Franco Rainini
Moltissimi, in questi orribili giorni, si sono ritrovati a sfogliare le vecchie edizioni scolastiche dei Promessi Sposi, a cercare in fondo al libro la storia della peste di Milano e a trovarvi traccia di un elemento di logica e di continuità storica e culturale con l’inatteso presente che stiamo affrontando. Le pagine del Manzoni sono per tutti noi che abbiamo vissuto, almeno in misura preponderante, in tempi di pace, (percepita) prosperità e salute assicurate, possono forse essere un pezzo di questo elemento, il primo tratto del percorso che dobbiamo fare.
L’esigenza che sentiamo, forse tutti, è ritrovare senso e continuità con quello che era la nostra vita normale solo un mese fa, recuperare nella nostra esperienza, nella nostra cassetta degli attrezzi, ciò che spiega il presente e dà speranza a quello che deve arrivare. Per questo rileggiamo il XXXI e XXXII Capitolo del librone che ci è stato somministrato all’inizio dell’adolescenza e che mai avremmo pensato di poter sperimentare nella nostra esistenza.
Pagato il debito dovuto con il nostro passato più remoto, a chi è impegnato nel volontariato e nella militanza ambientalista, è subito evidente che nella narrazione del presente vi è una grave imprecisione: da più parti questa epidemia è stata descritta come un “cigno nero”, un evento imprevedibile che cambia il paradigma d’interpretazione della realtà, tanto inaspettato quanto il meteorite che sterminò i dinosauri, o la fortuita circostanza che provoca un incidente. Come ambientalisti dobbiamo quietamente dissentire da questa spiegazione. Nelle scienze biologiche e umane la dipendenza tra malattie e cicli storici è stata ampiamente dibattuta, ognuno di noi ha letto volumi di divulgazione scientifica o antropologica dove questi legami sono trattati e messi a disposizione del grande pubblico; negli ultimi decenni gli avvisi della possibilità di una grave crisi sanitaria sono stati numerosi e una vera e propria catastrofe epidemica, Ebola, ciclicamente si riattiva e si spegne dal 1976 in Africa, su un substrato di permanente crisi politica, ecologica, sanitaria e alimentare.
I cambiamenti ambientali (di cui quelli climatici sono solo un aspetto) e la velocità delle comunicazioni sono occasione del rapido diffondersi delle malattie. È falso sostenere che non si è posta attenzione a questi aspetti, la ridotta bibliografia in calce è un ridotto campione di quanto si può trovare in libreria e sulla rete. Piuttosto pare che l’attenzione scientifica e la consapevolezza che deriva dal nostro terribile passato di miseria e di epidemia non abbiano influito sulla valutazione del sistema di relazioni con l’ambiente e tra di noi, abitanti diverse parti del mondo.
La peste e il Manzoni ci suggeriscono un primo spunto di riflessione: nel libro è raccontato come l’arrivo della peste abbia causa nel passaggio dell’esercito imperiale attraverso la Lombardia, Manzoni ha cura di riferire l’episodio del soldato tedesco sbandato che, nell’opinione dell’epoca, avrebbe avviato il contagio. Oggi che l’origine e l’ecologia della peste sono più noti, sappiamo che il singolo evento non fu verosimilmente tanto determinante, quanto lo fu invece lo stato di confusione sociale, i movimenti di persone all’interno della zona oggetto del conflitto, la mutata conseguente relazione tra gli ambienti di vita e le popolazioni di roditori sinantropi. Questa questione è trattata in un articolo americano del 1969 sul ruolo dei roditori nella (possibile) diffusione della peste nel Vietnam, allora in stato di guerra con la presenza di 500.000 soldati americani su quel territorio. La peste in quella regione era certamente argomento di grande preoccupazione per gli Stati Uniti, anche per la possibile importazione del contagio favorita dal grande e rapido scambio di persone e materiali tra i due paesi. Un passo delle conclusioni dell’articolo di oltre cinquant’anni fa è, alla luce di quello che sta succedendo oggi, premonitore : ”l’attuale situazione in RVN (Vietnam del Sud) è tale che sussiste un potenziale di diffusione internazionale. Topi e pulci infetti di peste sono stati raccolti dentro e intorno a molti dei grandi porti e aeroporti e un importante serbatoio epidemico, Rattus exulans, è stato trovato in un crescente numero di navi ed aerei arrivati negli USA dal Vietnam. Gli attuali viaggi aerei in jet sono capaci di portare, topi, pulci ed esseri umani infetti in ogni parte del mondo in poche ore” (20). Quindi nel 1969 vi era già piena consapevolezza dei rischi di diffusione delle malattie create dalle condizioni combinate del disagio sociale e ambientale creato dalla guerra, insieme alla velocità dei trasporti.
Gli aspetti più squisitamente ecologici delle epidemie sono stati trattati da numerosi autori, uno dei contributi più interessanti è quello fornito da Richard Ostfeld sugli studi della malattia di Lyme, trasmessa da zecche del genere Ixodes all’uomo. La zecca vive in ambiti forestali e compie il ciclo su numerose specie di mammiferi. Gli studi presentati nel libro di Ostfeld (1) sono stati effettuati con il monitoraggio di migliaia di piccoli mammiferi nelle foreste del Nord Est degli Stati Uniti e hanno portato a conclusioni di grande importanza. I primi capitoli del libro servono a dissipare la presunta attribuzione a specie selvatiche (cervi, roditori …) della responsabilità della diffusione della malattia, che, presente anche da noi, è diventata un fattore di allarme sociale e sanitario negli Stati Uniti, tanto da comparire persino in diverse serie televisive.
Nei capitoli successivi l’autore focalizza l’attenzione sui cambiamenti dell’ambiente forestale nell’area di studio, fino a dimostrare il collegamento tra la diffusione della malattia e la perdita di biodiversità, anche in questo caso, come in quello raccontato oltre, l’autore pone l’accento sull’importanza della continuità forestale. Ciò che è alla base del mantenimento ed estensione dei corridoi ecologici: “Così la biodiversità di vertebrati, ottenuta evitando la frammentazione forestale, ci protegge dall’esposizione al morbo di Lyme (pag. 118)”, affermazione questa abbastanza interessante alla luce delle polemiche sul ritorno dei grandi predatori da noi.
In altra parte del testo la diffusione (prevalenza) dell’agente infettante, dei vettori, e delle specie serbatoio è posta in relazione con le dinamiche della componente arborea della foresta, condizionata in ampie zone del nord America dalla presenza del lepidottero defoliatore Lymantria dispar, importato intenzionalmente dall’Europa per tentare, invano, di sviluppare un’alternativa al baco (Bombyx mori) per la produzione della seta: “le esplosioni demografiche della falena hanno diversi potenziali impatti sulle zecche e sul rischio di esposizione al morbo di Lyme. In primo luogo la defoliazione toglie l’ombreggiamento del suolo che diventa più caldo e secco d’estate, causando una temporanea riduzione delle zecche. In secondo luogo la produzione di ghiande richiede l’accumulo di riserve da parte delle piante nel corso di diversi anni, una defoliazione pospone di almeno un anno la produzione di ghiande, alterando la dinamica delle popolazioni di arvicole, ospiti delle zecche. In terzo luogo attraverso la morte delle querce, può accelerare il declino di queste specie, come avviene in gran parte degli Stati Uniti. Quest’ultimo fenomeno può avere effetti di lungo termine sulla malattia di Lyme, stabilizzando la popolazione di zecche, generalmente sottoposta a fluttuazioni (pag. 107)”. Si conclude che il fenomeno indagato può avere effetti diversi nel breve e lungo periodo sulla malattia e l’effetto definitivo può rivelarsi opposto e sfavorevole. Anche in questo caso è facile rintracciare nella nostra esperienza di ambientalisti esempi diversi di mezzi messi in atto per riparare a danni immediati che si rivelano disastrosi sul lungo periodo.
Quest’ultimo passo scritto da Ostfeld oltre dieci anni fa sembra anche profetico della situazione attuale: “L’approccio molecolare non ha avuto molto successo (ma anche meno) nel dirigere gli interventi di prevenzione [delle malattie veicolate dagli animali], pure l’interesse e il supporto per questo obiettivo continua ad accelerare. Questo è bene. Ma fino a quando noi avremo creato, prodotto in scala e distribuito vaccini sicuri, economici ed efficaci per ogni patogeno emergente, o rimpiazzato le popolazioni selvatiche di vettori con altre geneticamente modificate, incapaci di trasmettere i patogeni le conoscenze ecologiche rimarranno indispensabili. In altre parole le conoscenze ecologiche saranno sempre indispensabili”. Oltre al significato per l’accaduto questo passaggio contiene un giudizio implicito sull’uso delle tecnologie genetiche immesse negli ambienti naturali (pag. 185).
L’effetto della forestazione sulla diffusione della malaria, in ambito tropicale, è indagato in un altro articolo, cofirmato dal grande ecologo Richard Levins (18). L’articolo tratta sessanta esempi di cambiamenti nell’uso del suolo che hanno comportato cambiamenti nell’ecologia del vettore (la zanzara anofele). Il risultato dell’indagine è che la deforestazione e lo sviluppo di coltivazioni intensive, che – è bene ricordarlo – sono destinate alla produzione di beni esportati verso i paesi ricchi, provocano condizioni favorevoli alla malaria. Anche in questo caso la gestione della foresta è particolarmente rilevante alle condizioni di sviluppo della malattia.
Procedendo in questo parziale elenco delle emergenze sanitarie collegabili a squilibri ambientali, è opportuno ricordare i focolai di Hendra Virus che si sono verificati in Australia dagli anni ’90. L’interesse per queste vicende deriva soprattutto dal largo dispiego di elementi conoscitivi che hanno permesso di ricostruire con sufficiente chiarezza lo sviluppo delle vicende e la loro genesi (21). Oltre che dalle grandi capacità di chi ha effettuato gli studi, si deve considerare il fatto che la malattia ha colpito un paese ricco e un settore particolarmente ricco. Hendra ha ucciso cavalli, allevatori di cavalli e veterinari in una regione un tempo coperta da foresta primaria (Queensland), che nel tempo è stata notevolmente antropizzata. Lo studio citato illustra come il cambiamento nell’ecologia delle volpi volanti (pipistrelli frugivori) ha portato questi animali a diventare stanziali presso le aree verdi intorno alle città, modificando così nel contempo l’ecologia del virus, che un tempo generalmente diffuso e universalmente presente all’interno delle popolazioni di chirotteri, è diventato anch’esso frammentario nella distribuzione e più violentemente epidemico negli scoppi di focolai. L’alta emissione di virus emessa dalle popolazioni recentemente contagiate ha permesso il salto di specie verso i cavalli e da questi all’uomo. Una descrizione particolarmente efficace del contesto in cui si è sviluppata la malattia è presente in Quenman (19).
La storia di Hendra ha anche un’altra evidenza: focolai di virus simili si sono registrati in Asia (nipah virus). Anche in questo caso la genesi della malattia è stata individuata da cambiamenti ecologici che hanno interessato le volpi volanti e hanno portato questi animali a contatto con l’uomo.
Genesi simile e risultati assai più disastrosi ha avuto anche il fenomeno Ebola. Le cronache di questa malattia sono terrificanti, mentre le prove del legame che esiste tra il degrado ambientale e il morbo sono diventate via via più robuste e infinito è l’elenco delle pubblicazioni che lo supportano; in bibliografia sono riportati solo alcuni esempi (4, 5, 10, 11, 12). Altri spunti di riflessione e un resoconto particolarmente appassionato e toccante si trovano nel già citato libro di Quenmen(19).
Secondo gli autori citati, in particolare Wallace, molti, se non tutti i focolai e le epidemie di Ebola sin qui registrati, sono da collegarsi con eventi di intrusione dell’uomo che modifica la foresta, a partire dai primi casi registrati.
Per quanto riguarda l’ultima epidemia per cui è stato prodotti un gran numero di studi, quella in Africa Occidentale, partita da un focolaio in Guinea ed estesasi soprattutto attraverso quel paese, in Liberia ed in Sierra Leone, sotto attenzione e oggetto di modellazione matematica è stato il cambio del sistema agroecologico di coltivazione della palma da olio, coltura tradizionalmente diffusa in quei territori: la palma da olio oggi estesa in tutto il mondo, ben oltre i limiti del suo areale storico, e a parere di molti molto più diffusa in forma intensiva di quanto doveva essere.
L’ambiente dove è esplosa l’epidemia è così descritta dagli autori (4): “l’immagine mostra un arcipelago di appezzamenti di olio di palma nel supposto “ground zero” dell’infezione. L’uso del suolo appare come un mosaico di villaggi circondati da densa vegetazione, interrotta da piantagioni di fruttiferi, un ambiente adatto ai pipistrelli frugivori, cruciale serbatoio di Ebola”. Anche in questo caso la deforestazione avrebbe provocato un cambiamento nelle modalità di alimentazione dei pipistrelli che avrebbero una maggiore frequente presenza sulle coltivazioni di palma da olio. In questo caso sarebbe quindi il cambiamento nella destinazione d’uso del suolo in una, isolata località del nord della Guinea ad innescare la disastrosa epidemia. In altri studi (10, 11), tra cui quello condotto dal Politecnico di Milano, si pone in rilievo come la frammentazione della foresta sia condizione compatibile alla comparsa dell’epidemia.
Sono presenti diverse specie di Ebola, una di queste è Reston Ebolavirus (Rebov), unica presente in Asia. Questa malattia ha colpito gli allevamenti industriali di suini nelle Filippine ed in Cina. In questi paesi si è assistito negli ultimi decenni a forte intensificazione degli allevamenti suini, nelle Filippine la deforestazione e la conseguente riduzione delle popolazione di volpi volanti ha favorito il passaggio del virus dal chirotteri ai maiali. Ovviamente la preoccupazione che questo virus possa fare un altro salto di specie, dai maiali all’uomo, è ampiamente diffusa e oggetto di dibattito.
Il salto di specie dagli animali di allevamento all’uomo è evidentemente un anello della catena di passaggio dall’ambiente naturale in sofferenza: esso è del resto ampiamente presente e dimostrato. Non è un fatto nuovo ed è connaturato all’addomesticamento degli animali. Gli esempi si sprecano. In una recente intervista (13) la virologa Ilaria Capua ricorda l’origine zoonotica (cioè frutto di un salto di specie dai bovini all’uomo) del morbillo, lo stesso può dirsi per altre malattie come il vaiolo (la cui profilassi ha battezzato il termine vaccino, essendo in origine effettuato traendo l’essudato dalle pustole del vaiolo bovino). L’esempio più terribile è quello dell’influenza aviaria, da cui si è originata l’epidemia di influenza Spagnola, a cavallo della fine della prima Guerra Mondiale. Anche se la terribile virulenza di quell’evento è stata amplificata dalle particolari condizioni sanitarie e alimentari del periodo, la preoccupazione di un nuovo passaggio altamente aggressivo sulla nostra specie si ripropone ciclicamente, ed era certamente una ipotesi considerata assai più probabile dell’evento che ci sovrasta oggi.
Il punto cruciale è l’intensificazione delle produzioni zootecniche, un problema devastante per molte ragioni: le condizioni di allevamento incompatibili con le necessità del benessere animale, la trasformazione dei nutrienti minerali (azoto e fosforo) presenti nei reflui degli allevamenti in inquinanti che minano il sistema idrologico. Anche il rischio di diffusione di malattie all’interno del ciclo degli allevamenti e da questi verso l’uomo è un grave segnale di insostenibilità. È di pochi mesi fa la diffusione della peste suina africana in Cina, che ha condotto all’abbattimento di centinaia di milioni di maiali in quel paese, che è il maggiore allevatore mondiale di suini. Questo fatto è stato paventato come una possibile catastrofe nazionale, perché l’eventuale introduzione in Italia avrebbe compromesso la fiorente esportazione dei rinomati prodotti di carne suina made in Italy. Purtroppo è successo di peggio.
Il passaggio dall’allevamento tradizionale alle concentrazioni proprie degli allevamenti industriali ha modificato la probabilità e l’intensità degli eventi epidemici, la contemporanea perdita di ambienti o connettività naturali – soprattutto nelle aree tropicali – porta e definire lo scenario descritto da Wallace (5): “Mentre molti patogeni selvatici si estinguono con le loro specie ospiti un sottoinsieme di infezioni che una volta si estinguevano in modo piuttosto veloce, a seguito di incontri occasionali nella foresta ora si propagano attraverso la suscettibile popolazione umana [e attraverso quelle dei suoi animali d’allevamento], la cui vulnerabilità all’infezione è esacerbata negli ambienti urbani” Questa riflessione è stata pubblicata su un libro della Springer (di limitata diffusione) alcuni anni prima dell’esplosione del Covid 19, in modalità praticamente uguale a quella annunciata.
Per la verità un elemento di sorpresa nell’esplosione di questo coronavirus è presente, in Big Farm Make Big Flu (2) lo stesso autore sembrava suggerire che “The Next Big One”, la futura grande epidemia che sembra si sia realizzata in questi giorni, potesse prodursi dal sistema agro-industriale e avere la forma di una influenza, così non è (ancora) stato, ma gli elementi a sostegno di questo rischio sono numerosi. Secondo l’autore un predatore o un parassita sono limitati nel loro sviluppo dal numero e dalla suscettibilità delle loro prede o ospiti: un parassita troppo efficiente stermina la coorte di ospiti con cui viene a contatto e riduce la sua possibilità di diffusione.
Inoltre una diversa suscettibilità degli individui presenti all’interno della popolazione ospita limita lo sviluppo del parassita. Le condizioni di allevamento eliminano questi due vincoli. Tutti gli animali condividono un patrimonio genetico sostanzialmente comune e sono tanto ammassati da poter escludere l’ipotesi di esaurimento delle possibilità di contagio. In più, gli allevamenti sono spesso concentrati in aree geografiche limitate (il Minnesota è la zona di elezione per l’allevamento dei tacchini, mentre la Provincia di Brescia e il Veneto Occidentale vedono la maggiore concentrazione di allevamenti avicoli in Italia). Il risultato è ovviamente una maggiore esposizione alle catastrofi epidemiche. Il passaggio della malattia alla popolazione umana concentrata avrebbe gli effetti che sperimentiamo nella diversa contingenza attuale.
Per le ragioni sopra riportate (certo parziali e suscettibili di essere ulteriormente ampliate citando ad esempio i casi degli arbovirus, la cui diffusione è certamente favorita dai cambiamenti climatici) si deve ritenere che non siamo di fronte a nessun evento imprevedibile, non c’è nessun cigno nero all’orizzonte e quanto era successo si poteva prevedere, certo non nel particolare meccanismo che si è creato: ma proprio la sua imprevedibilità ci riporta alla necessità di applicare alle questioni ambientali quel principio di precauzione, spesso inutilmente invocato di fronte ai rischi individuali, come quelli legati alla sicurezza sul lavoro o alla sicurezza alimentare (8).
È ancora opportuno ricordare che la necessità di adattare l’ambiente in cui si compie la nostra vita alle nostre necessità ecologiche non è appannaggio di qualche specialista ecologo o epidemiologo, slegato dal pensiero comune del main stream delle politiche sanitarie. Le convenzioni, i trattati e le carte espresse dalle varie conferenze sulla salute delle Nazioni Unite contengono direttamente o in modo mediato impegni per la creazione di un ambiente che promuova la salute. L’incapacità oggi evidente di assicurare che tali principi diventassero agenti operativi nel senso auspicato è forse il principale problema politico che l’umanità deve affrontare.
Siamo forse di fronte a un cambiamento importante che manderà in frantumi molto di quello che abbiamo sino ad oggi considerato sicuro e consolidato, in un recente post su Facebook uno scienziato americano (epidemiologo) afferma che nessun epidemiologo sopravvive a una pandemia, la sopravvivenza (si spera) è da interpretarsi in senso figurato come la necessità di adeguare il paradigma di conoscenze alla nuova terribile novità.
Lo stesso potrebbe essere detto per i politici, gli economisti, i dirigenti industriali. Le sollecitazioni presenti nei testi elencati in bibliografia, e in gran parte citati nel testo, devono forse diventare patrimonio comune e elemento di indirizzo, molte cose devono necessariamente cambiare.
Certamente il movimento ambientalista deve riconoscere nel doloroso passaggio che stiamo attraversando una conferma dei moniti e delle previsioni avanzate fin dall’inizio della sua storia. Da alcuni anni la crisi ambientale è diventata sui mass media sinonimo di cambiamento climatico, dimenticando i diversi aspetti che presenta e soprattutto le profonde interrelazioni che esistono tra questi.
In un libro curioso e interessante scritto dal singolare biologo tedesco di origine lituana Jakob von Uexkull, il cui cui titolo è “Ambienti umani e ambienti animali” (in italiano edito da Quadliber), l’autore – tra l’altro amico del filosofo tedesco Heidegger – svolge una critica all’approccio meccanicista proprio della fisiologia classica dell’epoca. In particolare adotta la metafora della macchina e del macchinista per enfatizzare la presenza di una soggettività dell’animale che ha un proprio ambiente definito dagli stimoli sensoriali che possiede, ambiente certo percepito in modo fenomenologicamente diverso da quello da noi percepito, ma ugualmente suscettibile di essere condizionato attivamente dall’organismo, quanto da noi sulla base delle nostre capacità percettive. Non è evidentemente solo una digressione oziosa: gli organismi con cui condividiamo la terra sono capaci di reazione alle nostre azioni: non sono solo macchine (più o meno docili), sono elementi di complessità che rispondono in modo inaspettato (creativo?) alle sollecitazioni che gli imponiamo, forse questo è un altro pezzo del percorso che dobbiamo fare.
Per concludere (e per pareggiare politicamente con Heidegger) vale la pena citare un altro improbabile ecologista. Friedrich Engels, alla fine della sua vita, scrisse un testo (Dialettica della Natura, contenuto all’interno di Antiduhring), quasi sempre mal digerito dalla critica marxista, in cui è contenuto questo brano: “Non compiaciamoci troppo delle vittorie umane sulla natura. Per ognuna di queste vittorie la natura prende la sua vendetta su di noi. Ogni vittoria, è vero, in prima istanza ci porta ai risultati attesi, ma in seconda e terza istanza ha effetti abbastanza diversi e imprevisti che troppo spesso cancellano i primi”.
Bibliografia
1 Lyme desease the ecology of a complex system, R. S. Ostfeld, ed. Oxford University Press;
2 Big Farm Mag Big Flu, R. Wallace, Monthly Review Press;
3 Super Bugs in the Anthropocene Jan Angus, Monthly Review, June 2019;
4 Neoliberal Ebola, R. G. Wallace e R. Wallace (editors), ed. Springer;
5 Clear Cutting Disease Control, R. Wallace et al, ed. Springer;
6 Global ecology and Enequal Exchange – Fetishism in a zero-sum World, A. Hornburg, ed. Reutledge Studies in Ecological Economics;
7 A Prosperous Way Down, Howard T. Odum e Elisabeth C. Odum, ed. University Press of Colorado;
8 The Preucationary Principle in Environmental Science, D. Kriebel, R. Levins et.al., in Environmental Health Perspective, september 2001;
9 Effect of Species diversity on disease risk, F. Keesing, R.D. Holt e R.S. Ostfield, Ecology Letters (2006) 9;
10 The nexus between forest fragmentation in Africa and Ebola virus disease outbreaks, M.C. Rulli, M. Santini, D. TS Hayman e P. D’Odorico, www.nature.com/scientificreports;
11 Recent loss of closed forests is associated with Ebola virus desease outbreaks, I. Olivero et. al., www.nature.com/scientificreports;
12 Conservation Medicine and a New Agenda for Emerging Diseases, Ann. New York Academy of Sciences 1026: 1-11 (2004);
13 Intervista di Raffaele Alberto Ventura alla Dott.ssa Ilaria Capua, virologa direttrice Emerging Pathogens Institute, Università della Florida;
14 La Dichiarazione di Alma Ata OMS e UNICEF, Conferenza Internazionale sull’Assistenza Sanitaria Primaria, 6-12 settembre 1978;
15 La Dichiarazione di Jakarta sulla promozione della Salute (Jakarta Declaration on Leading Health Promotion into the 21st Century), Quarta Conferenza Internazionale sulla Promozione della Salute, Jakarta, Indonesia, 21-25 luglio 1997;
16 Gli ambienti favorevoli alla Salute, La dichiarazione di Sundsvall sugli ambienti favorevoli alla salute, Programma per l'Ambiente delle Nazioni Unite, Consiglio dei Ministri dei Paesi Nordici - Organizzazione Mondiale della Sanità, 3a Conferenza internazionale sulla Promozione della Salute;
17 M. Davis on COVID-19: The monster is finally at the door, Mike Davis Monthly Review On Line 19 marzo 2020, https://mronline.org/2020/03/19/mike-davis-on-covid-19-the-monster-is-finally-at-the-door ;
18 Impact of deforestation and agricultural development onanopheline ecology and malaria epidemiology, J. Yasuoka and R. Levins, Dept of Population and International Health, Harvard School of Public Health, Boston, Massachusetts, Medical Journal of Tropical Medicine and Hygiene, 76(3), 2007, by The American Society of Tropical Medicine and Hygiene;
19 Spillover, D. Quanmen, W.W. Norton and Company, ed. Italiana, Spillover ed. Adelphi;
20 The role of commensal rodents and their ectoparasites in the ecology and transmission of plague in south east asia; D.C. Cavanaugh, P.F. Ryan, J.D. Marshall, Bull. Wildlife Disease Assoc. Vol. 5, July, 1969;
21 Urban habituation, ecological connectivity and epidemic dampening: the emergence of Hendra virus from flying foxes (Pteropus spp.), Raina K. Plowright et al., Proceeding of the Royal Society, Published online, 11 May 2011.