si concede la possibilità di divertirsi di fatto per 12 mesi all’anno, e non più per due o tre come avveniva in un recente passato.

E questo non lo affermiamo solo noi ambientalisti, notoriamente tacciati di incompetenza ed emotività quando si affrontano questioni che riguardano la fauna. Lo dice il citato ISPRA (ricordiamo, massima autorità scientifica italiana in materia di caccia), il quale, commentando il piano di controllo del cinghiale della Regione Toscana per il periodo 2019-22 afferma testualmente: “Ciò che invece appare evidente è come l’attività di caccia di selezione e più complessivamente gli interventi autorizzati (che dovrebbero avere precise finalità di contenimento della specie) non appaiono essere stati recepiti ed attuati come strumenti specificatamente finalizzati alla riduzione degli impatti causati dai cinghiali, e come la programmazione realizzata non si differenzia in modo incontrovertibile dalla normale attività venatoria, Al riguardo le azioni condotte potrebbero essere lette più come una opportunità per estendere tempi e aree di caccia che come interventi finalizzati al raggiungimento degli obiettivi di contenimento dei danni previsti dalla legge regionale. In particolare, dalla relazione inviata (dalla Regione Toscana, n.d.r.), emerge come si continui a fare ampio uso della braccata (modalità di caccia mediante la quale gli animali selvatici, in questo caso cinghiali, vengono spinti da mite di cani verso i luoghi ove i cacciatori sono appostati, n.d.r.), anche in ambiti protetti e in periodi (ottobre-febbraio) in cui lo stadio di sviluppo delle colture garantirebbe, invece, la massima visibilità e contattabilità di eventuali animali presenti nelle aree agricole che potrebbero, pertanto, essere efficacemente rimossi attraverso il prelievo in selezione. Al riguardo, si evidenzia come l’attività di controllo, così come programmata e realizzata, appare configurarsi solo come una estensione dell’attività di caccia in braccata al di fuori degli ambiti e dei tempi previsti dalle norme, nonché un ampliamento del personale coinvolto a figure non esplicitamente previste dalla normativa medesima”.

Ma al di là di queste considerazioni, che comunque già da sole dovrebbero innescare una profonda riflessione sulle modalità di controllo del cinghiale, c’è da rilevare come le azioni che si intraprendono oggi sono spesso inutili se non addirittura favorevoli ad una ulteriore diffusione della specie. Azioni: in realtà avremmo dovuto usare il singolare, visto che l’unico intervento che si propone e si attua per controllare i cinghiali sono gli abbattimenti.

Quindi gli abbattimenti favoriscono la diffusione della specie, invece di contrastarla? Sembra strano ma in gran parte è proprio così. E vediamone i motivi.

In primo luogo gli abbattimenti, soprattutto se effettuati attraverso il deprecabile metodo della braccata, tendono a disgregare i branchi. Questi sono di solito costituiti da femmine con i loro piccoli, mentre i maschi tendono ad avere comportamenti più solitari. Il branco è guidato dalla scrofa più anziana (quindi anche quella di maggiori dimensioni), la quale, tramite messaggi di tipo ormonale, riesce in qualche modo a controllare l’estro delle femmine più giovani, all’evidente scopo di favorire i propri discendenti, e quindi il proprio patrimonio genetico. Quando i branchi di disperdono, soprattutto in caso di abbattimento della femmina alfa (peraltro obiettivo principale dei cacciatori, perché, come detto, si tratta di un esemplare di grandi dimensioni), spesso poi si assiste alla formazione di branchi più piccoli, con il conseguente aumento di femmine che vanno in calore (spesso anche anticipato) e, in definitiva, del tasso riproduttivo della specie. Non solo, la destrutturazione dei branchi determina anche spesso la diffusione degli animali in aree limitrofe a quelle in cui prediligono insediarsi, e cioè quelle boschive, determinando di fatto le condizioni idonee per una crescita del numero complessivo di animali e dell’aumento dei danni alle coltivazioni agrarie. Non solo, aumenta anche la probabilità di incidenti. Le statistiche a tale proposito sono chiarissime: la maggior parte degli investimenti di cinghiali, ma non solo, avviene nei mesi autunnali, durante la stagione venatoria.

E tutto questo senza contare l’enorme disturbo che la caccia al cinghiale, soprattutto se eseguita con la braccata determina ad altre specie animali, che spesso vengono disturbate proprio nella delicatissima fare riproduttiva.

Le Associazioni ambientaliste da anni propongono l’adozione di strategie alternative agli abbattimenti per limitare i danni che il cinghiale arreca alle attività agricole, così come peraltro previsto dalla legislazione nazionale in materia venatoria, che impone, prima di procedere con gli abbattimenti di specie che creano problemi, la verifica dell’efficacia di metodi cosiddetti “ecologici”. Quasi inutile ribadire come questa norma non venga praticamente mai seguita. Tra le possibili modalità alternative in grado di limitare la diffusione e i danni provocati dal cinghiale ricordiamo il divieto dell’allevamento e del trasporto di animali (che troppo spesso sfocia, guarda caso, in fughe di animali in ambienti aperti….), l’uso di recinzioni elettrificate per proteggere le colture più pregiate, dissuasori ad ultrasuoni, l’uso di prodotti contraccettivi. Certo, in quest’ultimo caso, i problemi da superare sono ancora molti, Però è evidente che fino a quando non si affronta un problema con convinzione, mezzi e risorse adeguati, ben difficilmente si sarà mai in grado di risolverlo….

Ricordiamo infine che il cinghiale non è quella specie così pericolosa per l’uomo come certa propaganda interessata vuol farci credere (la stessa cosa capita per il lupo). Il cinghiale, come tutti gli animali selvatici, teme l’uomo e fugge in sua presenza. Solo in casi del tutto particolari (animale ferito e cui sia preclusa ogni via di fuga, persona che viene a trovarsi tra la madre e i suoi piccoli) è possibile un attacco. Si tratta comunque di episodi estremamente rari, anche alla luce dell’elevato numero di cinghiali oggi presenti nel nostro Paese: quanti siano esattamente nessuno lo sa, ma si sente parlare di stime che arrivano fino a 2 milioni di esemplari.

Su questi temi il Tavolo Animali e Ambiente di Torino (Comitato che raccoglie numerose Associazioni ambientaliste ed animaliste, tra cui Pro Natura Torino) sta organizzando un convegno, che dovrebbe tenersi il prossimo 20 giugno a Torino. Il condizionale è tuttavia d’obbligo, stante l’attuale situazione legata all’epidemia di coronavirus. È quindi possibile che l’evento verrà rimandato, forse all’autunno. Chi fosse interessato può chiedere informazioni rivolgendosi alla Segreteria di Pro Natura Torino (tel. 011 5096618, torino@pro-natura.it).

Politica Agricola Comune: manca una visione globale

Franco Rainini

 

Nel quadro del (così chiamato) Green New Deal, La commissione Europea ha avviato il percorso che produrrà una comunicazione sulla necessità di stabilire una filiera che fornisca alimenti sani, sicuri, accessibili economicamente alla popolazione e “sostenibili”, “dal campo alla forchetta”. Una prima fase consistente nella consultazione aperta al pubblico è stata conclusa negli scorsi giorni, a questa consultazione la Federazione Pro Natura ha partecipato ponendo la maggior enfasi sugli aspetti di sostenibilità, sulla base delle considerazioni che seguono. In primo luogo riteniamo che la maggiore criticità nello sviluppo di una filiera agroalimentare sostenibile sia nella gerarchia degli obiettivi che la UE si è data per la PAC, con maggiore enfasi sul contenimento dei prezzi delle derrate agricole, perseguito come sostegno all’incremento dell’intensità produttiva (aumento della quantità di capitale per capo o unità di superficie) e con l’inevitabile conseguenza di incrementare forme di agricoltura ad elevato input di concimi chimici, biocidi e intensità di motorizzazione, inevitabilmente più connesse alla semplificazione degli agroecosistemi, alla riduzione di biodiversità e alla perdita di servizi ecosistemici.

Detto in altri termine, la PAC attribuisce risorse agli agricoltori costringendoli al massimo sforzo produttivo allo scopo di ottenere prodotti agricoli che spesso vengono pagati comunque troppo poco. La presenza di realtà agrarie tanto difformi all’interno del mercato unico provoca inevitabilmente effetti di dumping economico e/o sociale e/o ambientale che alcuni (forse tutti) i paesi praticano. Dentro c’è la contraddizione di voler assicurare prezzi bassi delle derrate, redditi adeguati agli agricoltori, tutela dell’ambiente e magari anche dei diritti di chi lavora. Evidentemente nelle condizioni date non tutto si tiene. A perdere sono innanzitutto l’ambiente e in seconda battuta i soggetti più deboli: lavoratori salariati e piccoli agricoltori.

Se dal punto di vista teorico la strada da seguire per superare questo problema è facilmente individuata dalle proposte della nostra Coalizione italiana “Cambiamo agricoltura”, nella pratica del confronto politico è lampante che questa non è solo una stortura nata all’inizio della Politica Agricola Comune che ci trasciniamo per inerzia e neghittosità delle burocrazie: l’errore è sistemico e si trova nell’obiettivo non dichiarato della PAC, cioè il sostegno alle industrie che forniscono prodotti agli agricoltori (a monte) e la trasformazione dei prodotti agricoli (a valle).

I produttori agricoli si confrontano sia all’atto dell’acquisto dei mezzi di produzione che alla vendita delle derrate con soggetti molto più grandi ed economicamente solidi delle loro aziende e sono costretti ad accettare le condizioni del rapporto da queste imposte. In sintesi la PAC sovvenziona le industrie fornitrici e clienti del sistema agricolo dando soldi a soggetti che sono inevitabilmente condannati a cedere loro i soldi ricevuti. Dovendo operare non in condizioni di libera concorrenza ma in mercati dominati da soggetti che operano in oligopolio. È opportuno ricordare a questo punto l’aforisma di Richard Levins (biologo, agroecologo, della Harvard School of Public Health) per cui “coltivare significa ottenere il raccolto di arachidi dalla terra, mentre l’agricoltura fa burro di arachidi dal petrolio”.

Da questa contraddizione riescono ad uscire con successo i produttori biologici e biodinamici, mentre vi rimangono invischiati la gran parte dei produttori di commodities. Forse l’agricoltura organica non è perseguibile da tutti gli agricoltori, ma è un passaggio indispensabile per molti ed insieme la dimostrazione che è possibile uscire dalla trappola.

Sulle conseguenze sociali del sistemi agroindustriale dominante: è opportuno citare il caso (che riteniamo non segnali un fenomeno isolato) dei risultati della missione ONU sull'impatto sociale dell'agricoltura italiana. Le condizioni di lavoro (sicurezza, salari sotto il limite della sopravvivenza, degrado sociale ed abitativo) è da tempo sotto attenzione

https://unric.org/it/esperta-onu-per-la-prima-volta-in-italia-per-esaminare-lo-stato-del-diritto-allalimentazione/

Da entrambe le fonti citate traspare come l'impatto ambientale della PAC si rifletta perfettamente sul piano sociale. Da queste valutazioni emerge fortemente l’esigenza di un approccio agroecologico, che affronti in modo integrato gli aspetti ambientali, sociali ed economici. Riconoscendo la centralità della realtà produttiva in campo, valutando positivamente le forme produttive a ridotto input esterno, preferendo la trasformazione nell’ambito agro-zootecnico locale, favorendo una uniforme distribuzione dei carichi di lavoro all’interno dell’azienda per tutto il corso dell’anno (il che permetterebbe l’ integrazione sociale e la stabilizzazione dei migranti).

Di primaria importanza è la questione dell’importazione di materie prime proteiche per mangimi, soprattutto per suini e vacche da latte, quindi destinati in parte cospicua a diventare reflui zootecnici sparsi sul suolo o smaltiti con modalità tale da porre a serio rischio la qualità delle acque ad uso alimentare e igienico, e la sussistenza stessa di molti ecosistemi (terrestri, acquatici e marini) oligotrofici. Secondo l’annuario 2019 di Assalzoo, l’Associazione Nazionale dei Produttori di Alimenti Zootecnici (https://www.assalzoo.it/wp-content/uploads/2019/08/Annuario_2019_WEB.pdf) la dipendenza del sistema mangimistico italiano per quanto riguarda la soia e i suoi derivati è di circa tre milioni di tonnellate, equivalente alla coltivazione di un milione di ettari (circa 10.000 Km2. Le importazioni arrivano in gran parte dall’emisfero americano, in quota rilevante dal Sud America.

La dipendenza da fonti proteiche (ma anche energetiche) estere è particolarmente rilevante in aree come la Lombardia, che ospita una quota ingente (30-40%) del patrimonio zootecnico italiano. In effetti queste storture ambientali sono create e anche rese economicamente convenienti dalla “delocalizzazione” della coltivazione della componente proteica degli alimenti per i nostri animali. Il sintomo più appariscente è la difformità di distribuzione degli allevamenti rispetto alla superficie coltivabile, quindi al disaccoppiamento della produzione zootecnica da quella agricola, oltre che su scala intercontinentale anche su scala europea e nazionale.

L’Autorità di bacino del fiume Po, sulla base di questi numeri calcola un carico zootecnico di una quarantina di milioni di abitanti equivalenti all’interno del bacino stesso, che comprende il Piemonte, la Lombardia, gran Parte dell’Emilia Romagna e una parte del Veneto (il 33% dei 114 milioni di ab.eq. stimati totali!), Questi animali mangiano e producono deiezioni in quantità assai superiore a quanto succede in distretti agricoli meno intensivi: il ciclo di vita di un pollo da ingrasso (broiler) è di una cinquantina di giorni scarsi, non è infrequente riscontrare produzioni di latte in allevamento che superano i quaranta litri al giorno, l’incremento di peso dei suini da ingrasso supera il mezzo chilogrammo al giorno. Da ciò risulta la necessità di grandi quantità di alimenti standardizzati, con elevati livelli di nutrienti e da questo deriva la nostra dipendenza dalle fonti di approvvigionamento estero, perché le superfici agricole destinate a seminativi in pianura sono in riduzione, a causa del consumo di suolo per costruzioni civili, industriali e soprattutto commerciali e di infrastrutture. Il commento di ISTAT al dato del VI censimento dell’agricoltura per la Lombardia (https://www.istat.it/it/files//2013/02/Focus_Agr_Lombardia_revMalizia_rivistoMarina_26feb.pdf) serve a inquadrare il problema:

In ambito regionale i gruppi colturali hanno evidenziato nel decennio andamenti differenziati. La variazione negativa più consistente si è verificata per la superficie destinata a prati permanenti e pascoli (- 41.297 ettari, pari al -15,0%), la cui estensione media aziendale è solo lievemente aumentata (da 9,6 a 10,8 ettari), segnalandone il progressivo abbandono nell’area montana ove sono prevalentemente localizzati.

Con un calo modesto, pari al 2,1% rispetto al 2000 (-15.000 ettari), seguono i seminativi che mostrano un incremento di rilievo delle estensioni medie aziendali (da 15,2 a 20,3 ettari per azienda) per una flessione del numero delle aziende pari al-27,7%.

In sintesi, nella composizione della SAU gestita dalle imprese si rafforza il peso dei seminativi (la cui quota passa dal 70,3% al 72,5%) e delle coltivazioni legnose agrarie (dal 3,1% al 3,7%) mentre diminuisce quello dei prati permanenti e pascoli (dal 26,5% al 23,8%). “

 

Il fenomeno descritto è quindi quello dell’abbandono delle aree di montagna, dove l’agricoltura non è redditizia, perché legata al pascolo del bestiame, mentre una riduzione pesante (15.000 ettari sono centocinquanta chilometri quadrati!) vi è anche a carico dei seminativi, che tuttavia vedono aumentata la loro presenza relativa, a dimostrazione della riduzione delle aree agricole. Le aziende diventano più grandi per estensione, fenomeno confermato anche dalla dimensione media degli allevamenti (vedi i dati del consorzio Clal in https://teseo.clal.it/?section=vacche_italia, dove risulta anche la sproporzionata distribuzione del patrimonio lattifero nazionale, evidentemente slegata dalla produzione agricola e alla disponibilità di foraggi).

 

Le conseguenze globali provocate anche dall’insostenibile sistema agricolo europeo sono rese evidenti dall’allarme mondiale sollevato negli scorsi mesi dallo sviluppo di vasti incendi in varie parti del Sud America, che nell’immaginario collettivo si è coagulato nell’immagine dell’Amazzonia che va in cenere. Il fenomeno, genericamente attribuito ai cambiamenti climatici, sembra avere una genesi più complessa, non è l’apocalisse immediata e repentina dovuta a temperature più alte, ma è la maturazione di un processo lungo e complesso di trasformazione del sistema agroalimentare mondiale che ha interessato il Sud America quale base produttiva di materie prime destinate alla produzione zootecnica: bovini, suini ,avicoli. Per i primi questa trasformazione ha riguardato il trasferimento di buona parte degli allevamenti estensivi al pascono in allevamenti feedlot (pubblicazione Agri Benchmark https://literatur.thuenen.de/digbib_extern/dn054620.pdf), una pratica zootecnica che in opposizione al pascolo (grass feed) prevede l’allevamento degli animali in grandi recinti, in aziende spesso con decine di migliaia di capi. Questi animali vengono allevati con farine di cereali e soia. La trasformazione di parte degli allevamenti da pascolo feedlot in Sud America, unita alla richiesta mondiale di cereali e soia, ha portato alla trasformazione di pascoli, a volte derivati dalla distruzione della foresta primaria in seminativi. Accelerando il grado di distruzione della foresta e incrementando il “rischio” di incendi.

La trasformazione della foresta in seminativo ha comportato costi ecologici resi universalmente noti dai grandi incendi segnalati negli scorsi mesi, ma si deve anche ricordare che i costi sociali non sono stati irrilevanti: spesso le popolazioni residenti sono state sgomberate con mezzi spesso criminali, tra cui l’uso della violenza, fino all’omicidio e allo stupro agervolati dalla corruzione di funzionari pubblici. Un resoconto è presente nel volume “Agricolture and Food in Crisis” MR Press NY a cura di Fred Magdoff e Brian Toker, al saggio 9 – “The battle for sustainable Agricolture in Paraguay” di April Howard.

Nello specifico della situazione che si è recentemente creata con la segnalazione dell’aumento degli incendi nelle aree in gran parte perimetrali o esterne alle foreste primarie si veda un illuminante articolo di The Guardian https://www.theguardian.com/environment/2019/aug/23/amazon-fires-what-is-happening-anything-we-can-do). Naturalmente il dramma si sta svolgendo anche nel contesto economico generale entro cui si sta svolgendo il dramma, caratterizzato dallo scontro commerciale tra Cina e Stati Uniti riguardo al riequilibrio della bilancia commerciale bilaterale, attualmente sbilanciata a favore dei cinesi. Tra le misure di ritorsione prospettate da questi ultimi è il dazio sulle importazioni di soia dagli USA, il che, oltre a mettere in crisi il seguito politico di Trump negli stati agricoli, aumenterebbe la domanda di soia da altri paesi. Questo potrebbe in prospettiva aggravare la pressione sulle foreste Sud americane (di passaggio: lo stato del Brasile che produce più soia si chiama Mato Grosso, cioè grande bosco, una bella premessa per il futuro). Letta invece con un po’ di dietrologia la cosa spiegherebbe invece l’esplosione sui media della crisi degli incendi “in Amazzonia”, che non è cosa nuova, seppure mai così grave.

Questa nota non può essere in alcun modo considerata esaustiva dei problemi posti dal sistema agricolo europeo. Le criticità sono ampie e variegate ben oltre l’orizzonte di qualsiasi soggetto. Volendo riassumere in poche parole il senso di quanto esposto riteniamo importante che siano affermati i principi della sicurezza alimentare, in primo luogo per il contenuto di pesticidi negli alimenti, di sicurezza ed equità sociale per i diritti dei lavoratori e dei piccoli produttori, di solidarietà globale ad evitare che gli interessi particolari di un piccolo numero di soggetti economici basati in Europa abbiano conseguenze nefaste su paesi economicamente meno forti, equità ambientale basata su una corretta distribuzione e articolazione dei carichi agricoli e zootecnici, permettendo al contempo la robusta presenza di una rete ecologica (aree protette) all’interno dei nostri territori.

La ballata dei lupi ribelli

Vincenzo Rizzi

 

Ci sono ben pochi animali predatori, come il lupo, che hanno intrecciato così tanto le loro sorti con l’uomo, in un rapporto spesso tragico, basato sull'invidia per la forza e la libertà che gode questo straordinario predatore sociale. Un rapporto intriso di crudeltà e sangue a scapito principalmente di uno solo dei contendenti: il lupo. Questo canide selvatico, nell'immaginario umano è sempre in bilico tra divinità positive e negative, il lupo piegato ai voleri dell'uomo e che si tramuta nel suo migliore amico, il cane.

L’uomo che s’inchina alla natura selvaggia e si trasforma in un licantropo. Il lupo predone, il lupo silenzioso, il lupo genitore e fondatore, il lupo specchio della turbolenta anima umana, il lupo che in ogni sua recondita sfaccettatura è il simbolo della forza della vita, ma al contempo rappresenta la parte oscura dell’animo umano, Homo homini lupus.

Facendo un salto indietro nel tempo, Zenobio, un sofista greco del II secolo d.C., asserì: Il lupo è sempre sotto accusa, colpevole o meno che sia. Tutto questo astio nei confronti del lupo crebbe esponenzialmente passando dall'età classica a quella moderna. Infatti, nel secolo breve, 6 forse 7 sottospecie del lupo grigio (Canis lupus) sono state cacciate fino all'ultimo esemplare. Il lupo, malgrado tutto, riesce ancora ad essere fra noi in Capitanata e forse questo miracolo può essere mirabilmente sintetizzato da un proverbio russo: “un lupo sopravvive grazie ai suoi piedi

L’Epopea dello sterminio delle sottospecie di lupo a causa dell'uomo è una narrazione interessante e ricca di elementi di riflessioni sulla visione che l’uomo, negli ultimi cinquecento anni, ha di questo incredibile predatore. In particolare, nel nuovo mondo, la lotta tra uomo e lupo è stata durissima, basti pensare che negli Stati Uniti questo scontro presenta similitudini con la guerra tra gli invasori europei e i nativi americani, dove spesso i nativi rispondevano militarmente all'invasione con tecniche di guerriglia. Infatti, in una visione culturalmente antropomorfa, anche tra i lupi ci furono diversi animali che vendettero cara la propria pelle e, stranamente, molti di questi avevano elementi distintivi come il mantello bianco o nero, che rafforzavano il loro mito e, al contempo, fortificavano l’odio irrazionale che ha caratterizzato la cultura pastorale americana nei confronti del lupo. Basti pensare che nel 1638, nello Stato del Massachusetts, era in vigore una legge che stabiliva che "chiunque nella città sparasse in qualsiasi occasione non necessaria o a qualsiasi animale selvatico, eccetto a un indiano o a un lupo, dovrà pagare 5 scellini per ogni colpo sparato."

In Virginia, nel 1703, un uomo di chiesa, per spiegare la necessità morale per cui gli indiani dovevano venire cacciati anche con i cani e quindi sterminati, scriveva che "essi si comportano come lupi e come lupi vanno trattati". Edward Curnow, nella sua storia dello sviluppo dell'industria dell'allevamento e dell'estinzione del lupo in Montana, afferma che prima del 1878 i coloni erano più assillati dagli indiani, ma una volta che questi furono confinati nelle riserve e con l'arrivo delle nuove ondate di coloni, il lupo per gli allevatori "divenne oggetto di un odio patologico".

Tornando al mito del lupo guerrigliero che si è tramandato fino ai nostri giorni, ricordiamo alcuni dei più conosciuti che hanno operato tra il diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo: Snowdrift Wolf di Judith Basin, Custer Wolf del Sud Dakota, la lupa di Split Rockn detta anche Three Toes di Harding County in Sud Dakota, il lupo di Custer attivo nelle Colline Nere presso Custer, nel Dakota del Sud, Badlands Billy (detto anche Big Dark) e il lupo di Roosevelt del North Dakota, Wolf di Sycan Marsh nell'Oregon, Old Whitey di Bear Springs Mesa, Colorado, Bucher Wolf e Old Lefty della Contea di Eagle in Colorado, Big Foot conosciuto anche come Old Whitey & Three Toes di Bear Springs Mesa, presso Thatcher, Colorado, Spring Creek Wolf, Truxton Wolf, di Virden Wolf, Rags lo scavatore ("Rags the Digger") di Cathedral Bluffs, presso Meeker nel Colorado, Gray Terror, (il lupo macellaio) Colorado, Gray di Cuerno Verde in Colorado, Two Toes Colorado, Old Sister, il lupo di Greenwood e il branco di Keystone sempre nel Colorado, The Truxton Wolf e Aquila Wolf in Arizona, il lupo di Chiricahua dei monti Chiricahua, Lupo Spring Valley Arizona, Old one Toe e Old Auguila in Arizona, Wolf e Black Buffalo runner in Manitoba, Winnipeg Wolf, Ghost Wolf del Montana, Big Timber Killer del Montana, Old Grazy Mountain Wallis del Montana, White Wolf of Cheyenne del Montana, Snow Slide of the High Wood Mountains del Montana, Lefty of Fort Mc Ginnie del Montana, Old Cripple Foot del Montana, Big Foot, Bob Brew, Unnamed Large, Custer, Unnamed White, Yellow hammer, Cushion Foot, Five Toes, Red Flash, Scar Face e Two Toes tutti lupi del Wyoming, Two Toes del Kansas, Lobo Giant Killer Wolf of the North del Minesota, Las Margarita e Old One Toe Messico, Big Foot Terror of the lane County del Colorado, Phantom Wolf of Big Salt Wash, del Colorado, Green Horn Wolf del Colorado, Old Club Foot del Colorado, Three Toes of the Apishapa del Colorado, Big Boy, El Lobo Diablo, Black Worrior, e El Comanche tutti Nuovo Messico, Were Wolf nel Saskatchewan, Old Two Toes Baytield County del Wisconsis, Lobo White del Texas.

Ovviamente molti di questi lupi si riteneva provenissero dalle riserve indiane (ulteriore punto di convergenza): Pine Ridge Wolf dalla riserva di Pine Ridge, Pryor Creek Wolf dalla riserva Crow, Ghost Wolf delle Little Rochies dalla riserva di Fort Belknap. Non mancavano poi i lupi mutilati dalle tagliole. Uno in particolare aveva perso una zampa ed era conosciuto con il nome di Old Lefty di Burns Hole Colorado. Il più temuto era invece un certo Tre dita di Harding Country del Sud Dakota e, secondo Stanley Young, furono impiegati ben 150 uomini, per 13 anni, prima che venisse catturato nell'estate del 1925, dopo che, secondo gli allevatori, aveva causato danni per circa 50.000 dollari.

L’epopea degli ultimi lupi ribelli riecheggiò negli scritti di diversi letterati e naturalisti. Tra i più celebrati c'è la ballata di Currumpaw Wolf (Lobo), della sua compagna Blancaedi altri quattro membri del suo branco che vissero nel New Messico settentrionale. Lobo veniva descritto come un lupo di notevoli dimensioni del peso di 68 Kg e con una altezza di 91 cm al garrese. Nel suo branco oltre alla sua compagna, la lupa bianca ribattezzata “blanca” c’era anche un lupo di colore giallastro: entrambi furono responsabili, in una sola notte, della morte di 250 pecore. Pare che durante le battute di caccia, il ruolo di Lobo all'interno del branco era di abbattere le prede grazie alla sua mole, lasciando poi agli altri membri del branco il compito di uccidere le prede. Questa storia fu narrata da Ernest Thompson Seton nel suo libro più famoso, Wild Animals I have Known, (1898). Nel 1894 questo naturalista viene invitato da un suo amico allevatore perché ogni tipo di trappola veniva sistematicamente aggirata da una banda di lupi. Dopo che anche Setton costatò l'abilità del Lupo Currumpaw e della sua compagna di aggirare le trappole, ideò un astuto piano suggerito da vecchi cacciatori: amalgamò formaggio con il grasso ottenuto dai reni di una giovenca macellata, provvide a cucinare il tutto per poi tagliarlo con il coltello di osso per evitare l'odore del metallo. Una volta che questo intruglio fu raffreddato, lo spezzò e introdusse in ogni singolo pezzo una grossa dose di stricnina e cianuro, contenuta in apposite capsule per non rilasciare odori o sapori, poi sigillò i buchi con del formaggio.

Durante tutte le operazioni indossò dei guanti che aveva immerso nel sangue della giovenca ed evitò persino di espirare sull'esca. Dopo aver preparato il tutto, lo inserì in una sacca che in precedenza era stata strofinata con il sangue. Con questo preparato cavalcò, trascinando il fegato e i reni della giovenca, percorrendo circa 15 km, gettando ovunque esche avvelenate durate il percorso. Nonostante tutti questi accorgimenti Currumpaw ignorò le trappole e anzi ne raggruppò ben quattro di esse su cui defecò sopra.

Sfortunatamente la femmina Blanca finì in una tagliola nelle primavera del 1894. Setton e i mandriani si avvicinarono a cavallo dopo di che il naturalista dichiara: "accadde l'inevitabile tragedia, al pensiero della quale, in seguito, rabbrividii più che al momento stesso. Ognuno di noi lanciò un lazzo al collo della lupa e avviammo i cavalli in direzioni opposte finché il sangue non le sgorgò dalla bocca e, con gli occhi vitrei, gli arti rigidi, infine si accasciò". La lupa fu portata al ranch, il maschio la seguì e il giorno successivo finì nelle trappole poste a protezione della fattoria.

Venne incatenato e lasciato in vita per tutta la notte, ma al mattino lo trovarono morto, senza nessun segno. Setton rimase colpito da quanto si era verificato e distese il corpo del maschio di fianco a quello della sua compagna.

Il compenso per l'uccisione di quel lupo era di 1000 dollari. Mi piace immaginare che il grande naturalista americano, che tanto contribuì alla creazione del movimento per la conservazione della natura in America, non abbia riscosso quella taglia. Di certo fu così tanto turbato da rinunciare per sempre alla caccia e dedicò molto del suo tempo alla difesa dei lupi e dei popoli nativi americani.

Attualmente i teschi di Lobo e Blanca sono esposti nel Canadian Museum of Nature, mentre la pelle del primo è tenuto nel Philmont Museum a Cimarron nel Nuovo Messico. Il resoconto dato da Seton dell'evento fu poi reso popolare attraverso un lungometraggio della Disney, La leggenda di Lobo.

Biosfera sotto attacco

Eccellenze Alimentari e Composti Azotati: c’è attenzione per il territorio?

Collaborazione fra Associazioni lombarde aderenti alla Federazione nazionale Pro Natura

 

Umberto Guzzi – idrogeologo, Gruppo Naturalistico della Brianza, Canzo (CO)

Franco Rainini – agronomo, Associazione per i Vivai ProNatura, San Giuliano Milanese (MI)

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Il tracollo della biodiversità

Riccardo Graziano

 

Molti di noi sanno che la biodiversità, ovvero la varietà delle specie viventi del globo, è in costante declino. Ma pochi si rendono realmente conto di quanto sia drammatica la situazione, non solo nell’opinione pubblica, ma anche fra ambientalisti e “addetti ai lavori”, perché spesso non siamo a conoscenza di molti dati e indicatori che rendono invece evidente la gravità del problema e possono darci l’esatta percezione di quanto sia esteso e profondo il danno che abbiamo arrecato e stiamo arrecando al pianeta. Questa diffusa mancanza di consapevolezza fa sì che non venga avvertita a sufficienza l’urgenza di prendere provvedimenti seri per arginare questo tracollo.

L’estensione del danno è globale, ma si manifesta con livelli diversi di gravità nei vari ecosistemi del pianeta, risultando più o meno evidente a seconda dei contesti. Al tempo stesso, non vi è ormai dubbio che la causa del problema sia la pressione esercitata dalla specie umana sulla biosfera, da cui il termine Antropocene con cui viene identificata l’era geologica contemporanea, nella quale è appunto l’Homo sapiens a determinare i mutamenti planetari. Esaminiamo la situazione con una serie di esempi, non esaustivi, che possono aiutarci a visualizzare il quadro della situazione attuale e magari a valutare in prospettiva le possibili conseguenze.

Cominciamo col dire che oltre i due terzi (70%) della superficie terrestre sono stati alterati dall’azione umana (disboscamento, agricoltura, cementificazione…), spesso in maniera difficilmente reversibile. Una delle conseguenze di tutto questo è che nel corso della storia umana – periodo relativamente breve, su scala geologica - la biomassa della vegetazione terrestre si è dimezzata, perdendo oltre il 20% della varietà delle specie.

Anche nel Regno animale le cose non vanno meglio: dal tardo pleistocene (12.000 anni fa) a oggi la globalità della fauna selvatica si è ridotta di tre quarti, un assottigliamento che ha causato l’estinzione di molte specie. La riduzione progressiva del numero di individui di una certa specie porta infatti inesorabilmente ad arrivare sotto una soglia limite che possa garantire la prosecuzione della specie medesima, determinandone fatalmente l’estinzione. E non si tratta di una questione meramente quantitativa, ma anche qualitativa, perché la variabilità intraspecifica è importante quanto quella fra specie. Infatti, solo un elevato numero di individui garantisce quella variabilità che può consentire alla singola specie di superare eventi potenzialmente fatali, come l’aggressione di nuovi patogeni o l’improvvisa alterazione dell’habitat.

Dal XVI secolo le cronache registrano la scomparsa di oltre 700 specie di vertebrati e circa 600 di piante, ma è probabile che la perdita sia più elevata, perché molte estinzioni potrebbero essere passate inosservate o riguardare specie nemmeno censite.

Questa tendenza è purtroppo tuttora in corso: si calcola che dal 1970 a oggi, in pochi decenni, oltre il 60% di tutti i vertebrati terrestri sia scomparso. Questa imponente perdita numerica si traduce in una minaccia di estinzione che riguarda almeno un milione di specie sul totale stimato di 7,3-10,0 milioni di specie di eucarioti, gli organismi viventi le cui cellule sono dotate di nucleo, definizione che ricomprende tra gli altri animali, piante e funghi.

Negli ultimi anni, questo declino precipitoso ha iniziato a colpire anche gli insetti, considerati fino a non molto tempo fa un possibile serbatoio di proteine in alternativa alla carne. In particolare desta preoccupazione la progressiva scomparsa degli impollinatori, il cui ruolo è pressoché insostituibile per la riproduzione di moltissimi vegetali, fra i quali anche buona parte di quelli utilizzati nella nostra alimentazione.

Ma la Terra, come ben sappiamo, è soprattutto un pianeta di acque, che ricoprono la maggior parte della sua superficie. Purtroppo, anche qui le cose non vanno bene, dal momento che oltre i due terzi dell'area oceanica sono stati in parte compromessi dalle attività umane. La nostra attenzione si focalizza in genere sui mammiferi, verso i quali proviamo una maggiore empatia, per cui sappiamo che balene, delfini e foche sono in pericolo. Ma anche la maggioranza delle altre specie è in grave difficoltà, a causa della pressione della pesca intensiva, mentre i grandi pesci predatori sono diminuiti di un terzo nel corso di un secolo. Senza contare l’inquinamento, dalle pervasive microplastiche agli sversamenti di greggio.

Critica anche la situazione delle altre creature marine, a partire dai coralli, la cui copertura si è dimezzata rispetto a quella presente a metà del XIX secolo. Fatali in questo caso i cambiamenti climatici, che provocano innalzamento del livello della temperatura e del grado di acidificazione delle acque. L’estensione delle foreste di alghe si è ridotta del 40%, le praterie marine nell’ultimo secolo hanno perso il 10% della superficie ogni decennio.

Non va meglio con le acque dolci. Le zone umide attuali sono meno del 15% di quelle presenti nel XVIII secolo. I corsi d’acqua sono sempre più imbrigliati, dai piccoli torrenti fino ai grandi fiumi: più dei tre quarti di quelli lunghi oltre 1000 km presentano barriere lungo il percorso, come la diga di Assuan sul Nilo o la Hoover Dam e la Glen Canyon Dam che impediscono al Colorado di arrivare fino alla foce, o le dighe del sistema Gibe che sbarrano il fiume Omo provocando il progressivo prosciugamento del lago Turkana, come già avvenuto per quello di Aral.

Tornando alla biodiversità animale, qualcuno ha calcolato che sul totale della biomassa, ben il 59% sia composto dal bestiame e il 36% dagli esseri umani viventi, cosicché solo un residuale 5% contiene tutta la fauna selvatica di mammiferi, uccelli, rettili e anfibi. In altre parole, il 95% della massa animale terrestre è rappresentata dalla specie umana e dagli animali domestici che usa per nutrirsi.

Peraltro, anche le specie addomesticate non sono esenti dal declino: il 10% dei mammiferi domestici si è già estinto e un migliaio di razze sono in pericolo. Discorso analogo per i vegetali coltivati, con 200 specie minacciate e una progressiva riduzione della variabilità alimentare, ormai basata a livello mondiale su un ventaglio di prodotti sempre meno variegato.

Tutti questi dati testimoniano in modo piuttosto evidente che stiamo vivendo quella che è la Sesta estinzione di massa del nostro pianeta, un evento paragonabile a quello che ha sterminato i dinosauri. Solo che oggi, a rischiare l’estinzione, ci siamo noi.