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Biodiversità ed ecosistemi sono il nucleo fondante della transizione ecologica. O no?

Ferdinando Boero
Stazione Zoologica Anton Dohrn, CNR-IAS

L'oceano copre il 71% della superficie del pianeta ma, a differenza degli spazi emersi, non è una superficie: è un volume. Tra il fondo marino (continuazione sommersa della terraferma) e la superficie dell'oceano ci sono in media 4.000 m di colonna d'acqua, e la vita è presente dalle massime profondità fino alla superficie: più del 90% dello spazio disponibile alla vita è oceano. La vita sulla terraferma dipende dalla disponibilità di acqua. La pioggia scende da nuvole che si formano per evaporazione dell'acqua oceanica. Se si parla di biodiversità e ecosistemi, quindi, si parla principalmente di oceano. Poi c'è l'eccezione terrestre che, comunque, dipende dall'oceano. Un pianeta completamente coperto dall'acqua resterebbe vivo, se l'acqua scomparisse la vita finirebbe.
Da animali terrestri, tendiamo a privilegiare il nostro ambiente di elezione, ma questo ha poco a che vedere con la valenza scientifica del nostro approccio alla natura.
In questo articolo parlerò di biodiversità ed ecosistemi, senza aggiungere l'aggettivo "marini". Di solito quando si parla di ecologia si parla di terra, e poi si aggiunge "marina" se si parla di mare. Dovrebbe essere l'opposto: c'è l'ecologia e poi, in un angolino, c'è l'ecologia terrestre. E lo stesso vale per biodiversità ed ecosistemi. L'Italia, poi, con i suoi 8.500 chilometri di coste, è un paese nettamente marino. Se vivete in un posto dove non si vede il mare, guardate in cielo. Se ci sono nuvole... quello è l'oceano. E quando piove è l'acqua oceanica che vi bagna. L'oceano è la sorgente dei nostri fiumi. L'ecologia è la scienza delle connessioni e la transizione ecologica richiede, prima di tutto, il riconoscimento delle connessioni.

La transizione ecologica: un cambio di paradigma
Con il New Green Deal e il Next Generation EU, l'Unione Europea ha lanciato la cosiddetta transizione ecologica. Se si parla di transizione significa che è necessario "transitare" da una posizione ad un'altra posizione, e la parola "ecologica" significa che il passaggio deve essere da una cultura in cui l'ecologia non trova posto a una cultura che ne riconosce in pieno l'importanza.  Questo è stato recentemente realizzato con l'inclusione di biodiversità ed ecosistemi nell'Art. 9 della Costituzione dove, prima, c'era solo il "paesaggio", associato ad una visione estetica della natura, frutto di una cultura "umanistica" incentrata sul percettore (noi) e non sul percepito (la natura).
Non è un caso che le linee guida dell'Unione Europea dicano che la biodiversità deve essere trasversale a tutte le iniziative intraprese con il New Green Deal e il Next Generation EU, in base ai quali il nostro paese ha ricevuto 209 miliardi di finanziamenti grazie al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Gran parte di questi fondi è destinata alla transizione ecologica.

La transizione richiede conoscenza
Una volta deciso che la biodiversità ha un ruolo centrale, dobbiamo porci due domande: Conosciamo la biodiversità del nostro paese? Possiamo pensare di dare un ruolo centrale a qualcosa che non conosciamo? L'Italia è stata il primo paese al mondo a fare una checklist delle specie animali registrate sul suo territorio, e lo stesso vale per le piante. Ma le liste non bastano. Ogni nome deve corrispondere a un'architettura corporea, a un ciclo biologico, a un ruolo ecologico che, assieme, ci permettano di collegare la biodiversità al funzionamento degli ecosistemi attraverso lo studio delle interazioni tra le specie.
In più, la vita evolve, la composizione in specie cambia nei vari habitat, e questo cambia anche il funzionamento degli ecosistemi. Non basta fare una "fotografia" della situazione in un determinato momento, per comprendere la struttura e la funzione dei sistemi viventi.

La tassonomia
Attualmente abbiamo dato il nome a circa due milioni di specie. Le stime dicono che il pianeta ne ospiti circa otto milioni: conosciamo una piccola parte della biodiversità. E quindi ritorna la domanda: come possiamo gestire e proteggere quel che non conosciamo? La tassonomia è la scienza di base che dà il nome alle specie, esplorando la biodiversità. La prima cosa che facciamo quando scopriamo qualcosa di sconosciuto è di darle un nome. Le specie che non hanno un nome vengono battezzate dai tassonomi che le descrivono, dando loro un'identità.
Se diciamo che la biodiversità è importantissima, e diciamo che la nostra vita dipende da lei (non facciamo che ripeterlo, sin dai tempi della convenzione di Rio de Janeiro nel 1992) allora dovremmo dedicare grandi sforzi allo sviluppo della sua conoscenza. Invece, stranamente, la tassonomia sta scomparendo dalla comunità scientifica. I fondi dedicati allo studio della biodiversità sono consegnati a informatici, a genetisti e biologi molecolari, a biotecnologi e ad esperti di specie carismatiche, di solito vertebrati, e a tante altre categorie di scienziati, ma non ai tassonomi di ampio spettro. Non si pretende che tutte le risorse vadano alla tassonomia, ma che questa scienza sia portata all'estinzione quando tutti decantano l'importanza di quello che studia non può che essere definito stupido. O intellettualmente disonesto.
Decine di articoli scientifici denunciano questo paradosso, ma tutto continua come se niente fosse. Si continua a parlare di biodiversità senza sapere di che si sta parlando.

Anche Papa Francesco, nella sua Enciclica Laudato Si', denuncia l'errore di prendere una parte della biodiversità per il tutto e, nel capitolo 34, dice: “Probabilmente ci turba venire a conoscenza dellestinzione di un mammifero o di un volatile, per la loro maggiore visibilità. Ma per il buon funzionamento degli ecosistemi sono necessari anche i funghi, le alghe, i vermi, i piccoli insetti, i rettili e linnumerevole varietà di microorganismi. Alcune specie poco numerose, che di solito passano inosservate, giocano un ruolo critico fondamentale per stabilizzare lequilibrio di un luogo”.
Ripeto: non ritengo che sia sufficiente la tassonomia per studiare la biodiversità, ma mi sento di dire che sia necessaria. Questa necessità evidentemente non viene riconosciuta, altrimenti la tassonomia non sarebbe in grande disagio, con l'eccezione di quella che riguarda gruppi carismatici o di interesse economico, vista la disponibilità di finanziamenti dedicati alla biodiversità.

Un milione di specie...
Le Nazioni Unite hanno previsto, recentemente, che nei prossimi anni un milione di specie si estinguerà: un'estinzione di massa che sta avendo luogo proprio ora. Non dico che non sia vero, ma se cerco nei documenti un elenco di specie che già si sono estinte... non trovo quasi nulla. Se se ne estinguerà un milione nei prossimi decenni, almeno qualche migliaio dovrebbe essere già estinto. Un politico potrebbe chiedere: OK, un milione si estinguerà presto, ma fatemi vedere quali già si sono estinte. Se si dicesse che morirà un milione di persone per una terribile malattia, si potrebbe chiedere quante già ne siano morte. E se la risposta fosse non lo so, non si sarebbe presi sul serio. Tremo al pensiero che un politico possa fare una domanda del genere. Gli si presenterebbero liste di specie minacciate, estinte commercialmente, e altre amenità, ma la lista delle specie estinte sarebbe veramente corta.
Il problema è che probabilmente quella lista è lunga, ma non abbiamo i dati per dimostrarlo, a parte simulazioni. Un ministro della salute non si accontenterebbe di simulazioni, vorrebbe dati veri a supporto di un allarme drammatico.
Non sappiamo rispondere perché intanto si stanno estinguendo i tassonomi. E se non c'è più chi conosce le specie, come si fa a valutare lo stato della biodiversità? Come si fa a capire se sta cambiando, e come?

Gli alieni
Il riscaldamento globale sta alterando le condizioni termiche del pianeta. La Grande Barriera Corallina australiana è in regressione per le temperature elevate. Le specie tropicali si spostano a nord e a sud, nei due emisferi. Il Mediterraneo si sta riscaldando e le specie ad affinità fredda sono in profondo disagio, e soffrono di mortalità massive. Il riscaldamento, però, favorisce le specie tropicali che, arrivate in Mediterraneo, trovano condizioni ottimali per la loro sopravvivenza. Quel che uccide le specie ad affinità fredda è un toccasana per le specie tropicali. La biodiversità del Mediterraneo sta cambiando rapidamente, in risposta a rapidi cambiamenti nei regimi termici. Presi dalla smania di "conservare" tendiamo a considerare gli alieni come responsabili della regressione degli autoctoni, senza considerare che, invece, nuove funzioni ecosistemiche si stanno realizzando grazie alle specie pre-adattate alle nuove condizioni che stanno sostituendo quelle che non riescono a far fronte ai cambiamenti. Gli alieni potrebbero essere "profughi climatici" che fuggono da aree disastrate per cercare riparo altrove. L'arrivo di specie non indigene deve essere individuato, e poi bisogna conoscere il loro ruolo nelle regioni di provenienza, cercando di comprendere quale ruolo potrebbero svolgere una volta arrivate da noi.

Eradicare le formazioni coralline?
Se iniziassero ad arrivare i coralli che formano biocostruzioni alle latitudini tropicali, come ci dovremmo comportare? Li eradichiamo perché sono alieni malvagi che contendono spazio alle specie native, o li salutiamo con entusiasmo perché sono "belli"? I coralli non si spostano facilmente, in compenso arrivano specie tropicali ad essi associate e che si spostano più rapidamente, per esempio i pesci. Alcuni di loro, come i pesci coniglio, mangiano le alghe. Ai tropici svolgono un ruolo importante nel favorire le formazioni coralline. Le alghe sono più efficienti dei coralli nel colonizzare i fondi duri e creano condizioni negative per le formazioni coralline, competendo con i coralli per l'uso dello spazio. I pesci coniglio, e anche diversi echinodermi, mangiano le alghe, rimuovendole. In questo modo favoriscono i coralli che, altrimenti, sarebbero soverchiati dalle alghe.
I pesci coniglio sono arrivati in Mediterraneo e stanno mangiando le foreste di alghe. Se la loro azione favorisse l'instaurarsi di formazioni coralline come valuteremmo il loro ruolo ecologico? Se cercassimo di eradicare sia loro sia le eventuali formazioni coralline che i pesci erbivori potrebbero favorire, non è detto, comunque, che le alghe del passato tornerebbero a formare le stesse foreste algali. Probabilmente arriverebbero alghe tropicali. Nei nostri criteri di valutazione, le formazioni coralline sono "accettabili" mentre altre specie meno carismatiche non lo sono?

Ci sono alieni e alieni...
Se le specie sono in grado di raggiungere con le loro forze determinate zone del pianeta, e di impiantarvi popolazioni funzionali, non ci dovremmo allarmare più di tanto, fa parte del gioco dell'evoluzione delle distribuzioni. Ma a volte siamo noi a "traslocarle" da un posto all'altro, a volte intenzionalmente e a volte no. Le ctenoforo Mnemiopsis leydi è arrivato in Mar Nero con le acque di zavorra delle petroliere provenienti dall'Atlantico e ha dato un colpo fatale alle popolazioni di pesci, cibandosi delle loro larve e delle prede delle loro larve. In altri casi gli alieni sono immessi volontariamente, come la vongola filippina che è stata importata per sostituire la vongola verace. Le introduzioni di origine antropica sono da condannare senza mezzi termini, anche se non sempre è così. Abbiamo importato molte piante ornamentali e, assieme a loro, abbiamo importato anche i loro predatori e parassiti come, ad esempio, il punteruolo rosso, che si nutre di palme. Se non avessimo importato palme "aliene" non avremmo importato i loro predatori.

Conservazione e evoluzione
Non solo le specie evolvono, anche le associazioni tra specie sono soggette a continuo cambiamento, soprattutto in periodi di rapida modificazione delle condizioni ambientali. Non ci sono più dubbi che il cambiamento climatico sia dovuto in parte significativa alle nostre attività e l'unico modo per "conservare" le condizioni precedenti richiede che il nostro impatto cessi. L'inerzia del sistema perturbato, comunque, porterà a cambiamenti dovuti alla perturbazione stessa. Indietro non si torna.
La conservazione si prefigge, spesso, di rendere permanente uno stato dell'ambiente, e si oppone a qualsiasi cambiamento. Nulla di male se l'opposizione consiste nel rimuovere i nostri impatti: anzi, è doveroso. Ma bisogna essere ben consci che, comunque, i sistemi viventi cambiano.
Una buona conservazione deve distinguere tra cambiamenti naturali e cambiamenti derivanti da nostre attività che rendano gli ecosistemi meno diversi e funzionali. Le zone morte che si espandono sempre più negli oceani afflitti, ad esempio, dallo sversamento di pesticidi e fertilizzanti, non sono una risposta "sana" alle nostre attività. Lo stesso vale per la desertificazione che affligge sempre più i sistemi terrestri. Il disboscamento di foreste naturali è assolutamente da evitare. Come sono da evitare pratiche agricole che prevedano l'eradicazione della biodiversità e la sua sostituzione con una sola specie (quella di nostro interesse) che viene mantenuta attraverso l'uso di pesticidi che uccidono predatori e competitori, e fertilizzanti che le forniscono le sostanze di cui ha bisogno. Il problema principale del nostro impatto è dovuto alla sovrappopolazione che, probabilmente, ha già superato la capacità portante del nostro pianeta in termini di disponibilità di risorse per la nostra specie.
La biologia della conservazione, quindi, potrebbe essere considerata un ossimoro perché la storia della vita è una storia di continuo cambiamento: pretendere di "conservare" uno stato desiderato di una realtà in continuo cambiamento non ha senso. Il fine della "conservazione", quindi, dovrebbe essere la rimozione di tutti gli impatti di origine antropica che impediscono in modo significativo la naturale evoluzione dei sistemi bio-ecologici, accettando il cambiamento naturale.

Un caso particolare di conservazione riguarda singole specie minacciate di estinzione, di solito si tratta di specie carismatiche che vengono studiate a fondo in tutti gli aspetti della loro biologia e della loro genetica, per cercare vie di salvezza che ne prevengano l'estinzione. Per quanto lodevoli, questi studi interessano una minima parte della biodiversità. Per comprendere l'evoluzione degli insiemi di specie che coesistono nei vari ambienti, prima di tutto dovremmo esser consci della loro esistenza, e non lo siamo. Poi dovremmo conoscerne a fondo la biologia e l'ecologia, per comprendere i rapporti che le legano con le altre specie. Limitare la conservazione a pochi habitat e specie carismatiche non è risolutivo a livello dello stato della biosfera e delle specie che si dovrebbero estinguere in massa. Come possiamo conservare quel che non conosciamo?

Il modello di Lotka e Volterra
Le equazioni di Lotka e Volterra riguardano i rapporti tra un predatore e la sua preda. Non esistono sistemi ecologici con due sole specie (predatore e preda) che interagiscono, ma possiamo usufruire della "saggezza" di questo modello considerando la nostra specie come un predatore e la natura (tutte le altre specie) come la preda. Il modello dice che se la preda è abbondante e il predatore è scarso, la popolazione del predatore, grazie alla disponibilità di risorse, tende ad aumentare con i fenomeni riproduttivi. Man mano che il predatore aumenta, la preda diminuisce e, a un certo punto, la sua scarsità fa diminuire le possibilità di crescita del predatore. Se il predatore decresce a causa della scarsità di prede, la popolazione della preda tende ad aumentare nuovamente. Nel modello le curve di abbondanza di predatore e preda sono sfasate: quando cresce il predatore diminuisce la preda, e quando questa è insufficiente per soddisfare le necessità di una grande popolazione di predatori, questi diminuiscono a loro volta, permettendo nuova crescita della preda. La nostra specie, però, evolve tecnologicamente e inventa sempre nuovi modi per trarre risorse dalla sua "preda" (la natura). Finiscono le popolazioni naturali delle prede? Passiamo all'allevamento del bestiame. La raccolta di piante le fa diminuire? Le coltiviamo. I pesci diminuiscono? Inventiamo strumenti più sofisticati per catturare gli ultimi rimasti, e poi passiamo all'allevamento anche in mare.

Questa corsa al miglioramento delle attività predatorie porta ad un continuo aumento della popolazione del predatore (la nostra) ma se consumiamo più di quello che la natura produce, alla fine le risorse scompaiono. Non possiamo vivere senza il resto della natura e se distruggiamo la "preda" su cui basiamo la nostra esistenza, creiamo le premesse per il nostro fallimento come "predatori": un predatore senza prede è destinato a morire di fame. Forse non ci estingueremo, ma la diminuzione delle risorse alla fine si tradurrà in carestie, guerre, e malattie.
Il nostro interesse, quindi, consiste nel mantenere in buona salute la nostra "preda" (la natura) perché da lei dipendiamo. Per farlo dobbiamo diminuire la nostra pressione sulla "preda", non solo in termini di numero di individui della nostra specie ma anche in termini di stili di vita.

La conversione ecologica
Francesco, in Laudato Si', chiede la conversione ecologica. Un'autorità religiosa chiede la conversione a una scienza: l'ecologia. La transizione ecologica, in effetti, richiede prima una conversione ecologica che dia all'ambiente il ruolo che merita: un ruolo di assoluta preminenza, visto che la nostra specie non può vivere senza il resto della natura.
Fino ad oggi abbiamo perseguito un modello di sviluppo basato su un solo obiettivo: la crescita del capitale economico. Non ci siamo curati della decrescita del capitale naturale. Il capitale economico è il predatore e il capitale naturale è la preda. Se cresce il capitale economico decresce il capitale naturale, come predetto dal modello di Lotka e Volterra.
Preso atto di questa situazione, la transizione ecologica si deve basare su un "uso" della natura che non eroda le nostre possibilità di sopravvivenza. La crescita demografica si deve arrestare: il pianeta non può sopportare un numero infinito di umani e, quindi, dobbiamo ridimensionare le nostre popolazioni. Inoltre dobbiamo ottimizzare il modo con cui estraiamo le risorse, identificando risorse quanto più "rinnovabili". La sostenibilità si ottiene consumando risorse che si rinnovano, senza sfruttarle tanto intensamente da consumarne più di quante se ne producano. Facile a dirsi, meno facile a realizzarsi. Sappiamo cosa dobbiamo fare, e sappiamo che se non rispetteremo i limiti imposti dalla natura pagheremo care conseguenze.

Dalla scienza alla tecnologia e ritorno
Non ci sono dubbi che la transizione ecologica richieda grandissima innovazione tecnologica. Dobbiamo usare risorse rinnovabili per produrre energia e dobbiamo ottimizzare i nostri consumi. Dobbiamo utilizzare materiali che non richiedano devastazioni per essere estratti e dobbiamo essere in grado di riciclarli. Dieci anni fa pareva che le fonti rinnovabili non potessero darci l'energia di cui abbiamo bisogno, oggi le tecnologie sono molto migliorate e sappiamo che la transizione alle rinnovabili è possibile.
Le tecnologie però non bastano. Ne dobbiamo sviluppare di nuove perché quelle vecchie stanno rovinando la biodiversità e gli ecosistemi. La valutazione dell'efficacia delle nuove tecnologie non può che passare attraverso lo stato della biodiversità e degli ecosistemi. Se le condizioni della biodiversità e degli ecosistemi migliorano, allora le tecnologie sono utili ai fini della conversione ecologica. Se le condizioni non cambiano, allora le tecnologie non sono ancora mature per risolvere i problemi: bisogna inventarne di migliori. Se le condizioni di biodiversità ed ecosistemi peggiorano, allora le tecnologie non vanno bene, e devono essere scartate.
Dovrà essere l'ecologia a definire i problemi, le tecnologie proporranno soluzioni, in collaborazione con l'ecologia, e poi l'ecologia valuterà l'efficacia delle soluzioni tecnologiche.

Il pianeta B?
A fronte dell'evidente degrado delle condizioni ambientali, diversi scienziati, tra cui il compianto Stephen Hawkins, hanno prospettato la possibilità di colonizzare altri pianeti, trasferendo la nostra specie dove esistano condizioni compatibili con la nostra sopravvivenza. Constatato che non esistono pianeti adatti in questo sistema solare, si è iniziato a cercare altri pianeti: gli esopianeti. E intanto si stanno programmando missioni di colonizzazione, prima sulla Luna, poi su Marte, in attesa di trovare il pianeta promesso.
Chi fa queste proposte, ottenendo enormi finanziamenti per perseguirle, ovviamente non ha una cultura in termini di ecologia e di evoluzione. La nostra specie basa la propria esistenza sull'efficienza dei processi ecosistemici messi in atto dalla biodiversità, con cui siamo co-evoluti. Pensare che su un altro pianeta si sia evoluto un ecosistema compatibile con la nostra sopravvivenza è talmente improbabile da non poter essere preso in considerazione. Pensare di trasferire con noi la biodiversità del pianeta (una sorta di arca biblica di un novello Noè) e che questa, una volta sbarcata, riformi gli ecosistemi in modo compatibile con la nostra vita non è scienza ma fantascienza. Il pianeta B non esiste e i nostri sforzi per cercarlo e per raggiungerlo si basano su aspettative che difettano di razionalità.

Cultura senza natura
Non esistono scorciatoie alla conversione ecologica, prima, e alla transizione ecologica, dopo. Soprattutto nel nostro paese la cultura è eminentemente "umanistica" ed è incentrata sulla nostra specie. Non ci sarebbe nulla di male, se questo generasse la consapevolezza che è interesse della nostra specie mantenere le condizioni del pianeta in uno stato che garantisca il nostro benessere. Non siamo tanto potenti da distruggere la natura: la possiamo modificare, ma le modifiche di solito generano vantaggi a breve termine per la nostra specie, a cui fanno seguito evidenti svantaggi nel lungo termine. Il lungo termine sta arrivando e le conseguenze del nostro agire nella natura si stanno facendo sentire in modo sempre più drammatico, mettendo a repentaglio la nostra specie.
La "naturalizzazione" della cultura deve passare per i sistemi di formazione (la scuola) dove, attualmente, la natura ha un ruolo molto marginale. L'Unione Europea ha introdotto il concetto di "alfabetizzazione marina" (marine literacy) ma si dovrebbe parlare di "alfabetizzazione ecologica". Purtroppo, però, se la natura non è presente nel patrimonio culturale, come può avvenire che gli operatori culturali modifichino le loro gerarchie di priorità andando contro i principi con cui sono stati acculturati?
Chi chiede questo cambiamento, questa conversione, di solito non viene capito. In questa categoria rientra anche Papa Francesco. Chi si dice sensibile alle denunce di Greta Thunberg (basate peraltro sui rapporti scientifici sullo stato del pianeta) viene deriso con il termine di "gretino". Se si decide di intraprendere la transizione ecologica, questa di solito viene affidata a tecnologi e ad economisti: chi ha generato i problemi che rendono necessaria la transizione ecologica viene chiamato a risolvere i problemi che lui (o lei) stesso/a ha generato. Gli ecologi hanno un ruolo marginale.

Perché non riusciamo ad incidere?
I movimenti che operano in favore dell'ambiente hanno da sempre incentrato la loro attenzione su specie ed habitat che abbiano un forte impatto sull'opinione pubblica. La strategia prevede che prima si focalizzi l'attenzione su componenti carismatiche della natura, per arrivare poi a creare consapevolezza sull'importanza dei processi che rendono possibile la vita sul pianeta, inclusa la nostra. L'approccio emotivo, però, non ha portato a questa consapevolezza: Lo scioglimento dei ghiacci polari ci fa preoccupare del destino degli orsi bianchi che vivono al polo nord, ma dopo un momento di commozione si passa ad altro. Dopotutto chi ha davvero a che fare con un orso polare?
Lo scioglimento dei ghiacci polari compromette, però, la dinamica oceanica che i ricercatori chiamano il grande nastro trasportatore oceanico, che connette tutti gli oceani e che dipende proprio dalla formazione di ghiaccio ai poli. Se, invece di formarsi, i ghiacci polari si sciolgono, la dinamica delle correnti oceaniche cambia, e cambia anche la dinamica atmosferica, con estremi climatici caratterizzati da maggiore frequenza di periodi di siccità seguiti da precipitazioni torrenziali. Questi fenomeni impattano sulla nostra vita quotidiana, e sull'economia, molto più del disagio degli orsi polari.
Se ci limitiamo a denunciare il disagio di qualche specie "carina" finiamo per essere percepiti come "mamme dei gatti", da trattare con condiscendenza ma che non possono essere prese davvero sul serio. I problemi importanti sono "altri". E noi non siamo identificati come quelli che potrebbero contribuire a risolverli. Risultato: le competenze sulla transizione ecologica sono riconosciute a tecnologi ed economisti e non agli ecologi.
La responsabilità di questa mancata consapevolezza è nostra. La comunità scientifica che si interessa di esplorazione spaziale riesce a convincere i decisori che valga la pena esplorare lo spazio, anche per colonizzare altri pianeti e cercare forme di vita intelligenti e non. Noi non riusciamo a convincere i decisori che lo studio e la tutela della biodiversità e degli ecosistemi siano una priorità impellente. Se si convincono della priorità, e decidono di intraprendere la transizione ecologica, non chiamano noi.

La conservazione della biodiversità richiede efficaci programmi di monitoraggio

Ettore Randi (Unione bolognese Naturalisti)

Quattro miliardi di anni di evoluzione hanno generato e rigenerato l’incalcolabile numero di organismi viventi, microorganismi, funghi, piante e animali che sono esistiti nel passato, che esistono oggi ed hanno plasmato gli ambienti in cui loro vivono e che noi stessi condividiamo. L’unicità del Pianeta Terra è il prodotto di queste evoluzioni. La biodiversità è una rete di individui, popolazioni, specie ed ecosistemi strettamente interconnessi tramite processi complessi ed in costante evoluzione. Questi equilibri dinamici fra stabilità degli ecosistemi ed evoluzione di nuovi adattamenti determinano, in ultima analisi, i destini di individui e specie, inclusa la nostra (vedi articolo di Ferdinando Boero in questo numero).

Sappiamo che biodiversità e integrità funzionale degli ecosistemi devono essere tutelate e gestite molto accuratamente. Infatti, la grande accelerazione della crescita delle popolazioni umane, sempre più energivore e tecno-dipendenti, ha prodotto nell’ultimo paio di secoli impatti impressionanti su tutta la biosfera, dai cambiamenti climatici ed atmosferici fino nel profondo degli oceani, dalla megafauna alle oscure comunità di microorganismi. La tutela della naturalità sopravvissuta è necessaria, ma non è sufficiente. Occorre ridurre i fattori di rischio globale: gas climalteranti, pesticidi ed altre sostanze inquinanti, dispersione delle plastiche, agricoltura intensiva con grande uso di fertilizzanti e pesticidi, distruzione degli habitat, sovrapesca ecc. Occorre anche ripristinare l’integrità e le funzioni di quel 30% dei terreni, oltre che degli ecosistemi marini e costieri (la stragrande maggioranza dello spazio abitato dalla vita), che sono degradati (FAO; https://www.fao.org/documents/card/en/c/cb7654en). Non esistono isole di biodiversità occupate da ecosistemi che evolvono indipendentemente. Se è vero che la biodiversità è una immensa rete di relazioni funzionali, allora la biodiversità a rischio va tutelata e ripristinata sistematicamente e globalmente. Il lavoro di studio e divulgazione sui cambiamenti climatici e le loro cause, svolto negli ultimi trent’anni dall’IPCC ed altre istituzioni di ricerca, ha finalmente imposto questi problemi all’attenzione delle popolazioni e dei governi (https://www.ipcc.ch/reports/). Ora dovremmo riuscire ad imporre all’attenzione di tutti anche i rischi derivanti dalla distruzione della biodiversità. Questi sono anni di grande attività di ricerca e divulgazione che, però, ancora non ha toccato a fondo le sensibilità dei cittadini. Proviamo a partire dalle conclusioni della recente assemblea generale della Convenzione sulla Biodiversità, per identificare alcune azioni che dovrebbero essere implementate, anche con la partecipazione dei cittadini, per contribuire a migliorare la conservazione della natura e contemporaneamente la consapevolezza in tutti noi.

Le risoluzioni adottate dalla COP15, la quindicesima conferenza dei partner della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Biodiversità (CBD), che si è tenuta a Montreal dal 7 al 19 dicembre 2022, ribadiscono ripetutamente la necessità di monitorare l’efficacia delle misure di conservazione che gli stati aderenti sono tenuti a implementare tramite l’elaborazione di specifiche strategie nazionali. Fra gli obiettivi generali fissati dalla COP15, quelli che più direttamente riguardano la biodiversità sono:

- lo slogan 30x30, che indica l’obiettivo di arrivare entro il 2030 a garantire la conservazione e la gestione efficace di almeno il 30% delle terre emerse, delle acque interne, delle zone costiere e degli oceani del mondo, con priorità per le aree che includano ecosistemi rappresentativi della biodiversità e che siano connessi tramite reti ecologiche funzionanti, (teniamo conto che le statistiche indicano che attualmente sono ritenuti formalmente protetti rispettivamente il 17% e il 10% delle aree terrestri e marine del mondo, dove formalmente significa: sulla carta; è assai probabile che la protezione effettiva ed efficace in realtà riguardi percentuali molto minori di aree terrestri e marine);

- si richiede che venga completato o che sia in corso di completamento il ripristino di almeno il 30% degli ecosistemi degradati terrestri, delle acque interne, costiere e marine;

- che al 2030 sia prossima allo zero la perdita di aree ad alta biodiversità (hotspot)

- occorre poi prevenire l'introduzione di specie esotiche invasive note, ridurre di almeno la metà l'introduzione e l'insediamento di altre specie esotiche potenzialmente invasive ed eliminare o ridurre la diffusione di specie esotiche invasive sulle isole e in altri siti prioritari.

La COP15 ha lanciato 23 nuovi target, gli obiettivi che dovrebbero essere raggiunti entro la fine di questo decennio (il post-2020 Global Biodiversity Framework; https://www.cbd.int/article/draft-1-global-biodiversity-framework). Fra questi, almeno sei target sono esplicitamente destinati alla protezione della biodiversità negli ambienti marini, costieri, terrestri e nelle acque interne. Da oggi al 2030 deve essere azzerata la perdita di aree ad alta biodiversità, inclusi gli ecosistemi ecologicamente integri (Target 1); devono essere effettivamente restaurate almeno il 30% delle aree degradate (dove “effettivamente” significa che questi ecosistemi devono riprendere a funzionare; Target 2); deve essere effettivamente conservato e gestito almeno il 30% delle aree di particolare importanze per la biodiversità ed il funzionamento degli ecosistemi e per l’erogazione dei servizi ecosistemici (sottolineo “effettivamente”; Target 3); devono essere significativamente ridotti i rischi di estinzione delle specie minacciate, e deve essere mantenuta la diversità genetica delle popolazioni selvatiche o domestiche per preservare intatto il loro potenziale adattativo ed evolutivo (Target 4); il prelievo, l’uso ed il commercio di specie selvatiche deve essere legale e sostenibile (cioè non deve compromettere il potenziale demografico ed evolutivo delle popolazioni; Target 5); occorre eliminare, minimizzare ridurre o mitigare l’impatto delle specie invasive (Target 6).

L’accordo è stato sottoscritto dalla grande maggioranza dei 195 paesi che hanno partecipato alla COP15. Ma il limite principale è che questi accordi non sono vincolanti e lasciano ai singoli paesi gli obblighi, quasi solo morali, di realizzare obiettivi che non sono quasi mai raggiunti. La precedente strategia per la biodiversità 2011-2020 aveva individuato 20 target (https://www.cbd.int/sp/targets/). Come indica il Global Biodiversity Outlook (il rapporto periodico che riassume i dati sullo stato e le tendenze della biodiversità e valuta lo stato di attuazione della CBD; https://www.cbd.int/gbo5), nessuno di questi è stato completamente raggiunto, in parte per inadeguate articolazioni nelle strategie nazionali o per mancanza di volontà. In ogni caso per abissale carenza delle necessarie risorse economiche.

Il tema delle risorse disponibili annualmente ed effettivamente spese per la tutela della biodiversità (escludendo quindi operazioni truffaldine e di greenwashing) è controverso. Per esempio, uno studio stima che le risorse finanziarie spese in media ogni anno dal 2015 al 2017 per la biodiversità sia stato di circa 78-91 miliardi di dollari. Contemporaneamente i governi hanno speso circa 500 miliardi di dollari all’anno per sostenere attività potenzialmente dannose per la biodiversità, una cifra più di sei volte quanto speso per la biodiversità (https://www.oecd.org/environment/resources/biodiversity/report-a-comprehensive-overview-of-global-biodiversity-finance.pdf). Queste stime sembrano piuttosto aleatorie e altri studi indicano cifre differenti. Per esempio, uno studio del Paulson Institute ritiene che il divario tra l'importo attualmente speso per la conservazione della biodiversità e quanto sarebbe necessario sia molto ampio. A partire dal 2019, la spesa attuale per la conservazione della biodiversità sarebbe compresa tra 124 e 143 miliardi di dollari all'anno, contro un fabbisogno totale compreso tra 722 e 967 miliardi di dollari all'anno. Ciò lascia un attuale deficit di finanziamento della biodiversità compreso tra 598 e 824 miliardi di dollari all'anno (https://www.paulsoninstitute.org/conservation/financing-nature-report/).

Comunque sia, la conclusione è la stessa: i finanziamenti disponibili per la biodiversità, ricerca e conservazione, sono ampiamente insufficienti e come minimo dovrebbero venire raddoppiati o triplicati. Tuttavia, il target indicato dalla COP15 si limita, forse più realisticamente, ad indicare che per finanziare l’attuazione delle misure delineate dai target sia necessario reperire almeno 200 miliardi di dollari all’anno fino al 2030. Non è chiaro chi dovrà reperire questi soldi (governi, privati, ONG). Viene indicato un meccanismo per finanziarne l’attuazione tramite un fondo globale per la biodiversità. Alcuni paesi come il Canada e la Germania hanno già dichiarato che intendono incrementare significativamente le risorse disponibili. La COP15 ha anche raccomandato l’istituzione di un fondo solidarietà internazionale, destinato a compensare i costi sostenuti dai paesi più vulnerabili e più ricchi di biodiversità. Resta da verificare se effettivamente questi fondi verranno raccolti e poi come verranno investiti.

I target individuati dalla COP15 riprendono in modalità più ampia la visione e gli obiettivi di conservazione molto più limitati che sono stati da tempo definiti dalle principali convenzioni internazionali (per esempio, la Convenzione di Washington; CITES; https://cites.org/eng) e comunitarie: le direttive Uccelli e Habitats (https://ec.europa.eu/environment/nature/natura2000/index_en.htm), e la Convenzione di Berna (https://www.coe.int/en/web/bern-convention). Le direttive europee interessano una parte limitatissima della biodiversità. Solo nove habitat marini, tutti bentonici, sono presi in considerazione, ignorando, in questo modo, gli ambienti marini che ospitano la maggior parte della biodiversità ed erogano insostituibili benefici ecosistemici. L’articolo 11 della direttiva Habitats impone agli stati membri di monitorare gli habitat e le specie elencati negli allegati, mentre l'articolo 17 chiede l'invio alla Commissione Europea di un report di valutazione dello stato di conservazione degli habitat e delle specie oggetto della direttiva ogni sei anni. Le valutazioni vengono compilate sulla base delle informazioni sullo stato, tendenze e minacce delle popolazioni, specie o degli habitat, che vengono fornite da enti, gruppi di ricerca, studiosi o esperti. La compilazione dei report è responsabilità dei ministeri competenti (in Italia il Ministero dell’Ambiente; MISE). Le tecniche di indagine ovviamente variano a seconda dei casi (diversi tipi di habitat; stime di distribuzione e di abbondanza adeguate alle caratteristiche delle diverse specie ecc.), secondo logiche che dovrebbero essere adattative, ma che talvolta sono forzatamente opportunistiche, anche per carenza di personale esperto e di risorse finanziarie. Queste informazioni eterogenee confluiscono in valutazioni finali sullo stato di conservazione di habitat o specie che viene definito come “favorevole”, oppure “sfavorevole-inadeguato” oppure “sfavorevole-cattivo”. Sono osservazioni prevalentemente qualitative, comunque di grande importanza per ottenere valutazioni sintetiche sullo stato di habitat e specie, ma che non possono essere considerate veri e propri monitoraggi. Le metodologie utilizzate per arrivare a queste valutazioni potrebbero essere almeno in parte standardizzate per elaborare alcuni indicatori quantitativi. Resta ancora fare molto lavoro di ricerca, soprattutto in quegli ambienti e biomi che finora sono stati sottovalutati e poco studiati. E resta ancora molto lavoro da fare per trasformare i risultati della ricerca in linee guida e procedure dettagliate utilizzabili per piani di monitoraggio quantitativo. Per fare solo un esempio, per quanto riguarda il nostro paese il documento “Linee guida per le regioni e le province autonome in materia di monitoraggio delle specie e degli habitat di interesse comunitario” elaborato dal Ministero dell’Ambiente e da ISPRA fornisce solo indicazioni di carattere generale.

Le Liste Rosse raccolgono e sintetizzano le valutazioni delle minacce e dei rischi di estinzione di parte della flora italiana, nonché  “di tutte le specie di pesci d'acqua dolce, anfibi, rettili, uccelli nidificanti, mammiferi, pesci cartilaginei, libellule, coralli e coleotteri saproxilici, native o possibilmente native in Italia, nonché quelle naturalizzate in Italia in tempi preistorici” (http://www.iucn.it/liste-rosse-italiane.php). Ancora una volta, l’attenzione dei compilatori delle liste è focalizzata principalmente su specie terrestri e di acqua dolce. Restano ancora molto trascurati gli invertebrati e le specie marine. Le valutazioni dei rischi di estinzione sono basate sulle 11 categorie di rischio elaborate dalla IUCN (https://www.iucnredlist.org/), che esprimono sinteticamente le stime fornite dagli esperti dei gruppi tassonomici considerati prioritari. Sia le stime che le categorie di rischio sono essenzialmente qualitative e non sono traducibili in veri e propri piani di monitoraggio. Per es. il rischio può essere classificato come: “elevato”, “molto elevato” o “estremamente elevato”. Il monitoraggio dello stato di conservazione di habitat e specie è essenziale anche per valutare gli esiti delle azioni previste dalle decisioni deliberate dalla COP15. Come sarà possibile valutare la funzionalità delle nuove aree protette e dei corridoi ecologici che verranno istituiti nell’ambito dello schema 30x30? Come valutare se le azioni di ripristino di ecosistemi degradati avranno raggiunto il loro scopo? Come accertare se la perdita di biodiversità verrà effettivamente azzerata quando restano immense regioni e biomi ancora sostanzialmente inesplorati? La diffusione di specie aliene invasive e dannose sarà in effetti bloccata o almeno rallentata? In ognuno di questi casi servono per prima cosa programmi ricerca dedicati ad approfondire la conoscenza della diversità biologica, e poi servono programmi di monitoraggio efficaci e realizzabili, quindi finanziati.

Un programma di monitoraggio consiste essenzialmente nella definizione di almeno un indicatore quantitativo che consenta di misurare con precisione (inclusa la relativa misura di incertezza) uno o più parametri biologici, per esempio l’assorbimento di CO2 in un determinato ecosistema, la numerosità delle popolazioni di una determinata specie e così via. Questo ipotetico indicatore deve restare stabile ed essere applicato regolarmente nel tempo per replicare le misure ed ottenere così un trend per valutare la tendenza temporale delle variabili biologiche sottostanti. Le realizzazioni dei target indicati dalla COP15 e dalle normative comunitarie devono essere misurabili, basate sulle necessarie conoscenze scientifiche. Devono produrre risultati chiaramente comunicabili anche a chi non è del mestiere, per es. politici, amministratori, manager. Ricercatori e gruppi di ricerca conducono continuamente ottimi programmi di ricerca di biologia evoluzionistica, ecologia, sistematica e tassonomia, con risultati teoricamente utilizzabili per la tutela di ecosistemi e specie marine, terrestri e di acque dolci. Tuttavia, questi programmi di solito hanno durata limitata, utilizzano tecniche complesse e costose e non sempre sono in grado di fornire indicazioni che si materializzino in indicatori e programmi di monitoraggio. La ricerca scientifica è essenziale e va intensificata soprattutto in quei biomi e gruppi tassonomici tradizionalmente trascurati. Ma non è sufficiente. Per la tutela della natura nel “mondo reale” (M. E. Soulé. Conservation Biology and the “real world”, pp.1-13 in Conservation Biology. The science of scarcity and diversity. Ed. by M. E. Soulé, 1986, Sinauer) è necessario anche monitorare le azioni intraprese per conservare e ripristinare la biodiversità. Così come i ricercatori devono offrire le necessarie conoscenze scientifiche, i governi devono garantire i necessari investimenti anche in programmi pluriennali di monitoraggio.

In Italia ora abbiamo a disposizione i fondi del PNRR, oltre 220 miliardi il 37% dei quali deve essere investito in misure green, cioè a tutela della biodiversità o perlomeno senza arrecarle ulteriori danni. In attesa di conoscere quali progetti green verranno lanciati e di verificare come questi ingenti fondi verranno effettivamente spesi, almeno un obiettivo è stato realizzato: il centro nazionale per la biodiversità, opportunamente denominato in lingua inglese: National Biodiversity Future Center (NBFC). Un consorzio fra 31 istituti universitari, enti pubblici e privati di ricerca e 48 partner, costituito nel giugno del 2022, coordinato dal CNR e finanziato con oltre 320 milioni di euro per i primi tre anni (2023 - 2025). La mission di NBFC “… is to promote the sustainable management of Italian biodiversity in order to improve the planet’s health and return beneficial effects, essential for all people”. Fra le altre finalità dichiarate dalla Presidenza del CNR all’atto della costituzione del NBFC, leggiamo che: “NBFC è nato con la finalità di aggregare la ricerca scientifica nazionale di eccellenza e le moderne tecnologie per supportare interventi operativi volti a: - monitorare, preservare e ripristinare la biodiversità negli ecosistemi marini, terrestri e urbani della Penisola; - valorizzare la biodiversità e renderla un elemento centrale su cui fondare lo sviluppo sostenibile.  NBFC consentirà di raggiungere i seguenti risultati: - fornire strumenti innovativi ed efficaci ai decisori politici per contrastare l’erosione della biodiversità (conservazione e ripristino), quantificare i servizi ecosistemici e realizzare azioni volti alla conservazione e ripristino della biodiversità in tutto il Mediterraneo …” (https://www.cnr.it/it/intervento-presidente/11208/national-biodiversity-future-centre-firmato-l-atto-costitutivo). Sono dichiarazioni importanti. Vedremo se e come questi interventi verranno realizzati da qui al 2025. Evidentemente non sarà possibile elaborare indicatori quantitativi praticabili e reperire finanziamenti sufficienti per lanciare progetti di monitoraggio per la stragrande maggioranza delle specie di flora e fauna, oltre che per monitorare la funzionalità degli ecosistemi, ma ci aspettiamo che qualcosa di significativo venga realizzato. Decenni di ricerche, ancora in corso, hanno almeno parzialmente individuato parametri e gruppi di specie “sentinella” che possono essere adattati e trasformati in indicatori quantitativi. Il volume di ricerca che resta ancora da fare è moltissimo, ma supponiamo che NBFC abbia risorse, anche umane, sufficienti per svolgerlo almeno in parte.

Oltre allo sviluppo di progetti di monitoraggio realizzabili e finanziabili nel mondo reale della conservazione, proponiamo un ulteriore obiettivo che va nella direzione indicata dalla Presidenza del CNR, e cioè: “creare nella società civile una consapevolezza e partecipazione nei confronti della tutela e valorizzazione della biodiversità.” La società civile e prima di tutto le scuole, studenti e docenti, vanno coinvolte in programmi di educazione, diffusione di conoscenze e di citizen science. Ma serve anche un momento di sintesi, un centro informativo sulla biodiversità nel nostro paese, mari inclusi, che vorremmo chiamare: Atlante della Biodiversità. Già esistono nel web alcuni portali di documentazione della biodiversità: la Carta della Natura (https://sinacloud.isprambiente.it/portal/apps/webappviewer/index.html?id=885b933233e341808d7f629526aa32f6) e l’EcoAtlante (https://ecoatlante.isprambiente.it/); il Network Nazionale Biodiversità (https://www.nnb.isprambiente.it/en/the-network), gestiti da ISPRA per conto del Ministero dell’Ambiente con la collaborazione delle regioni. Questi i portali sono poco user-friendly, forse più utili per le amministrazioni pubbliche, anche se non sappiamo quanto siano realmente utilizzati. Per esempio, sarebbe interessante sapere quante scolaresche o quanti corsi universitari usino queste risorse. Per realizzare un Atlante della Biodiversità serve un approccio molto meno istituzionale, molto attrattivo e stratificato, cioè con livelli di accesso differenziati in relazione agli utenti target (cittadini, studenti, studiosi, tecnici, manager, amministratori, decisori). Dovrebbe ospitare banche dati e link alle altre banche dati della biodiversità disponibili nel web. Ma dovrebbe anche offrire visualizzazioni cartografiche sintetiche e dinamiche delle distribuzioni di habitat e specie, marine, terrestri e di acqua dolce. Poiché cambia il clima e cambiano gli ambienti, soprattutto a causa degli impatti antropici, l’Atlante dovrebbe documentare la biodiversità esistente entro e oltre il sistema delle aree protette. Ma dovrebbe anche sviluppare proiezioni prospettiche per aiutare tutti a comprendere, nei limiti del possibile, come potranno cambiare le distribuzioni e le composizioni di habitat e specie qualora il deterioramento ambientale si inasprisse o, al contrario, dove efficaci misure di conservazione venissero attuate. Già esistono tantissimi studi e pubblicazioni che documentano la presenza e distribuzione di specie, talvolta anche con stime di abbondanza. Queste informazioni, ora disperse in innumerevoli pubblicazioni e siti web, dovrebbero essere in qualche modo validate, sintetizzate e rese pubblicamente disponibili all’interno dell’Atlante. Tanti programmi LIFE e Interreg hanno prodotto negli anni innumerevoli informazioni sullo stato di settori specifici della biodiversità che attualmente sono disperse in altrettanti siti web. Ancora una volta, l’Atlante che qui proponiamo potrebbe sintetizzare queste informazioni e renderle pubblicamente disponibili in forma attraente ed accessibile a tutti. Infine, a vantaggio di una più diffusa cultura ecologica e naturalistica, l’Atlante potrebbe promuovere in modo scientificamente corretto le informazioni su quanto sappiamo della biodiversità nei parchi e nelle aree protette del nostro Paese e su quanto ancora ci resta da scoprire.

Transizione energetica, paesaggio e biodiversità

Mauro Furlani e Paolo Pupillo

Perché cambiare le fonti di energia.
Recita un celebre motto (di spirito) che fare previsioni corrette è sempre difficile, soprattutto prima che l’evento si verifichi. Ma se parliamo di clima e gas serra (greenhouse gases, GHG) le previsioni sono state piuttosto precise fin dagli inizi della storia, che per comodità collochiamo al 1958, quando, per iniziativa di un chimico americano di nome Charles David Keeling, cominciarono i rilevamenti del biossido di carbonio (CO2) atmosferico all’Osservatorio astronomico di Mauna Loa nelle Isole Hawaii. I risultati (fig. 1) furono sorprendenti: la concentrazione di questo GHG in atmosfera andava aumentando di circa il 2% all’anno nonostante una marcata oscillazione annuale, anch’essa dell’ordine del 2%, attribuita all’effetto della fotosintesi algale nell’Oceano Pacifico (ma è stata poi riportata in tutto il mondo, anche al nostro Osservatorio dell’Aeronautica sul Monte Cimone). In questo modo divenne possibile documentare con precisione l’aumento di concentrazione di CO2 atmosferico da 320 ppm (parti per milione) alle attuali 420: un balzo di quasi un terzo in 65 anni; mentre sappiamo che almeno nell’ultimo mezzo milione di anni e fino alla rivoluzione industriale il livello di CO2 non aveva mai superato 280 ppm. Le misure geochimiche isotopiche, inoltre, confermano che c’è sempre stata una stretta correlazione fra le temperature medie e le concentrazioni dei GHG durante le grandi glaciazioni dell’ultimo milione di anni. Ma l’ipotesi di una relazione fra temperatura e gas atmosferici per “effetto serra” era stata già proposta dal premio Nobel Svante Arrhenius (1859-1927), a spiegazione delle condizioni climatiche eccezionalmente favorevoli del nostro Pianeta; con il corollario delle possibili conseguenze di un aumento (antropogeno) dei GHG.

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Amnesie, ipocrisie e irresponsabilità. Verso un consapevole suicidio collettivo?

Valter Giuliano

Non so se ve ne siete accorti, ma la declinazione del PNRR perde, nella comunicazione globale, sempre più spesso la R finale. Tutto si ferma a Piano Nazionale di Ripresa e dimentica la Resilienza, vale a dire la necessità di adeguarsi alle conseguenze della crisi climatica.
Così come, da quasi subito, la transizione ecologica – complice un Ministro che di ambiente nulla sapeva – si ridusse a energetica.
Ogni parola ha un senso, così come lo ha ogni omissione. E le amnesie sempre più frequenti sottolineano la tendenza a sottovalutare quell’esigenza di cambiamento radicale che le azioni suggerite a livello europeo intendono innescare per affrontare davvero, e non solo a parole, la crisi ambientale che ha nell’insostenibile e apparentemente inarrestabile aumento delle temperature del pianeta la sua evidenza più significativa.
L’Unione, con il programma Next Generation EU, dotato di un pacchetto di investimenti di 750 miliardi di euro. ha inteso affrontare non solo la crisi pandemica, ma anche e soprattutto la transizione ecologica, per assicurare un futuro alle prossime generazioni. Il PNRR che prevede con il fondo complementare oltre 250 miliardi, in gran parte a fondo perduto, invita gli Stati membri ad azioni concrete per quella che viene definita “transizione (definita in alcuni documenti ‘rivoluzione’) verde”.
Tutti i progetti che verranno finanziati dovranno innanzitutto «non causare danni ambientali», tutelando il territorio e le sue risorse, in particolare quella idrica, perseguendo cinque missioni (transizione digitale, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute).
Indicazioni che sembrano del tutto ignote alla nostra classe politica, purtroppo non solo al Governo.
Quando ai buoni principi, racchiusi solo nelle buone intenzioni e nelle conseguenti dichiarazioni, non fanno seguito atti conseguenti, ecco che il bluff si rivela in tutta la sua evidenza.
Prendiamo le decisioni dell’Unione Europea e del piano per rendere sostenibile il patrimonio edilizio europeo.
C’è subito chi si indigna e rosica «perché Greta ha vinto». C’è chi strilla perchè proprio non gli va giù. I resilienti a parole approvano la riconversione ecologica, ma quando ai “bla bla bla” seguono provvedimenti concreti, iniziano le loro litanie sul fatto che «sostenibile va bene ma non deve andare a scapito dello sviluppo. Che sì bisogna agire, ma dando tempo alle imprese di adeguarsi. L’energia verde va bene, ma servono ancora il carbone, le fonti fossili, il nucleare, ecc, ecc».
Contro la proposta di Direttiva europea sulle green house (case energeticamente sostenibili) la Lega parlato di turboambientalismo.
Davanti a una crisi climatica galoppante, che mette a rischio l’agricoltura, l’industria, la stessa disponibilità di acqua per consumi umani, dobbiamo ancora attendere?
Salvo eccezioni e deroghe (case vacanza, palazzi storici tutelati, chiese e abitazioni indipendenti di meno di 50 metri quadrati...) le abitazioni residenziali dovranno rientrare in classe E entro il 2030 e in classe D entro il 2033. Si tratta del primo passo di un iter che prevede il voto dell’Assemblea planaria, poi il negoziato con le altre istituzioni europee e consentirà agli Stati membri ampia flessibilità. Non ci saranno né obblighi né divieti alla vendita di chi non si sarà adeguato, ma è evidente che il mercato imporrà le sue valutazioni. È inoltre previsto uno specifico fondo europeo a sostegno dell’attuazione di una legge che intende abbattere il contributo del settore edilizio alla produzione di CO2.
Se non ora quando?
In Italia, secondo le stime di Enea, sarebbero almeno 11 milioni (il 74%) le abitazioni in classe superiore alla D.
È del tutto evidente che occorre da subito pensare a un Piano specifico per la penisola. Questo un Governo efficiente e responsabile deve fare. Non attaccare chi propone soluzioni che non si possono rinviare.
In questo contesto la recente strumentale polemica sul Superbonus edilizio non può prescindere dal fatto che si tratti del primo grande contributo dato all’efficientamento energetico delle nostre case. Spontaneamente sarebbe mai accaduto?
Sui discussi conti economici le opinioni sono contrastanti, anche diametralmente opposte.
Chi dice che ne è derivato più debito e poca crescita, se non effimera, di PIL e occupazione. Chi, come l’Istat, produce numeri da cui risulterebbe che è vera la salita del deficit del 2,4% rispetto alle previsioni, causata dal ricalcolo dei crediti fiscali deciso da Eurostat, che però non si traduce in aumento del debito e cade nel periodo di sospensione dei vincoli del patto di stabilità. Ma nel contempo – segnala – il PIL segna un + 3,7% e lo Stato incasserà una ottantina di miliardi per i prossimi dieci anni, la metà già entro il 2025. Alla fine il rapporto debito/PIL sarebbe calato e nel frattempo una parte del nostro patrimonio edilizio starebbe meglio sotto il profilo climatico.
Ma chi si occupa di economia questo effetto lo ritiene del tutto marginale e non contabilizzabile.
Analisi analoga possiamo farla sulle levata di scudi contro la fuoriuscita dai motori termici programmata dall’UE al 2035.
Nel futuro reale che significa? Che da quella data circoleranno solo motori non climalteranti? Purtroppo no! Per decenni ancora, a esaurimento, sulle nostre strade incroceremo quelli termici con il loro nefasto contributo alla crisi climatica sempre meno governabile.
Anche qui, un concerto irresponsabile di reazioni scomposte. E del tutto irrazionali, capaci solo di inseguire gli strilli della parte peggiore della nostra imprenditoria, quella che reclama la possibilità di continuare a succhiare contributi pubblici facendo profitti senza predisposizione alcuna ad investire in nuove tecnologie e processi produttivi efficienti. Aziende residuali di cui faremmo bene a liberarci, lasciandole scivolare verso l’estinzione, con un conseguente risparmio nel fardello di sostegno pubblico a garanzia della loro inutile sopravvivenza che non fa che procrastinarne l’ineludibile fuoriuscita dal mercato.
Solo Confindustria Lombardia ha colto la necessità di dare stimoli perchè alla transizione, nel settore, si imponga una necessaria accelerazione per poter competere sul mercato globale. Attendiamo emuli virtuosi a dimostrare la presenza, che c’è, di una imprenditoria sana, proiettata verso il futuro e consapevole che per affrontarlo le questioni ambientali non sono più nemiche.
Purtroppo in questo caso l’Italia getta sabbia negli ingranaggi del cambiamento e si oppone a Bruxelles. E l’ineffabile nuclearista Chicco Testa, già fondatore di Legambiente, strilla la sua opposizione e chiede che l’Europa non diventi la ZTL del mondo!
Che dire? Che fare?
Le opposizioni del Governo sulle azioni concrete a favore della riconversione ecologica ed energetica segnano un ritardo culturale che fa di noi il fanalino di coda del continente.
E, soprattutto, evidenziano la totale mancanza di una reale e realistica programmazione di una politica per la resilienza nei confronti della crisi climatica in atto.
Ne soffriranno le città e le campagne e il Governo resterà a guardare, capace solo di intervenire a posteriori rincorrendo le emergenze con bonus, risarcimenti... fino a quando le capacità di indebitamento non lo costringeranno al default, mangiandosi i nostri risparmi, le nostre pensioni, le speranze di futuro delle nuove generazioni.
Gli schiamazzi isterici di oggi nei confronti delle politiche europee si trasformeranno in pianti e disperazioni senza rimedio.
Se questo scenario, ormai alle porte, si avvererà, sarà anche colpa nostra.
E una responsabilità, non secondaria, sarà da attribuire a una informazione ormai inadempiente rispetto alle sue funzioni. Asservita al potere, incapace – tranne casi sempre più rari – di dirci le cose come stanno con la dignità di non passarci soltanto le veline del potere o di mettere il microfono a disposizione del potente di turno. Un “gelato” a raccogliere le dichiarazioni, interviste senza domande, o al più funzionali al discorso che il leader di turno ha già concordato.
Questo pseudo giornalismo consegna l’Italia agli ultimi posti nella classifica dell’informazione.
E purtroppo non solo sulle questioni dell’emergenza ambientale.
La deontologia che obbliga a verificare le fonti, a non consentire la diffusione di notizie false e tendenziose, a proteggere i minori, a non segnalare occasioni di discriminazione sessuale, religiosa, etnica, è rimasta soltanto più nei corsi di aggiornamento della professione. Ma ogni trasgressione è consentita, con un Ordine che raramente si oppone, ricorre, e proprio per questo ha sempre meno motivi per esistere. Senza contare che la professione la esercita (abusivamente?), ai livelli di maggior ascolto, chi ha rinunciato a farne parte.
Un altro segno del degrado di un paese che aspetta risposte dalla sua classe dirigente. Altrimenti la rifiuta, rinunciando a esercitare quel diritto-dovere al voto che è fondamento non solo della nostra Costituzione ma dello stesso ordine democratico.

Torino 2006-2022. Cosa resta dell’eredità delle Olimpiadi dopo 18 anni

Piero Belletti

È indubbio che l’occasione olimpica sia stata, per la città di Torino, un’occasione forse irripetibile per migliorare e rendere più efficienti strutture e servizi, nonché per farsi conoscere dal mondo, superando quel concetto capillarmente diffuso di Torino quale grigia città industriale, priva di fascino e attrattive turistiche. Obiettivi che, bene o male, sono stati, almeno in parte, raggiunti. Oggi Torino è senz’altro più “attrattiva” rispetto al periodo pre-olimpico e alcuni servizi sono migliorati: si pensi ad esempio al sistema museale e alla metropolitana, che, per quanto ancora insufficiente, ha consentito un sostanziale passo in avanti nella mobilità urbana sostenibile. Non solo: oggi Torino è conosciuta nel mondo e meta di un flusso turistico notevole e che risulta in generale soddisfatto della visita. Nel solo 2019 si sono registrate circa 4 milioni di presenze e, più in generale, il flusso turistico a cavallo dell’evento olimpico è di fatto raddoppiato.

Il problema, ovviamente, è valutare tutto ciò in termini di rapporto costi-benefici. Considerando, tra i primi anche quelli ambientali e sociali. Cosa che, in realtà, non si fa quasi mai e rende così attraenti anche iniziative del tutto insostenibili se valutate in un’ottica più ampia.

Fare un bilancio, anche solo limitato all’aspetto economico, delle Olimpiadi di Torino è praticamente impossibile, sia per la complessità delle relative vicende finanziarie che per la difficoltà di quantificare in modo preciso i costi delle opere realizzate. Le cifre che più comunemente vengono riportate sono quindi forzatamente approssimative e discutibili. Comunque, danno un’idea abbastanza precisa della dimensione economica di riferimento. Si parla di un debito a carico delle casse comunali della Città di Torino che ha superato 3 miliardi di Euro, che equivale a circa 3.500 Euro per cittadino, neonati ed ultracentenari compresi (dati pubblicati da Il Sole 24 Ore a settembre 2017) e che, se tutto va bene, finiremo di pagare nel 2035. Un debito che è il più alto d’Italia, o che si gioca con Roma questo scoraggiante primato a seconda di come si considerino le cifre. I servizi pubblici per i cittadini nella Torino del post-olimpico sono indiscutibilmente peggiorati: dai trasporti pubblici all’assistenza, dalla promozione di attività culturali al verde urbano (settore, quest’ultimo, nel quale gli investimenti sono via via scesi da 4 milioni a 800.0000 Euro l’anno e che solo in questi ultimissimi tempi mostra confortanti segni di ripresa). Non solo: la disperata ricerca di risorse economiche ha “costretto” l’Amministrazione a svendere alcuni delle sue più pregevoli proprietà e a cercare disperatamente di monetizzare i tristemente famosi “oneri di urbanizzazione” ovunque fosse possibile, con conseguenze molto pesanti sul tessuto urbanistico e sociale della città. Certamente il debito non è imputabile integralmente all’evento olimpico, ma in gran parte sì, come peraltro ebbe modo di affermare la stessa ex sindaca (e attuale parlamentare) Chiara Appendino, quando sedeva ancora in Consiglio Comunale sui banchi dell’opposizione: “Le Olimpiadi invernali di Torino 2006 hanno segnato la nostra città. Lasciando un’eredità pesante fatta di enormi debiti con cui ancora facciamo i conti”.

Gli esempi più lampanti di discutibile gestione dei finanziamenti olimpici riguardano senza dubbio il trampolino per il salto di Pragelato e la pista per il bob di Cesana Torinese, anche se sono numerosi gli esempi di impianti o strutture appositamente realizzate, o pesantemente ristrutturate, per l’evento olimpico e poi di fatto abbandonate o quanto meno sotto utilizzate. Il villaggio olimpico realizzato a Torino sull’area che in precedenza ospitava i mercati generali ne è un esempio. Terminate le Olimpiadi le abitazioni, evidentemente realizzate in fretta e adottando ridottissimi criteri di qualità, hanno cominciato a deteriorarsi: alcune sono state occupate abusivamente e solo recentemente sgombrate e “sigillate” per evitare ulteriori intrusioni. Ma la riqualificazione del quartiere, che era stata promessa e sbandierata ai quattro venti, di fatto non è avvenuta.

Ma torniamo ai due esempi più eclatanti. Il complesso per il salto è stato realizzato a seguito di enormi sbancamenti e disboscamenti a Pragelato (alta val Chisone, giusto qualche chilometro a valle del più famoso centro di Sestriere); è costato non meno di 35 milioni di euro ed è, al momento, di fatto abbandonato e in rovina. Analoga la situazione per la pista da bob, realizzata nella frazione Pariol di Cesana (alta valle di Susa) e costato 110 milioni di euro. Nel 2011 l’impianto, peraltro utilizzato in modo molto saltuario, è stato “svuotato” del liquido refrigerante (ammoniaca), ritenuto pericoloso e obiettivo sensibili di possibili attacchi terroristici. Successivamente all’abbandono, atti di vandalismo e furti di rame hanno praticamente distrutto tutto o quasi. Il destino di questi impianti era peraltro già segnato fin dall’inizio. Inutilmente le Associazioni ambientaliste avevano affermato che sport come il salto con gli sci e il bob sono pochissimo diffusi nelle Alpi occidentali e che non sarebbe bastato l’evento olimpico per creare un bacino d’utenza compatibile con una gestione economicamente sostenibile degli impianti. Analoga risposta negativa fu ricevuta alla proposta di effettuare queste discipline presso località già dotate dei necessari impianti e localizzate nelle vicinanze di Torino.

Naturalmente, le vicende di queste cattedrali nel deserto hanno più volte sollecitato l’interesse della Magistratura: l’ultimo caso riguarda un’indagine della Corte dei Conti del Piemonte avviata ad inizio anno per il degrado e l’incuria di cui gli impianti sono stati oggetto.

Ma come si legge nell’articolo sulle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 la lezione non è servita a nulla e si stanno ricommettendo praticamente gli stessi errori di allora. Impossibile ipotizzare che gli organizzatori non si rendano contro della realtà: evidentemente la prospettiva di attingere a risorse finanziarie quanto mai sostanziose e il prevedibile allentamento dei vincoli e dei controlli legati alla realizzazione di infrastrutture scatena molti appetiti, anche i meno onorevoli.

Milano-Cortina 2006. Olimpiadi sostenibili? Solo a parole

Franco Rainini

I Giochi invernali più sostenibili e memorabili di sempre, fonte di ispirazione per cambiare la vita delle generazioni future”. Dal dossier candidatura di Milano-Cortina per le olimpiadi 2026 https://milanocortina2026.olympics.com/media/ej0c2b3u/2026-milano-cortina-ita_dossier-candidatura.pdf

Rileggere il documento di candidatura citato in epigrafe non è un esercizio inutile in questo momento, mentre si stanno definendo gli assetti organizzativi dei giochi e siamo vicini all’avvio delle opere, opere che in realtà dovrebbero essere pochine, citiamo sempre dal dossier candidatura:

Adotteremo un approccio unitario e pianificato con attenzione per realizzare Giochi sostenibili che si avvalgano dello sport come elemento catalizzatore di numerosi benefici economici, ambientali e sociali. Come illustrato nel Concept dei Giochi al punto D.3, solo due impianti olimpici chiave necessitano di infrastrutture completamente nuove. Tutte le altre sedi sono esistenti, oppure esistenti ma con la necessità di eseguire opere permanenti (solo tre) o temporanee”; e ancora : ” 4.Il 93% degli impianti sono già esistenti o temporanei. … Uno dei principi fondamentali sulla quale si basa Milano Cortina 2026 è la sostenibilità economica, ambientale e sociale. Il 93% degli impianti che verranno utilizzati sarà già esistente o temporaneo. Saranno i Giochi ad adattarsi alle necessità dei territori e non viceversa”.

Anche dal punto di vista dell’impatto sulle aree naturali l’approccio contenuto nel dossier di candidatura sembra orientato al buon senso e all’attenzione, citiamo ancora: “Il Piano di Realizzazione complessivo dei Giochi sarà inoltre sottoposto, nel quadro della VAS, a una specifica valutazione (ex DPR 375/97) per evitare ogni possibile impatto sulla conservazione della biodiversità e del patrimonio culturale”.

Chiunque come ambientalista si è trovato ad affrontare l’avvio di grandi opere o eventi è certamente avvezzo a questo tipo di prosa rassicurante ed anche cosciente che maggiore è la retorica sulla sostenibilità, più gravoso è il peso che si abbatte sulla natura, sui beni comuni ambientali e di valore sociale.

Tanto per chiarire come sta andando a finire, mettiamoci comodi e rilassati e cominciamo da uno degli ultimi atti prodotti in tema di olimpiadi, l’ultimo prodotto dal dimissionato governo Draghi: Il DCPM26/09/2022, nel quale, con ritardo di circa una anno sul previsto, viene fatto l’elenco delle opere previste per le olimpiadi, dal quale risulta che parecchio deve essere progettato e costruito, lasciando ampio spazio discrezionale per ulteriori progettazioni e costruzioni. Un particolare non trascurabile è che questo atto decreta, ad onta del dossier di candidatura che “il Piano degli interventi rileva quale programma finanziario e che, in coerenza con quanto previsto dall’articolo 6, comma 4, lettera b), del decreto legislativo n. 152 del 2006 lo stesso non è assoggettato alla procedura di valutazione ambientale strategica;” (https://www.governo.it/it/articolo/dpcm-26-settembre-2022-approvazione-del-piano-degli-interventi-da-realizzare-funzione-dei) come a dire, i soldi son soldi e non hanno impatto ambientale, quindi perché preoccuparsi di quello che con i soldi si fa? Come spesso accade in documenti tecnici si trovano perle di sincerità che mancano nei documenti programmatici.

Rimanendo su questo tema occorre rilevare che proprio sulla valutazione di impatto ambientale delle olimpiadi si è concentrato l’impegno delle Associazioni ambientaliste, organizzate in un tavolo di confronto. Le otto associazioni dopo alcuni sterili confronti con la Fondazione Milano Cortina (organizzatrice, promotrice e deputata alla comunicazione degli eventi sportivi e culturali relativi allo svolgimento dei Giochi Olimpici e Paralimpici Invernali del 2026, (https://milanocortina2026.olympics.com/it/fondazione-milano-cortina-2026) nell’aprile del 2021 hanno inviato una lettera al ministro delle infrastrutture con l’esplicita richiesta di una Valutazione Ambientale Strategica (VAS) su tutte le opere a vario titolo connesse alle olimpiadi.  In particolare si chiedeva una VAS nazionale e non diverse valutazioni Regionali svolte dai quattro enti amministrativi competenti per i territori (Bolzano, Trento, Veneto e Lombardia), la lettera seppure firmata dai presidenti delle Associazioni, e il successivo confronto diretto con il sottosegretario alle infrastrutture delegato, non ha avuto nessun riscontro. Il DPCM dello scorso settembre appare dunque come l’effettiva risposta all’istanza e rivela l’effettiva diponibilità al confronto del governo e degli enti organizzatori alle nostre istanze. Di passaggio vale rilevare che la segnalazione di assenza di risposta su un tema tanto importante che sei delle otto associazioni del tavolo (tra cui Pro Natura) hanno inviato al Comitato Olimpico Internazionale, garante della sostenibilità delle opere, ha avuto una risposta formale e totalmente insoddisfacente.

L’oggettiva inefficacia del confronto fin qui rilevato dalle Associazioni ambientaliste, non ha esaurito la montante opposizione alle olimpiadi, espressa soprattutto in ambito locale dai comitati sorti spontaneamente nei vari distretti in cui si svolgeranno i giochi. Un ambito di particolare criticità è rappresentato da Cortina D’Ampezzo, principale ambito di svolgimento dei giochi, dove è anche previsto lo svolgimento delle gare di Bob, con il previsto adeguamento della pista realizzata negli anni ’50 pressoché mai utilizzata dopo i giochi invernali del 1956. Della cosa si è parlato diffusamente, a seguito della richiesta di porre il vincolo architettonico sull’opera, richiesto e ottenuto dagli ambientalisti di quella città, che ha raccolto qualche clamorosa adesione.  Il previsto intervento sulla vetusta pista ha in realtà diverse ragioni di attenzione, in primo luogo per la disastrosa esperienza di mancato utilizzo successivo agli eventi che hanno fatto registrare tali opere, a partire dalla recente pista di Cesana Pariol, realizzata per le olimpiadi invernali di Torino 2026, del resto anche la pista di Innsbruck, suggerita in alternativa non è idonea allo svolgimento delle olimpiadi, come nessuna altra pista presente nell’arco alpino.  Per questo nell’incontro del 1 dicembre scorso tra gli ambientalisti veneti e il presidente della Regione quest’ultimo ha ribadito che l’impianto verrà realizzato (con abbattimento della struttura vincolata) e con questa comunicazione ha troncato il confronto con gli ambientalisti. Quindi ad onta dei vincoli ambientali, della progressiva e devastante trasformazione di Cortina in un parco giochi (definizione di una esponente locale di Italia Nostra), con la conseguente esplosione del valore degli immobili, tali da renderli inaccessibili agli abitanti, della crisi economica, dei costi energetici, dell’impatto su un territorio geomorfologicamente fragile, la pista da oltre cento milioni di euro si farà.

Ma la pista da Bob non è il solo bene vincolato che è a rischio nel comprensorio ampezzano, un altro esempio tra i molti che si possono fare: per le olimpiadi è prevista la realizzazione di un albergo (una costruzione di quarantamila metri cubi) presso il passo di Giau, un valico che si trova a oltre 2200 metri sul livello del mare. Proprio sul passo si è svolta il cinque giugno scorso l’unica manifestazione realizzata a livello nazionale contro le opere previste dalle olimpiadi, di ottimo successo, come grande successo ha avuto la raccolta di firme contro la pista da Bob a Cortina. A tutto questo il presidente Zaia ha risposto alle critiche affermando che lui rappresenta il 77% dei veneti, e tanto deve bastare.

La situazione in Lombardia non è molto diversa, con deliberazione 3531 del 5 agosto 2020 è stato previsto e finanziato un elenco di opere connesse alle olimpiadi, contenute all’interno di un “programma degli interventi per la ripresa economica”. La presenza di opere olimpiche in detto programma esplicita la verità di quanto abbiamo sostenuto per questo evento olimpico, come per altre opere grandi e piccole per cui sono stati spesi soldi pubblici con danno per l’ambiente e i cittadini, ovvero che non si fanno le opere per le olimpiadi, ma sono le olimpiadi che danno ragione per spendere soldi pubblici per immaginare opere quasi mai utili e spesso neppure completate.

All’interno del capitolo olimpiadi del programma sono previste soprattutto opere viarie, a ulteriore dimostrazione che il sistema “sostenibile” di collegamenti previsto nella candidatura olimpico è perlomeno opinabile. Tra queste opere vi è anche la pietra dello scandalo delle olimpiadi per le opere lombarde propedeutiche alle olimpiadi: la “tangenzialina” di Bormio. La strada di cui non si sentiva in verità particolare bisogno e che ha sollevato una fiera opposizione prevede un esborso di cinque milioni per un chilometro di strada che non porta da nessuna parte e non risolve i problemi del traffico di quella città, tutti concentrati nei finesettimana invernali e legati al turismo sciistico. È appena il caso di dire che l’opera comprometterà uno dei pochi lembi del fondovalle non ancora antropizzati, sacrificando la piana agricola delle Alute, lo scorcio paesaggisticamente più bello di Bormio

Sempre a Bormio la pista sciistica verrà ampliata nelle infrastrutture necessarie per permettere le sofisticate riprese televisive, il che porterà al sacrificio di un ettaro di foresta.   Anche la parte centrale della valle, sebbene non interessata dalle gare, paga un prezzo ambientale e di qualità della vita alle olimpiadi. La tangenziale di Sondrio sarà realizzata sul territorio del Comune di Montagna in Valtellina, tagliando i collegamenti all’interno di quel Comune per finire a bloccarsi davanti al passaggio a livello al termine del paese.

Milano è stata la promotrice dei giochi ed in qualche modo l’origine di tutti gli impatti che le olimpiadi stanno creando sul territorio di due Regioni e due Province autonome.  Della particolare capacità attrattiva che negli ultimi quindici anni Milano ha rappresentato si è parlato ancora in passato, vale spolverare un vecchio numero de L’Espresso (n. 25 del 16 giugno 2019 – titolo: “Caccia grossa a Milano”) nell’articolo si rileva, tra l’altro, che il 60% degli investimenti immobiliari esteri sono effettuati sulla sola città di Milano.  Il dato non è indifferente per l’argomento in questione: è immediato comprendere che iniziative come l’expo e le olimpiadi hanno l’effetto di mantenere e incrementare l’afflusso di denaro.  Anche la localizzazione degli impianti previsti a Milano (villaggio olimpico sull’ex scalo ferroviario, palazzetto dello sport di Santa Giulia), è interessante: Santa Giulia e le zone limitrofe, vicine all’importante snodo ferroviario di Rogoredo sono da tempo all’attenzione degli investitori, anche dopo il fallimento dell’edificazione del quartiere omonimo e lo scandolo del ritrovamento di rifiuti pericolosi interrati nelle fondamenta del quartiere.

Le conseguenze sociali delle trasformazioni urbanistiche provocate dai grandi eventi, che sono indicate nel linguaggio degli urbanisti come gentrificazione (brutto termine mutuato dall’inglese) sono meritevoli di interesse, per approfondire questo argomento ed altri legati alle olimpiadi è utile vedersi la registrazione del convegno organizzato lo scorso 19  novembre dall’Associazione off topic  dall’efficace titolo “giochi pericolosi” (https://www.facebook.com/watch/live/?ref=search&v=522084509784051, la registrazione parte dal 32’ ed ha una lunga interruzione per la pausa).

Le questioni poste dalle olimpiadi Milano Cortina 2026 sono dunque molto complesse e si esprimono diversamente nei vari ambiti interessati, è comunque importante ravvisare un comune denominatore nella necessità di forzare il mercato attraverso una potente iniezione di denari pubblico, lo scorso novembre a Milano si è parlato già di 4,5 miliardi, ma a questi dobbiamo aggiungere i quasi 500 milioni previsti dalla finanziaria in discussione, siamo solo all’inizio molti altri se ne aggiungeranno. Non dovremmo esserne sorpresi, una volta i soldi pubblici servivano per fare infrastrutture utili a nuove fabbriche, oggi di fabbriche ce ne sono pochine, qui, i soldi creati dal sistema finanziario e dal sistema dei beni voluttuari (es moda) vanno soprattutto per favorire investimenti immobiliari, cioè in consumo di suolo (anche in questo la Lombardia e il Veneto hanno un non lusinghiero primato), diretto, sulle aree appetite, indiretto cioè indotto dall’espulsione dei ceti medio bassi dai quartieri periurbani oggetto di “valorizzazione”.  Anche le infrastrutture create in aree montane seguono la stessa logica,: dietro al velo pietoso di aiutore lo sviluppo delle aree montane le si rende più pervie al turismo (invernale), alla colonizzazione da paerte della metropoli.

Quanto sopra da senso alle grandi difficoltà che il tavolo ambientalista di confronto sulle olimpiadi si è trovato ad affrontare. Finora non abbiamo ottenuto nulla, se non forse esplicitare il comune disinteresse di tutti gli attori istituzionali (Fondazione Milano Cortina, governo, CIO) ad affrontare coerentemente la sfida della sostenibilità dei giochi, ma certo non abbiamo (chi scrive a partecipato al tavolo in rappresentanza di Pro Natura) dato prova di coesione e incisività; la stessa scarsa compattezza che su molti temi (non su tutti, per fortuna) il movimento ambientalista dimostra troppo spesso. Ma la mancanza di confronto e di schiettezza ci presenta continuamente il conto e forse proprio a partire dalle olimpiadi si deve iniziare a discutere profondamente, anche alla luce dell’esperienza di Torino 2006, dentro la quale la Federazione ha giocato un ruolo primario.

In conclusione per dare il quadro del livello di interlocuzione che abbiamo avuto con la Fondazione Milano Cortina riferiamo dell’ultimo incontro con la stessa, lo scorso 3 ottobre presso la sede della Fondazione in un luogo simbolico: piazza Tre Torri a Milano, in uno dei grattaceli.  L’incontro ha avuto come tema le piste a innevamento artificiale, argomento cruciale, perché come tutti sanno da queste parti di neve non ce n’è più d’inverno in montagna, o non ce n’è abbastanza per soddisfare le pulsioni sciistiche degli abitanti della pianura, quindi bisogna spararla con i cannoni, sperando che la temperatura permetta di mantenerla sciabile … In un contesto climatico sempre più orientato al riscaldamento (e ormai rassegnati a perdere, gli ultimi ghiacciai delle alpi), il rischio di rimanere senza neve non può essere considerato immaginabile dagli organizzatori di cotanto evento, che ci hanno rifilato le assicurazioni dei produttori di impianti di neve finta circa l’elevata efficienza energetica e idrologica dei loro impianti. È stato abbastanza semplice far notare che l’approccio tecnologico su questo tema è sterile e inutile, che nessuna delle mirabolanti soluzioni proposte poteva rispondeva alla critica fondamentale: perché fare olimpiadi sulla neve se non c’è la neve? Che nessun dato era fornito sull’impatto previsto dai loro efficientissimi e potentissimi impianti sull’ecosistema montano, acqua, suolo, componenti biotiche. L’opzione zero per loro non può esistere (come dimostra il commissariamento delle opere connesse alle olimpiadi), da parte nostra non possiamo che concludere il confronto con noi ha avuto significato solo per essere comunicato e non per l’esito che il confronto stesso può aver prodotto.

Le previste olimpiadi Milano Cortina hanno già prodotto a quattro anni dall’avvio la pubblicazione di alcune interessanti riflessioni critiche. Segnaliamo tre libri:

  • La bolla olimpica Illusioni, speculazioni e interessi dietro ai cinque cerchi. A cura di Silvio La Corte, edizioni Nimesis.
  • Ombre sulla neve Milano-Cortina 2026. Il "libro bianco" delle Olimpiadi invernali. Di Luigi Casanova, edizioni Altraeconomia.
  • Cortina 2020 - 2040, storia di una comunità al tramonto? Di Raffaello e Stefano Lorenzi, La pubblicazione dello studio è stata sostenuta da: le Regole d’Ampezzo, il Comune di Cortina d’Ampezzo, Cortinabanca, la Cooperativa di Cortina, il Comitato Civico e la Union de i Ladis de Anpezo.
Fig. 1

Ri-connessione ecologica - idraulica delle unità morfologiche fluviali laterali

Andrea Dignani, geologo, Geo Studio Dignani Jesiwww.geostudiodignani.it

Dopo ogni evento alluvionale, una forte erosione in un fosso, sorge spontanea la richiesta di “laminare le piene a monte”, “ridare spazio al fiume”, giuste e ragionevoli richieste, purtroppo concetti che normalmente rimangono nella idea astratta della buona gestione del fiume o che al più trovano sporadiche e soggettive interpretazioni progettuali non sistematiche.

Interpretando la definizione dell’ingegneria idraulica (Wikipedia), “l'effetto di laminazione delle portate di piena consiste nel progressivo abbassamento del colmo di piena, per un alveo fluviale, man mano che il fenomeno prosegue da monte verso valle”, il fiume che viene rappresentato diminuisce le portate di picco andando verso valle, laminando lateralmente rispetto all’alveo le portate. Dal punto di vista del rischio idraulico l’approccio che si è affermato negli ultimi due secoli è esclusivamente basato sulla realizzazione di opere di difesa idraulica, progettate nell’ottica di contenere le piene entro stretti argini, rigide sponde, e allontanare l’acqua il più in fretta possibile, ritendo così di mettere “in sicurezza” il territorio. Nella moderna consapevolezza scientifica tale approccio progettuale altera pesantemente i processi e le dinamiche fluviali a medio e lungo termine, con conseguenze spesso imprevedibili e negative soprattutto in termini di rischio e dissesto. Inoltre esistono ripercussioni molto negative in termini ambientali e di disponibilità di risorsa idrica. L’acqua viene di fatto considerata come un problema da scaricare a valle, verso il mare, il più in fretta possibile; al contrario, l’acqua oggi rappresenta una preziosa risorsa, in considerazione degli attuali cambiamenti climatici, da accumulare nel “serbatoio” naturale offerto dal sistema dei corpi idrici superficiali (il suolo) e sotterranei (gli acquiferi). Ad analizzare bene il principio di favorire il deflusso verso valle per mezzo delle pratiche di arginare, canalizzare, rimuovere le condizioni di attrito sulle sponde (togliere la vegetazione, sistemare con gabbionate, realizzare una perfetta sezione di deflusso a trapezio rovesciato), le portate di picco, con il contributo degli affluenti, di fatto aumentano da monte verso valle. Di conseguenza, la vera soluzione progettuale per diminuire il rischio idraulico è quella di “laminare le piene”, diversamente dell’azione puntuale della cassa di espansione, in modo diffuso e continuo, con una costante riduzione del rischio verso valle.

Le Aree di Laminazione

La progettazione per la laminazione delle piene si basa sulla connessione laterale tra le unità morfologiche, in modo da soddisfare contemporaneamente le funzionalità ecologica, le dinamiche fluviali e le esigenze idrauliche, in un quadro sostenibile di gestione territoriale in funzione dalle caratteristiche del territorio circostante.

Le unità morfologiche-ecologiche di riferimento della progettazione sono quindi: il canale, le barre attive, la fascia di vegetazione spondale, la piana inondabile, (Fig.1).

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Oro blu

Sofia Filippetti (Laureata in Biologia dell’Ambiente, assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Torino)

Due atomi di idrogeno, un atomo di ossigeno, legami polari, molecole connesse tra di loro: la base della vita: l’acqua.

Mare, fiumi, laghi, l’acqua che beviamo, con cui ci laviamo, con cui cuciniamo, l’acqua con cui irrighiamo i campi, l’acqua nella quale navighiamo, che usiamo come fonte di energia, che scorre nelle piante, che ci culla nel liquido amniotico nel grembo materno, che conteniamo dentro il nostro corpo (dal minimo di 55-60% dell’anziano al massimo del 90% del neonato…), che piove giù dal cielo. L’acqua che riempie la Terra per il 71%, l’acqua che è habitat, che è alla base del funzionamento ecosistemico, dei cicli biogeochimici senza i quali ci esauriremmo. Origine dell’esistenza, di ogni esistenza da noi conosciuta, la sua importanza è talmente cristallina che sin dall’antichità è stata considerata simbolo e tramite della purificazione del corpo e dello spirito.

Necessaria, indispensabile, essenziale, da sempre l’acqua è stata utilizzata per i più disparati scopi umani: l’alimentazione, l’igiene, per domare il fuoco, per il giardinaggio, usi ricreativi, ragioni religiose, usi agricoli, motivi industriali, in veste di fonte energetica, come solvente e reagente, per riscaldare e raffreddare. A raccontarla così, a far riferimento a quel fantomatico 71% che riempie la Terra, però, pare che il nostro pianeta disponga di una fonte pressoché inestinguibile di questo oro blu: niente di più distante dalla realtà. Tanto per cominciare, conditio sine qua non per questi “più disparati scopi umani” è il trattamento, ché l’acqua ha le sue proprietà e caratteristiche intrinseche, e in base agli impieghi cui si vuole destinare deve essere trattata, come addomesticata (altresì riconosciuta in veste dell’importante concetto di “water safety”). E poi, come ogni elemento integrante della Natura, l’acqua non è inesauribile, non è influenzata dai nostri ordini, ma lo è certamente dalle nostre azioni: quando la domanda supera l’offerta, quando inquiniamo l’ambiente in cui ci troviamo, quando non abbiamo cura della salute della Terra.

Alla fine, si approda sempre lì, nella grande problematica (e colpa) del nostro secolo: il cambiamento climatico.

Il report IPCC 2022 (The Intergovernmental Panel on Climate Change) mette nero su bianco la gravità della situazione, affrontandola da tutte le sue angolazioni e approfondendo in un capitolo apposito anche la risorsa acqua. Il cambiamento climatico, di cui l’uomo è innegabile parte responsabile con le sue azioni, è strettamente connesso ad un incremento delle temperature, le quali definiscono una alterazione nei pattern di precipitazione dell’acqua, causando una maggiore frequenza di alluvioni e allagamenti, di eventi estremi, oltre ad una variazione della portata dei fiumi ed un innalzamento della quota neve. In sostanza: cambiano gli impatti sul paesaggio, sugli habitat, sulla vita. Sulla vita di tutti: delle piante, degli animali, degli uomini, perfetto esempio della necessità dell’approccio One Health.

L’acqua, infatti, è alla base di ogni esistenza, la connette, la collega, è il canovaccio su cui si sviluppa ogni essere, e un suo disequilibrio ha una ricaduta importante a più livelli. L’alterazione del ciclo idrologico, volendo essere antropocentrici, va ad impattare anche la cosiddetta “water security”, vale a dire “la capacità di una popolazione di garantirsi l’accesso sostenibile a risorse idriche che siano adeguate, sia in termini di quantità che di qualità, per garantire la vita umana, lo sviluppo socio-economico, la protezione dell’ambiente e delle specie animali e vegetali, nonché per prevenire disastri idrici e preservare gli ecosistemi in un clima di pace e stabilità politica”. E non si tratta di una situazione ipotetica, di qualcosa che potrebbe succedere: è qualcosa che sta già accadendo. Nel mondo, come riportano l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’UNICEF con i dati del 2021, una persona su quattro non ha l’accesso ad acqua potabile gestita in modo sicuro. Vale a dire che una persona su quattro non ha la possibilità di usufruire di quel bene inestimabile e che è risaputo essere fondamentale per la salute, la dignità e il benessere. Un dato pazzesco, se si considera che nel 2010 (solo nel 2010!) il diritto all’acqua potabile è stato riconosciuto per la prima volta come diritto internazionale vincolante dalle Nazioni Unite. Viene da sé, allora, che l’emergenza acqua deve essere urgentemente risolta con tutte le forze di cui disponiamo, motivo per cui compare nella “Agenda 2030” in veste di “Obiettivo 6”: garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie. E qui, comunque, parliamo ancora solo del nostro punto di vista, estremamente egoista. Ma è tutto inevitabilmente connesso. Secondo gli studiosi, infatti, il cambiamento climatico e l’acqua hanno un legame indistricabile, che si traduce in svariate e molteplici sfaccettature. Le ricadute negative di questo disquilibrio, di questo legame, le stiamo già sperimentando sulla nostra pelle. Siccità (ci basti pensare alle impressionanti fotografie del letto del fiume Po di qualche tempo fa), innalzamento dei livelli del mare, scioglimento dei ghiacciai, piogge improvvise e torrenziali. Piogge talmente tanto violente e abbondanti, che arrivano con talmente tanta forza e talmente tanta intensità da non permettere alle piante e al terreno di farne uso, con un conseguente deflusso eccessivo, che diventa veicolo di contaminanti, i quali arrivano nei fiumi, nei laghi, nei mari, ad inquinarli, a squilibrarli (con l’eutrofizzazione), ad avvelenare il plancton e poi i pesci che alla fine arrivano a noi. Sembra un po’ “Alla fiera dell’Est” di Branduardi, ma è esattamente così (e in maniera ancor più complessa) che stanno le cose.

La tragica frana di pochissimi giorni fa ad Ischia, che ha seguito solo di poco più di due mesi la gravissima alluvione nelle Marche, evidenzia ancora una volta l’urgenza di prendersi cura del nostro ambiente sotto tutti i punti di vista.

Forse è sconfortante, forse ci sentiamo schiacciati, soverchiati dalla portata di queste preoccupazioni, ma non dobbiamo dimenticare che se siamo parte del problema, allora siamo anche parte della soluzione. La scienza, che si basa sul contributo instancabile di esseri umani, ci sta insegnando come prendere atto della realtà (ad esempio attraverso il calcolo dell’impronta idrica), ci sta indicando, aiutando e portando mano nella mano verso la soluzione: il rispetto dell’ambiente, l’economia circolare, l’integrazione dei servizi ecosistemici nella nostra amministrazione, l’utilizzo delle acque reflue (che non sono più rifiuto, ma risorsa), i piccoli gesti che possiamo compiere ogni giorno nel nostro piccolo, nel nostro quotidiano. Tutto è necessario, tutto è indispensabile per tutelare e risparmiare l’oro blu della Terra: siamo noi il salvadanaio.

 

Riferimenti

Completamento autostrada A33 Asti-Cuneo: l’eterna incompiuta che rischia di terminare malamente

Cesare Cuniberto (Per conto del Direttivo dell’Osservatorio per la Tutela del Paesaggio di Langhe e Roero

L’autostrada A33, tra Asti e Cuneo, un’opera sbagliata per l’errata valutazione del traffico previsto, progettata diversi decenni fa, ha ripreso da un anno e mezzo i lavori per il completamento di parte dei 9 chilometri mancanti, ma continua a destare forti preoccupazioni a causa delle conseguenze ambientali che la seconda parte potrebbe generare per i poco più di quattro chilometri che da Verduno si collegheranno al moncone di Cherasco.

L’autostrada A33, tra Asti e Cuneo, un’opera sbagliata per l’errata valutazione del traffico previsto, progettata diversi decenni fa, ha ripreso da un anno e mezzo i lavori per il completamento di parte dei 9 chilometri mancanti, ma continua a destare forti preoccupazioni a causa delle conseguenze ambientali che la seconda parte potrebbe generare per i poco più di quattro chilometri che da Verduno si collegheranno al moncone di Cherasco. 

Siamo nelle Langhe, uno dei territori riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità per il suo valore storico e paesaggistico. Cherasco, il paese dove l’autostrada si interrompe bruscamente, dista meno di dieci chilometri in linea d’aria da La Morra, Novello, Barolo e Monforte d’Alba, tra i paesi più belli e noti della zona, caratterizzata da castelli, colline, vigneti e nota in tutto il mondo per la produzione di vini come il Barolo ed il Nebbiolo.                                                                                   

Nel 2016, il Ministero acconsentì di rivedere il progetto finanziandone uno preliminare “in esterno” con viadotti al posto del tunnel, previsto sotto le colline di Verduno, ma ritenuto per quei tempi troppo costoso.

Il progetto in galleria, che era già approvato ed immediatamente cantierabile, ottenne il decreto di validità ambientale il 28.10.2011 dal Ministero dell’Ambiente che in data 09.02.2015 ribadì la bontà della soluzione, mentre il percorso del medesimo in esterno, per il quale opta il Concessionario, deve ancora ottenere tutte le autorizzazioni: VIA, VAS, AiPO, PAI, DNSH (Comm. Europea - 12.2.21 - C 1054, “Orientamenti tecnici sull’applicazione del principio di “non arrecare danno significativo”).

L’Osservatorio per la Tutela del Paesaggio di Langhe e Roero negli ultimi anni ha seguito da vicino il progetto di completamento della A33. L’Osservatorio è favorevole alla conclusione dell’autostrada ma a condizione che venga mantenuto il tracciato originale con il tunnel sotto le colline di Verduno, che venga assicurata la gratuità della tratta Castagnito-Cherasco, già oggi in larga parte gratuità in quanto sfrutta l’attuale tangenziale di Alba e che vengano adottate le necessarie misure di mitigazione in termini di tutela del paesaggio, rumore ed inquinamento. 

Ci preme ricordare che la galleria rappresenta la migliore garanzia anche in termini di sicurezza dal punto di vista idro-geologico (è il vero motivo per cui si era optato per la soluzione in sotterraneo) e della difesa del paesaggio.

Le risultanze della campagna su un considerevole numero di sondaggi, svolta sul versante della Collina di Verduno, hanno evidenziato come le problematiche di carattere geologico – geotecnico sono invasive dal punto di vista territoriale e che il versante in oggetto è sede di una paleofrana, in condizioni di stabilità quiescente.

Il percorso del completamento dell'AT-CN si trova in un territorio definito “buffer zone UNESCO” e “buffer zone Residenze Sabaude-Complesso Carloalbertino di Pollenzo”. Nelle vicinanze del luogo ove sono previsti gli impalcati, del tracciato in esterno, vi è il complesso monumentale e territoriale di Pollenzo.

Non vogliamo dover subire un danno irreversibile alla bellezza dei luoghi interessati, non solo per gli ettari sottratti all’agricoltura dal nastro di asfalto (circa 200 ha di terreni coltivabili e dediti all’allevamento di bestiame), ma anche per tutti i terreni tagliati dalla infrastruttura che, per evidenti difficoltà di accesso, sarebbero inesorabilmente destinati all’abbandono.

Ci preme inoltre segnalare che l’Osservatorio ha preso visione del documento del Ministero per la Transizione Ecologica (MiTE) recapitato il 2 Agosto 2022 al Concessionario, consistente nella Richiesta di Integrazioni allo Studio di Impatto Ambientale (SIA) presentato da quest’ultimo in merito al progetto del “nuovo tracciato in esterno” del Lotto 2.6.a Roddi-Diga Enel.

Il documento è, a giudizio dell’Osservatorio, un documento importante, redatto con cura, in alcuni punti di grande dettaglio, che accoglie le più importanti Osservazioni giunte al MiTE, nello scorso dicembre, da parte degli Enti e dei soggetti interessati all’opera, in primis la Regione Piemonte, i cui funzionari hanno avanzato Prescrizioni e Raccomandazioni di grande interesse, nonché dello scrivente Osservatorio.

È stato di nostra grande soddisfazione vedere accolta la richiesta di uno studio comparativo delle “alternative progettuali alle opere prese in esame” (quella in esterno, a confronto con il tunnel). Come pure, ad esempio, la prescrizione di identificare gli accorgimenti per non pregiudicare le possibilità di fruizione “lenta” del territorio (piste ciclo-pedonali) ovvero per garantire un alto livello qualitativo dei manufatti ed il loro miglior inserimento paesaggistico. Speriamo che il Politecnico di Torino che sta effettuando lo studio, dia la giusta dignità e peso a tutti gli elementi che permetteranno di addivenire alla definitiva scelta della linea esecutiva.

Continueremo a fare ogni possibile sforzo affinché l’autostrada sia completata al più presto, ma nel rispetto del territorio prezioso in cui viviamo.