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I diritti calpestati del suolo

Alessandro Mortarino, coordinatore nazionale del Forum Salviamo il Paesaggio

Spesso sono pervaso dalla netta sensazione che il suolo sia percepito come un semplice spazio: uno spazio da occupare. Sia, cioè, riconosciuto non per ciò che è ma per ciò che vorremmo fosse, relegando all'oblio il valore “vero” di questo elemento, in realtà prioritario ed essenziale per l'uomo e per la sua sopravvivenza.

Se anziché un semplice spazio da occupare lo considerassimo, innanzitutto, per la sua indispensabile utilità, oso immaginare che la sua piena tutela raccoglierebbe quell'attenzione oggi ancora negatagli e la sua compromissione (ogni centimetro di cemento, asfalto, materiale impermeabilizzante) raggiungerebbe un grado di sacralità da anteporre ad ogni occasione edificante. Provocando la domanda preventiva: è davvero così indispensabile condannare la “terra” alla perdita della sua naturalità, fertilità, godimento paesaggistico? Potremmo farne a meno?

Domande che oggi fatichiamo ad esprimere e, quando lo facciamo, risultano puntualmente successive ad un'azione che già ha aggredito la delicata vitalità del suolo, la pelle viva del pianeta Terra. Una pellicola fragile.

Nel suolo vivono miliardi di creature viventi, un quarto della biodiversità di tutto il pianeta. I soli microrganismi possono essere oltre un miliardo in un solo grammo di suolo, ma nello stesso grammo si possono contare oltre 10.000 specie diverse. Tutti questi organismi viventi sono fondamentali per la genesi e la fertilità dei suoli e contribuiscono al suo armonico sviluppo che richiede tempi lunghissimi: stiamo quindi parlando di una risorsa finita non rinnovabile e per questo preziosa almeno al pari dell’acqua, dell’aria e del sole.

Se volessimo riportare un terreno compromesso (asportando il cemento o asfalto che lo ricopre per l’intervento dell’uomo) alla sua “naturalità”, quanti anni dovremmo attendere?

Non anni, ma secoli: per formare 1 cm di suolo occorrono infatti dai 3 ai 4 secoli. E circa 3 mila anni per raggiungere uno spessore utile ai fini agricoli. Tempi di rigenerazione che dovrebbero farci riflettere e che non dovrebbero lasciare dubbi per decidere di avviare un processo di vera salvaguardia dei suoli naturali ancora esistenti.

La posta in gioco è davvero elevata e l'esponenziale consumo di suolo che ha caratterizzato gli ultimi 50 anni del nostro sviluppo non corrisponde neppure ad autentiche esigenze abitative: secondo l'Istat nel nostro Paese sono infatti presenti oltre 7 milioni di abitazioni non utilizzate, 700 mila capannoni dismessi, 500 mila negozi definitivamente chiusi, 55 mila immobili confiscati alle mafie. “Vuoti a perdere” che snaturano il paesaggio e le comunità a contorno, a fronte di un andamento demografico che vede la popolazione residente nel nostro Paese in riduzione costante dal 2014.

Dunque non dovrebbe essere giustificato continuare a trasformare “allegramente” le terre libere in colate di cemento e asfalto, che ricoprono ormai 21.500 km2 di suolo nazionale, dei quali 5.400 - una superficie grande quanto la Liguria - riguardano i soli edifici, che rappresentano il 25% dell’intero suolo consumato. Un consumo di suolo che risulta pari al 7,11% del territorio nazionale, rispetto alla media UE del 4,2%.

Ma non dimentichiamoci che la superficie dell'Italia è per circa il 35% di carattere montuoso, dove non è possibile edificare. Dunque la cementificazione ha eroso le aree di pianura, che rappresentano il 25% dell’intera superficie del nostro Paese e un'ampia parte di quel restante 40% di superficie fatto di colline sotto gli 800 metri. Luoghi ormai caratterizzati dai cartelli “vendesi” o “affittasi”...

Secondo l'ultimo Rapporto ISPRA, nel 2021 il consumo di suolo è tornato a crescere alla media di 19 ettari al giorno, il valore più alto negli ultimi dieci anni, a una velocità che supera i 2 metri quadrati al secondo, sfiorando i 70 km2 di nuove coperture artificiali in un solo anno.

Il rapporto ISPRA evidenzia anche quanto ci costa questo sproporzionato consumo di suolo in termini sociali. Le conseguenze sono anche economiche e i “costi nascosti”, dovuti alla perdita dei servizi ecosistemici che il suolo non è più in grado di fornire a causa della crescente impermeabilizzazione e artificializzazione degli ultimi otto anni, sono stimati in oltre tre miliardi di euro l’anno (che vanno ad aggiungersi ai costi fissi accumulati negli anni precedenti). Valori che sono attesi in aumento nell’immediato futuro e che potrebbero erodere in maniera significativa le risorse disponibili anche in base alle previsioni del programma Next Generation EU. Si può stimare, infatti, che se fosse confermato il trend attuale e, quindi, la crescita dei valori economici dei servizi ecosistemici persi, il costo cumulato complessivo, tra il 2012 e il 2030, arriverebbe quasi a 100 miliardi di euro, praticamente la metà dell’intero PNRR.

ISPRA stima un costo annuale medio per la perdita dei servizi ecosistemici (stoccaggio e sequestro di carbonio, qualità degli habitat, produzione agricola, produzione di legname, impollinazione, regolazione del microclima, rimozione di particolato e ozono, protezione dall’erosione, regolazione del regime idrologico, disponibilità di acqua, purificazione dell’acqua) compreso tra 66.000 e 81.000€ a ettaro, per il flusso di servizio che il suolo non sarà più in grado di assicurare e tra 23.000 e 28.000€ a ettaro, per lo stock di risorsa perduta. Complessivamente, quindi, tra 89.000 e 109.000€ l’anno per ciascun ettaro di terreno libero che viene impermeabilizzato.

Il consumo di suolo costa davvero tanto alle nostre comunità! E non solo sotto il profilo “ambientale”, ma anche sotto quello finanziario.

Il suolo è spesso considerato esclusivamente per le sue funzioni legate alle produzioni di alimenti, poiché ogni ettaro di terreno fertile, se coltivato, risulta in grado di sfamare 6 persone per un anno: stiamo parlando, in piccolo, di “sovranità alimentare”.

Il Ministero per le Politiche Agricole Alimentari e Forestali ci ricorda che il nostro Paese è in grado, oggi, di produrre appena l’80-85% del proprio fabbisogno primario alimentare, contro il 92% del 1991. Significa che se, improvvisamente, non avessimo più la possibilità di importare cibo dall’estero, ben 20 italiani su 100 rimarrebbero a digiuno e che quindi, a causa della perdita di suoli fertili, il nostro Paese oggi non è in grado di garantire ai propri cittadini la sovranità alimentare. Termine che, non a caso, è ora entrato a far parte della stessa denominazione del Ministero.

Ma il suolo è anche un elemento fondamentale per contrastare la crisi climatica: ogni ettaro di terreno fertile assorbe circa 90 tonnellate di carbonio ed è in grado di drenare 3.750.000 litri d’acqua: in questo particolare momento, a fronte di precipitazioni atmosferiche di portata sempre maggiori e di lunghi periodi siccitosi, il nostro suolo, oltre a drenare l’acqua piovana (contribuendo a contenere gli effetti di possibili inondazioni e alluvioni), ne conserva quanto basta per alimentare ciò che in esso vive e si sviluppa.

Credo che questi semplici dati (ne potremmo citare molti altri...) dovrebbero farci riflettere e iniziare a considerare il suolo e la sua salvaguardia come prima preoccupazione quotidiana. Invece assistiamo a puntuali “balletti” - guidati dalle decisioni politiche - che mirano a minimizzare e procrastinare un piano serio di tutela dei suoli liberi. Balbettii che negli ultimi anni – vissuti tra crisi pandemiche e venti di guerra - si sono moltiplicati, rendendo evidente come gli aspetti economici abbiano ormai egemonizzato il pensiero, relegando le questioni ambientali a un ruolo subalterno: se una “cosa” non produce PIL, può essere sacrificata...

Nel nostro caso, il consumo di suolo continua ad essere vissuto come un male accettabile. Come dimostra il caso della produzione di energia da fonti rinnovabili. La guerra tra Russia e Ucraina e la crisi energetica che ha toccato tutte le economie occidentali hanno reso urgente, in maniera drammatica, la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e indotto gli Stati ad accelerare lo sviluppo del settore delle energie “pulite” ricavate dal sole, dal vento, dall'acqua, dal mare. Mi verrebbe da dire: finalmente realizzati i sogni di tutto il pensiero ambientalista!

C'è, però, un “però”... E so di addentrarmi in un territorio minato, abitato da tanti dubbi e mille contrapposizioni, anche sul fronte dell' “ambientalismo” militante. La logica ricorrente è, infatti, quella di ritenere che l'obiettivo principale è slegarsi dalle fonti fossili e di farlo in fretta. Questo sta significando favorire lo sviluppo di impianti fotovoltaici a terra (privilegiando le grandi superfici e, dunque, i terreni naturali e fertili), di “parchi” eolici lungo i crinali, di centrali idroelettriche lungo i corsi d'acqua. E' la scelta giusta? Ed è un sacrificio che possiamo permetterci anche se queste scelte concorrono a danneggiare altri elementi primari come il suolo?

L’applicazione del Pnrr-Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima) prevede di  mettere “a terra” in meno di sei anni circa 15 GigaWatt (12 dal Piano con l’opzione “Power-up” e tre con misure ad hoc). Per questi soli 15 GigaWatt di solare potrebbero essere necessari tra i 10 e i 18mila ettari di suolo (agricolo) e complessivamente è stimabile un aumento del 50% del consumo di suolo annuale. Un rischio grave di ritrovarci con ancor meno suolo fertile a disposizione e meno paesaggi per “cibare” le nostre anime.

Se fossimo così avveduti da applicare anche a questo tema il principio "Do No Significant Harm" (DNSH) previsto dall'UE per il finanziamento degli interventi individuati dai PNRR nazionali, non dovrebbero esserci dubbi nell'evitare che la "caccia" alle energie pulite possa creare danni a una risorsa primaria come il suolo. Il principio chiede che non si arrechi nessun danno significativo ad alcuno di diversi obiettivi ambientali, compresa la biodiversità.

Il tema è, però, controverso. Ad esempio: in molti sostengono che il cosiddetto “agrivoltaico”  possa rappresentare una risposta corretta alla necessità di produrre energia rinnovabile tramite pannelli solari senza sottrarre terreni produttivi all’agricoltura e all’allevamento, ma bensì andando ad integrare le due attività. Energia, insomma, senza danneggiare le attività agricole.

Gli stessi equiparano, anche, la bellezza paesaggistica dei parchi eolici italiani con gli acquedotti dei romani o le cattedrali del Rinascimento, fino a dire che "le pale eoliche e le ferrovie ad alta velocità sono le nostre moderne cattedrali...".

Ma è così, davvero? Abbiamo necessità di mantenere e addirittura accrescere la disponibilità di energia oppure dovremmo innanzitutto pianificare una drastica azione di riduzione degli sprechi? E se, invece di intaccare suoli liberi e crinali e fiumi, ci impegnassimo a piazzare nuovi impianti su superfici già antropizzate/impermeabilizzate, quanta energia potremmo ricavare senza danneggiare altri elementi naturali primari?

Poche settimane fa due notizie importanti ci fanno sperare in una diversa attenzione ai diritti del suolo. A livello continentale il Consiglio e il Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo politico (provvisorio, in attesa di piena adozione) sull’aumento del contributo che il settore dell’uso del suolo, del cambiamento di uso del suolo e della silvicoltura (LULUCF-Land use, land-use change, and forestry) ) dovrà offrire agli obiettivi dell’UE in materia di clima.

Che cosa significa? Che, finalmente, la politica europea riconosce l'enorme ruolo ecosistemico del suolo e lo collega strettamente al contrasto del cambiamento climatico. Il suolo assume una prioritaria identità di “attore” strategico per il raggiungimento del “Fit-for-55”, cioè l’obiettivo che l’Unione Europea si è posto per raggiungere nel 2030 la riduzione delle emissioni di gas serra, pari al 55% rispetto all’anno 1990.

Per traguardare questo obiettivo, anche il suolo dovrà (e potrà) fare la sua parte. E l'accordo tra gli Stati europei la regola definendo un obiettivo generale a livello UE di 310 milioni di tonnellate di CO2 equivalente di assorbimenti netti solo grazie ai settori di competenza dell’accordo. Il settore LULUCF comprende l’uso di terreni, alberi, piante, biomassa e legname ed è responsabile sia dell’emissione che dell’assorbimento di CO2 dall’atmosfera. L’obiettivo è aumentare progressivamente gli assorbimenti e ridurre le emissioni in modo da raggiungere l’obiettivo a livello dell’UE, impegnando ogni Stato membro a perseguire un obiettivo nazionale vincolante assegnatogli, da conseguire entro il 2030. Potremmo definirlo un preciso “patto contrattuale”: ogni Stato UE conosce oggi in quale misura dovrà tutelare la primaria risorsa suolo ed è lecito credere che il suo consumo possa così tendere ai minimi termini.

In Italia, invece, è ritornata in Parlamento – alla Camera dei Deputati – la Proposta di Legge del Forum nazionale Salviamo il Paesaggio “Norme per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli urbanizzati“, ed è una bella notizia perché a (ri)presentarla è una eletta per il suo secondo mandato, che ha riconosciuto all'importante lavoro dell'intera Rete del Forum (oltre mille organizzazioni e decine di migliaia di aderenti individuali) non solo l'elevato valore “ambientale” ma anche la sua “forza” giuridica. La parlamentare è l’onorevole Stefania Ascari, avvocato quarantaduenne (Movimento 5 Stelle) che si è detta ben conscia delle difficoltà che la norma incontrerà sul suo cammino dopo essere stata incardinata nel 2018 in commissioni congiunte Ambiente e Agricoltura del Senato per poi essere gravemente “congelata” dalle pressioni di potenti lobbies. Che, evidentemente, ancora non hanno compreso come l'arresto del consumo di suolo e la salvaguardia del suolo italico ancora non antropizzato e compromesso, suggeriscano un pieno orizzonte di sviluppo per l’intero comparto edilizio orientato al recupero e riuso dell’ingente patrimonio esistente e non utilizzato anziché alle nuove costruzioni.

Incrociamo le dita e auguriamoci  che il suolo che abitualmente calpestiamo riesca a vedere affermati i suoi pieni diritti. Calpestati, fino ad oggi...

Una breve panoramica sul quadro normativo riguardante la gestione delle specie alloctone e considerazioni sulla conservazione dei pesci delle acque interne in Italia

Vincenzo Caputo Barucchi1, Andrea Gandolfi2, Andrea Splendiani1
1Università Politecnica delle Marche, Ancona
2Fondazione Edmund Mach, Trento

In quanto importante rifugio glaciale del Mediterraneo (1), l'Italia ospita una gamma unica di biodiversità, oggi profondamente alterata dalle pressioni antropogeniche. Circa il 30% dei vertebrati italiani è minacciato, con i pesci d'acqua dolce che raggiungono un picco del 50% (2). In particolare, le specie aliene e invasive di pesci d'acqua dolce costituiscono una grave minaccia per gli effetti diretti (per es. predazione) e indiretti (per es. competizione per le stesse risorse) su quelle native, rispetto alle quali sono diventate oggi più numerose su scala nazionale (3).

In attuazione della Direttiva Habitat della Commissione Europea del 1992 (4), l'introduzione di specie e popolazioni non autoctone è stata inizialmente consentita in Italia, previa richiesta al Ministero dell’Ambiente e conseguente autorizzazione, vincolata all’assenza di alcun pregiudizio agli habitat naturali, alla fauna e alla flora selvatiche locali (5); tale legge è stata modificata nel 2003 (6) in senso restrittivo – come peraltro contemplato nella Direttiva Habitat e demandato all’arbitrio degli Stati membri – vietando qualsiasi reintroduzione, introduzione e ripopolamento in natura di specie e popolazioni non autoctone. Nell’aprile 2020 – paradossalmente nel “super-anno della biodiversità” (7) – un Decreto ministeriale (8) ha reso attuativa, dettandone le modalità operative, una nuova modifica della legge (9): la diffusione di specie esotiche finalizzata sia al controllo biologico sia per ragioni motivate da un generico “significativo interesse pubblico" è autorizzabile e conseguentemente ammissibile. Tale nuova modifica, nata per rispondere innanzitutto alle esigenze del mondo dell’agricoltura proprio nell’ambito della lotta biologica, ha trovato un interesse e ulteriori ambiti applicativi anche da una consistente parte del comparto alieutico. La nuova legge, infatti, è stata inizialmente annunciata come una vittoria personale dal Presidente della principale Associazione italiana di pesca sportiva (10) nonché presidente della Federazione Internazionale di Pesca Sportiva in Acque Dolci (FIPSED).

Nell'ultimo decennio, prima dell’ultima modifica di legge ovvero in regime di divieto assoluto di introduzione di alloctoni in natura, centinaia di tonnellate di “trote pronto-pesca” esotiche e molti milioni di novellame di trote aliene (dei generi Salmo e Oncorhynchus) sono stati immessi annualmente dagli Enti locali nelle acque italiane, comprese le aree protette (11). La nuova modifica di legge consente l’immissione di specie di interesse alieutico solo previa autorizzazione del Ministero della Transizione Ecologica (MiTE, già Ministero dell’Ambiente) sulla base di attente valutazioni scientifiche. Inoltre, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) ha prodotto una lista delle specie di interesse alieutico native, su base regionale, che dovrebbe rappresentare uno strumento guida per le politiche gestionali locali (recependo la check list pubblicata dall’Associazione Italiana Ittiologi Acque Dolci) (12). Tuttavia, queste nuove disposizioni normative hanno generato, dopo l’iniziale euforia e grandi aspettative, un profondo malcontento nell’ambito delle Associazioni di pesca sportiva, sia in conseguenza dello status di alloctonia definito per alcune specie di grande interesse alieutico (ad es. trota fario atlantica e coregone), sia per l’istituzione di regole e criteri (definizione di tipologie e quantitativi ammissibili, studio del rischio, ecc.) cui nessuno era più abituato. Una costante pressione di una parte del mondo alieutico su tutti i partiti politici, pressoché di qualunque schieramento (cioè dal centro-destra al centro-sinistra), ha portato a svariate interrogazioni parlamentari, perlopiù basate su informazioni parziali e narrazioni fantasiose della realtà, fino a “congelare” la Lista dell’ISPRA: per effetto di un emendamento approvato e incluso nella Legge Finanziaria 234/2021 (art. 1 commi 835-838) (13), è stato infatti istituito presso il MiTE il ‘Nucleo di ricerca e valutazione’, composto da sei rappresentanti del MiTE, del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, di SNPA/ISPRA e da sei rappresentanti delle Regioni e delle Province Autonome, per definire quali siano le specie ittiche d’acqua dolce di interesse alieutico riconosciute come autoctone per regioni o per bacini fluviali.

Infine, l’ultimo tentativo di certa politica di accontentare le richieste ‘liberiste’ di una parte del mondo alieutico è stato rappresentato da un emendamento inserito nel Decreto milleproroghe (14) nel tentativo di sospendere l’articolo e il comma (art. 12, comma 3) del DPR 357/97 che, nella forma modificata e in vigore, sanciscono i limiti all’immissione delle specie esotiche. Fortunatamente, per un maldestro errore di forma, l’emendamento ha di fatto sospeso l’applicazione del comma 1 anziché del 3, vanificando così il tentativo del legislatore di facilitare le immissioni di specie alloctone.

Nel frattempo, tuttavia, molte Regioni continuano a immettere nei corsi d’acqua italiani la trota fario alloctona (Salmo trutta), di origine centro-europea, e la trota iridea (Oncorhynchus mykiss), di origine nord-americana, previa concessione di una deroga del MiTE (15) o ignorando in toto la normativa vigente.

Negli ultimi anni, alla trota fario atlantica e alla trota iridea si sono aggiunti gli stock domestici commercializzati come “trota mediterranea”. Questi stock, considerati in alcuni contesti come la soluzione per aggirare il divieto di introduzione delle trote alloctone, rappresentano in realtà un’ulteriore gravissima minaccia, per due principali motivi. Innanzitutto, in alcuni contesti geografici le presunte trote mediterranee (Salmo cfr. ghigi) vengono introdotte in natura al di fuori del proprio naturale areale di distribuzione. Inoltre, come già descritto in alcune pubblicazioni scientifiche, questi stock commerciali sono ottenuti dall’incrocio di diverse linee genetiche, sia native in alcune regioni italiane sia alloctone, e quando vengono immessi in natura si ibridano con le popolazioni locali (ad esempio con la trota marmorata, Salmo marmoratus), con il conseguente “mescolamento” dei tratti genetici (fenomeno noto come “introgressione”). Il trasferimento di trote da una regione all’altra (transfaunazione) finisce così con l’alterare drasticamente la struttura genetica e demografica delle popolazioni naturali, frutto di millenni di evoluzione e adattamento alle condizioni ambientali locali, pregiudicandone la sopravvivenza a lungo termine. Per esempio, è stata riscontrata la presenza di genotipi endemici del versante tirrenico dell’Appennino in un allevamento presente all’interno del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, sul versante adriatico (11); mentre nella Regione alpina centro-orientale, dove la presenza nativa di trota fario mediterranea non è storicamente documentata (16), ormai da anni vengono transfaunate trote mediterranee di provenienza appenninica per scopi alieutici (17).

Infine, come evidenziato in un documento pubblicato alcuni anni or sono a cura dell’Unione Zoologica Italiana (18), il danno arrecato da queste massicce immissioni ittiche non si limita all’alterazione dell’integrità genetica della trota mediterranea nativa, ma ha un impatto sulle comunità macrobentoniche (insetti, crostacei e altri invertebrati), sulle popolazioni di anfibi e sui pesci ciprinidi (che includono alcune specie endemiche del territorio nazionale), che costituiscono le prede di elezione delle trote aliene e native, con conseguenze ecologiche irreversibili su una compagine faunistica ancora lungi dall’essere completamente conosciuta. Basti citare, in proposito, la recente scoperta nel torrente Sanguerone (affluente del fiume Sentino, nelle Marche, Fig. 1), di una popolazione relitta di sanguinerola (Phoxinus lumarieul), un ciprinide diffuso nel bacino del Po, la cui distribuzione geografica si riteneva limitata all’Italia settentrionale (Fig. 2). Come mai questo pesciolino lungo pochi centimetri è presente in una zona distante centinaia di chilometri dal suo areale noto di distribuzione (Fig. 3)?

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Arcipelago Toscano: il ritorno della foca monaca

Gianni Marucelli

Il Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano, ai primi di settembre scorso, ha allietato gli amanti della natura con un'ottima notizia: la conferma, testimoniata da un breve video realizzato a infrarossi, del ritorno della rarissima foca monaca (Monachus Monaschus) all'Isola di Capraia, proprio nella grotta che da essa prende il nome.
Situata sul versante occidentale, il più aspro, e quindi impossibile da raggiungere via terra, la cavità ha costituito nei secoli un rifugio sicuro per questo pinnipede, non tanto però da metterlo al riparo dalle incursioni dell'uomo, che lo ha perseguitato sia in quanto “concorrente” dei pescatori locali, sia in ragione della sua appetibilità come animale “da circo”, facilmente addestrabile.

Se la foca monaca era ormai assente da vari decenni dalle isole dell'Arcipelago Toscano, pur tuttavia gli avvistamenti in anni recenti non mancavano: presso l'Isola del Giglio, ad esempio.
Ma, almeno da due anni, essi riguardavano principalmente Capraia; la presenza dell'animale è stata dapprima accertata dalla visita di una ricercatrice alla Grotta, poi dall'analisi del materiale biologico reperito , naturalmente “in assenza” dell'inquilino, e infine dal posizionamento di una telecamera agli infrarossi nell'oscurità dell'anfratto, che ha permesso le eccezionali riprese senza interferire con la tranquillità dell'animale (le immagini sono facilmente reperibili su Internet).
Il tratto di costa era comunque già stato inibito a qualsiasi natante, con provvedimento del Parco.

La foca monaca in passato era diffusa in tutto il Mediterraneo: deve il suo nome al colore bruno del mantello, assai simile a quello del saio di un monaco. Come tutte le foche, è agilissima in acqua quanto impacciata nei movimenti a terra; tuttavia, ha bisogno di luoghi tranquilli a riva per mettere al mondo e allattare i suoi cuccioli.
Di dimensioni notevoli, il maschio può raggiungere e superare 300 kg. di peso, con una lunghezza di oltre i due metri; è una creatura che nel mare trova il suo habitat ideale. È in grado di immergersi a 90 metri e oltre di profondità, non solo per cacciare le sue prede, ma anche per riposare a lungo in apnea.
In Italia la si trovava non solo in Sardegna e presso le isole minori, ma più o meno su tutta la costiera, sia tirrenica che adriatica, dove ancora oggi ogni tanto si segnalano avvistamenti.

La specie, secondo la UICN, è ad alto rischio di estinzione: si calcola che gli individui presenti nel bacino del Mediterraneo (soprattutto nelle isole greche e sulle coste della Turchia) non superino le settecento unità; la situazione è resa ancor più critica dal fatto che non esistono più colonie vere e proprie, ma solo gruppi familiari in cui i giovani, raggiunta l'età adulta, vanno poi “in dispersione”, con scarse possibilità di trovare nuovi gruppi ai quali aggregarsi.
La compromissione degli habitat, marini e ancor più terrestri, è tra le cause fondamentali della rarefazione della specie; verso la fine degli anni '70 del secolo scorso, si supponeva che l'estinzione della foca monaca fosse prossima, da prevedere all'inizio del nuovo millennio.
Fortunatamente, così non è stato. È probabile che i calcoli relativi alla consistenza numerica della specie fossero errati, ma è anche vero che l'attenzione della comunità scientifica verso questi mammiferi marini e la loro tutela si è di molto accresciuta.
Certamente, episodi come quello riportato dalla Gazzetta Patria di Firenze, uscita sabato 13 dicembre 1766, che narrava come un Vitello di mare fosse stato catturato nei pressi di Capraia e portato in dono al Granduca (ma morì prima di raggiungere la capitale), non avvengono più. Così come nelle isole toscane non esistono più “cacciatori specializzati nella cattura di foche”, che comunque hanno operato nella prima metà del '900 e ci hanno lasciato la descrizione della cattura di una “mamma foca” col suo piccolo, da commuovere anche il cuore più indurito...

Le foche partoriscono in autunno: sarebbe meraviglioso se, prima o poi, la “nostra” foca capraiese ci facesse una bella sorpresa!

Uomo e cinghiale, un rapporto difficile

Domenico Fulgione
Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Napoli Federico II

Questa storia inizia un milione di anni fa, quando per il Paleartico gironzolavano diverse forme di cinghiale. Il nostro Sus scrofa invadeva l’occidente, un suo parente stretto, Sus strozzi, che già frequentava la zona, si sarebbe speciato in Sus celebensis (poi finito a Solowesi), e Sus verrucosus, che segregò a Giava.
In quel periodo, noi sapiens non eravamo ancora usciti dall’Africa, comunque nostri lontani parenti già cacciavano e consumavano grossi mammiferi. Homo erectus non aveva particolare interesse per questi suidi, ritrovati solo per l’1% nei resti di questo abile cacciatore.
Homo erectus pare fosse molto attratto dai mammut, strano a pensare, ma probabilmente avevano carni più saporite e e riempivano più dispense.

Con l’avvento del Neanderthal le cose cambiano di poco: i resti di cinghiale nei ritrovamenti di questo ominide si aggirano intorno al 9%. Si deve andare a 120 mila anni fa per osservare la prima ondata di sapiens in Europa, questi amano utilizzare le mandibole dei cinghiali nelle cerimonie sacre (ritrovate nei pressi dell’attuale Turchia). Sebbene sembra ancora non piaccia particolarmente, la percentuale di ossa di cinghiale negli insediamenti oscilla tra 1 e 5 %.

Sapiens, lo sappiamo, è di bocca buona, ma neanche lui sembra volersi cimentare con quelle dure e pericolose bestiacce. La carne doveva essere legnosa e poco saporita, rispetto a quella degli attuali animali, forse come quella dei facoceri, suini africani praticamente immangiabili, se si fa eccezione per giovani e femmine, che sono utilizzati in Polonia per una specie di salsiccia impastata con grasso di maiale, il kabanosi. Oltre a non essere apprezzati come pasto, probabilmente erano prede poco accessibili. Molto difficili da catturare, anche oggi i cacciatori sanno che devono assestare bene il colpo, perché in molti casi la pallottola è fermata dalla spessa corazza costituita di pelo e fango. E che un animale ferito è meglio evitarlo. Non possiamo escludere nemmeno fossero animali  feroci, se si considera che un eroe come Ulisse, se poteva vantarsi di una ferita significativa, era quella inferta da un cinghiale.

Con il periodo neolitico le cose cambiano rispetto a quello dei cacciatori-raccoglitori. Sboccia l’amore, cinghiali resi mansueti vengono domesticati in maiali, che abitano in pianta stabile villaggi e seguono carovane migranti.
A differenza di capre, mucche e pecore, i cinghiali non sono ruminanti, che trasformano la produttività primaria, i vegetali, in carne, pelliccia e latte. I maiali incarnano un ruolo nuovo e insostituibile. Loro sono quelli che trasformano in carne e pellame la spazzatura, gli scarti alimentari che si accumulavano ai bordi dei villaggi. Un sorta di primo riciclaggio della frazione umida.

Passano i millenni e la pratica di domesticare il cinghiale in gustosissimo maiale viene esportata per il Mediterraneo ed oltre. I maiali sono molto prolifici, arrivano a sfornare 12 cuccioli, in diversi periodi dell’anno. Così serve all’uomo. I cinghiali continuano ad ibridarsi con i maiali, trascinando alcuni tratti domestici nelle popolazioni selvatiche, la prolificità per esempio.

Con questa sorta di accettazione della bestia che non era mai piaciuta, il cinghiale inizia pian piano a rientrare nel carniere delle varie popolazioni del Mediterraneo. La caccia al cinghiale diventa divertente, e lo resterà per parecchio tempo. A questo punto si aggiunge una nuova e potente variabile: la transfaunazione. Popolazioni di cinghiale vengono spostate nel mondo perché possano essere cacciate. Inizia una sorta di rimescolamento che spariglia il pattern di variazione che si era definito a seguito di eventi evolutivi graduali, a seguito delle glaciazioni e altri fenomeni globali. Cinghiali balcanici compaiono nel rifugio italiano o in quello iberico, forme asiatiche iniziano a popolare le isole del Mediterraneo, e altri disastri di questo tipo in onore della dea Diana.

Di solito le popolazioni “spostate” non sempre trovano le condizioni ideali per insediarsi e crescere. Ma i cinghiali sono animali adattabili, potremmo dire addirittura pre-adattati. Si! Hanno una marcia in più. Per esempio, i piccoli sviluppano i recettori olfattivi già al cinquantesimo giorno di gestazione, quasi a metà dello sviluppo, per altri mammiferi bisogna aspettare le fasi finali che precedono la nascita . Attraverso il liquido amniotico, i futuri cinghiali percepiscono le varie sortite ambientali della madre, i cibi che assaggia, gli odori della natura. Quando, poi, questi ben istruiti cinghialotti verranno alla luce, avranno già un’idea di come è il mondo che li aspetta. Potranno così facilmente colonizzare nuovi territori.

Ma facciamo un po’ d’ordine, popolazioni pre-adattate, prolifiche per vari eventi di ibridazione con la forma domestica, rimescolate tra le varie forme paleartiche: tutto questo in un paesaggio che periodicamente cambia e a volte a loro favore. Infatti, in diversi periodi storici hanno ricevuto un altro importante assist dalla nostra specie, l’abbandono delle aree interne. Oggi, come durante il Medioevo, le grandi metropoli, come la struttura concentrata delle Città-Stato e dei Comuni fortificati, ha lasciato spazio all’avanzare del bosco e della foresta. Solo in Italia, dagli anni 50, le foreste sono aumentate di oltre il  70%. L’uniformarsi del paesaggio, unitamente alla persecuzione del principale predatore del cinghiale, il lupo, ha dato un impulso straordinario alle popolazioni di questo suide, che stanno vivendo un picco demografico, probabilmente senza precedenti.

Il lupo adesso pian pano si sta riprendendo, ma la sua preda ora è difficile da controllare, o forse no. Comunque, la natura è ciclica e vive di alti è bassi. Riconoscerli, anticiparli, significa avere la possibilità di gestire adeguatamente il patrimonio che lasceremo alle future generazioni.

L’attualità ci racconta di cinghiali che entrano nei supermercati, di cinghiali che strappano la busta della spesa alle signore per strada e di popolazioni estese senza limiti che escono dai boschi. Non c’è dubbio che sia una specie problematica nelle dimensioni attuali, non a caso si applicano sistemi di controllo anche nelle aree Parco. Sono diverse le aree protette italiane ed europee che hanno autorizzato un prelievo selettivo per “controllare” la popolazione di ungulati e decrementare i danni alle colture agricole. In alcuni fantasiosi casi si tentano catture o si sperimentano tecniche di sterilizzazione. Non pensando che le azioni gestionali devono fare i conti con l’impatto sui sistemi naturali nel loro insieme e che la normativa attuale sul benessere animale impone delle azioni sugli animali vivi che rendono impraticabili queste iniziative. Purtroppo l’emergenza cinghiale è anche foriera di strumentalizzazioni politiche, che tendono a spostare il consenso dagli attuali gestori verso nuove classi dirigenti. Manca una politica coordinata alla scala in cui esiste il problema, le varie iniziative sono spot che non cambiano l’equilibrio, sia in termini ecologici che relativamente alla dimensione umana, elemento tutt’altro che trascurabile, elemento su cui sarebbe necessario lavorare. L’insofferenza delle popolazioni umane verso la fauna selvatica è figlia di una cattiva educazione e informazione sulle funzioni ecosistemiche e le implicazioni etiche. Purtroppo siamo ancora immersi in una concezione uomo contrapposto al selvatico, il nostro e il loro territorio, il “diritto” di camminare per boschi senza adottare le precauzioni dovute. Probabilmente, è necessario lavorare su due fronti, da una parte cambiare, almeno nelle generazioni future, questo cattivo rapporto con la fauna selvatica, accrescendo la cultura, la divulgazione e il coinvolgimento nei progetti di conservazione dei giovani e delle popolazioni locali in genere. Dall’altra, devono essere individuati i motori ecologici, etologici ed evolutivi che hanno condotto a questa particolare condizione emergenziale, per definire le azioni utili a mitigare l’impatto. Consapevoli che conoscendo i fenomeni è anche possibile prevederne l’evoluzione a breve e lungo termine. Perché la natura è ciclica, secondo una periodicità che non è quella dei nostri tempi: a volte basta solo aspettare.

Alcune letture a cui fa riferimento il testo:

Fulgione, D.; Buglione, M. The Boar War: Five Hot Factors Unleashing Boar Expansion and Related Emergency. Land 2022, 11, 887.

Fulgione, D.; Rippa, D.; Buglione, M.; Trapanese, M.; Petrelli, S.; Maselli, V. Unexpected but welcome. Artificially selected traits may increase fitness in wild boar. Evol. Appl. 2016, 9, 769–776.

Maselli, V.; Rippa, D.; Deluca, A.; Larson, G.; Wilkens, B.; Linderholm, A.; Masseti, M.; Fulgione, D. Southern Italian wild boar population, hotspot of genetic diversity. Hystrix Ital. J. Mammal. 2016, 27, 137–144.

Maselli, V.; Polese, G.; Larson, G.; Raia, P.; Forte, N.; Rippa, D.; Ligrone, R.; Vicidomini, R.; Fulgione, D. A Dysfunctional Sense of Smell: The Irreversibility of Olfactory Evolution in Free-Living Pigs. Evol. Biol. 2014, 41, 229–239.

Fulgione, D.; Trapanese, M.; Buglione, M.; Rippa, D.; Polese, G.; Maresca, V.; Maselli, V. Pre-birth sense of smell in the wild boar: The ontogeny of the olfactory mucosa. Zoology 2017, 123, 11–15.

Buglione, M.; Troisi, S.R.; Petrelli, S.; van Vugt, M.; Notomista, T.; Troiano, C.; Bellomo, A.; Maselli, V.; Gregorio, R.; Fulgione, D. The First Report on the Ecology and Distribution of the Wolf Population in Cilento, Vallo di Diano and Alburni National Park. Biol. Bull. 2020, 47, 640–654.

Frantz, L.A.F.; Haile, J.; Lin, A.T.; Scheu, A.; Geörg, C.; Benecke, N.; Alexander, M.; Linderholm, A.; Mullin, V.E.; Daly, K.G.; et al. Ancient pigs reveal a near-complete genomic turnover following their introduction to Europe. Proc. Natl. Acad. Sci. USA 2019, 116, 17231–17238.

Lega, C.; Raia, P.; Rook, L.; Fulgione, D. Size matters: A comparative analysis of pig domestication. Holocene 2016, 26, 327–332.

I risultati del monitoraggio del lupo nelle regioni dell’Italia peninsulare 2020/2021. Un commento.

Ettore Randi
Unione Bolognese Naturalisti (UBN)

In conseguenza dei grandi cambiamenti socioeconomici che hanno interessato l’intera Europa e, per certi aspetti in misura ancor maggiore, l’Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, estese regioni di montagna e collina, così come pure aree agricole poco produttive, sono state progressivamente abbandonate dall’uomo. Si è avviata una transizione ecologica, in buona parte spontanea, in piccola parte gestita, che ha portato a una rapida espansione di foreste, boschi e superfici incolte di vario tipo, ricostituendo ecosistemi in evoluzione in territori dai quali essi erano scomparsi da tempo. L’espansione delle foreste europee ha marciato al ritmo del 9% negli ultimi 30 anni, coprendo circa 230 milioni di ettari, il 30% della superfice terrestre dell’EU. Il patrimonio forestale si è accresciuto ancor più estesamente in Italia, aumentando del 75% negli ultimi 80 anni e ricoprendo il 40% circa della superfice terrestre (State of Europe’s Forests 2020. https://foresteurope.org/state-of-europes-forests/). Foreste e superfici verdi di vario tipo servono non solo a metabolizzare CO2 rilasciando ossigeno in atmosfera, ma anche, e forse soprattutto, ricostituiscono ecosistemi che vengono rapidamente colonizzati da innumerevoli popolazioni di piante, funghi e animali. Il report di Rewilding Europe “Wildlife Comeback in Europe: Opportunities and challenges for species recovery” (Ledger et al. 2022), appena pubblicato, documenta le tendenze demografiche di 50 specie di vertebrati (24 mammiferi, 25 uccelli e un rettile), tendenze che appaiono in buona parte positive a seguito dell’espansione sia degli areali che dell’abbondanza delle loro popolazioni. Molte di queste specie, soprattutto mammiferi, vivono associati ad ambienti forestali. Fra loro, il lupo. Il report di Rewilding Europe ci dice che gli areali e le dimensioni delle popolazioni europee di lupo sono in aumento al ritmo di circa l’1,9% all’anno. Si stima che attualmente (2022) vivano in EU almeno 20.000 lupi, suddivisi, per opportunità gestionali, in circa 10 popolazioni: penisola iberica nord-occidentale, regione alpina, penisola italiana, Alpi Dinariche e Balcani, Carpazi, regioni baltiche, Carelia, Scandinavia, Russia europea ed Europa centrale. Queste popolazioni in realtà non sono isolate, ma sono quasi ovunque connesse da lupi in dispersione e dal conseguente flusso genico (Figura 1).

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Il monitoraggio nazionale del lupo nelle regioni alpine nel 2020-2021

Francesca Marucco
Università di Torino, Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi – DBIOS

La necessità di dati oggettivi sulla distribuzione e consistenza del lupo in Italia ha portato nel 2020 il Ministero dell’Ambiente ad incaricare ISPRA dell’attuazione del primo monitoraggio nazionale della specie, avvenuto per l’annata 2020-2021. Impresa epica che ha coinvolto migliaia di operatori e volontari formati in tutta Italia nella raccolta di dati standardizzati volti alla stima della presenza della specie. Il Progetto LIFE WolfAlps EU (www.lifewolfalps.eu) insieme a tutte le Regioni alpine ha contribuito a questo primo monitoraggio nazionale, coordinando il lavoro a scala alpina grazie all’Università di Torino (DBIOS) e al Centro referenza grandi carnivori del Piemonte. Questo monitoraggio ha coinvolto per la prima volta in maniera coordinata a scala nazionale una rete di operatori di Parchi regionali e nazionali, Province, Regioni, Carabinieri-Forestali, volontari, Associazioni che costituiscono ora un patrimonio unico, fondamentale non solo per la raccolta di dati scientifici sulla presenza del lupo e per una gestione ottimale della specie, ma anche per la conservazione dell’intera biodiversità italiana.

Contare i lupi, e ancora di più̀ i branchi, è molto complesso, perché i lupi si muovono su ampi territori e sono molto difficili da vedere e da campionare, anche per il più̀ esperto dei ricercatori. Il monitoraggio su larga scala è quindi svolto tramite la combinazione di metodi non invasivi, ovvero che non richiedono la cattura dell’animale: lo snow-tracking, l’analisi genetica sugli escrementi raccolti e il fototrappolaggio. Gli escrementi e le tracce di lupo vengono ricercati dalla rete di operatori percorrendo transetti (cioè̀ percorsi standardizzati su sentieri o strade) distribuiti su tutta l’area di interesse. Lo snow-tracking, ossia la tecnica di seguire le tracce di lupo nella neve con l’utilizzo di racchette o sci da alpinismo, viene molto sfruttato sulle zone montane in inverno. La raccolta degli escrementi di lupo è fondamentale per stimare il numero di lupi e seguire i loro spostamenti, perchè dagli escrementi è possibile ricavare il DNA utile a identificare il genotipo dei singoli animali per identificarli individualmente. Per coadiuvare le tecniche appena descritte, infine, vengono allocate fototrappole grazie a cui si ottengono fotografie e video del lupo nell’area di interesse. Infine tutti questi dati raccolti sono poi analizzati con modelli statistici per quantificare l’abbondanza della specie, cercando di stimare l’intera popolazione presente. Lo studio ha infatti richiesto l’integrazione di avanzate tecniche di indagine sperimentale sulla specie con i più recenti modelli di cattura-ricattura spaziale realizzati grazie a collaborazioni con la comunità scientifica internazionale. Tutto il campionamento è avvenuto in maniera coordinato e omogeneo sull’intero territorio nazionale, grazie all’adozione di un approccio scientifico comune, descritto nelle “Linee Guida e Protocolli per il monitoraggio del lupo in Italia” (https://www.isprambiente.gov.it/files2020/notizie/linee-guida-e-protocolli_monitoraggio_lupo.pdf). Nelle regioni alpine, in considerazione della conoscenza pregressa della specie e della rete coordinata di monitoraggio già esistente, attiva in modo continuativo dal 1999 al 2021, si è optato per il campionamento ambizioso del 100% del territorio. Come accennato, il Centro di referenza Grandi Carnivori (CGC) e l’Università di Torino (DBIOS) in contatto e in sinergia con ISPRA, hanno coordinato le regioni alpine e i partners del Progetto LIFE WOLFALPS EU, dando indicazioni sulla modalità di formazione degli operatori, sul campionamento, sulla raccolta ed archiviazione dei dati. Il coordinamento delle regioni alpine è stato concretizzato, quindi, con la creazione di un gruppo tecnico di referenti regionali, che hanno lavorato in modo sinergico e congiunto per la realizzazione del campionamento. Sono stati realizzati, tra settembre e novembre 2020, un totale di 25 eventi formativi. Il gruppo di personale istituzionale e volontario, che ha ricevuto una formazione specifica, costituisce ancora oggi il “Network Lupo Regioni Alpine”, operativo in modo continuo e capillare sul territorio per la raccolta di tutti i dati utili al monitoraggio della specie, che contribuisce sia al campionamento opportunistico (sempre e ovunque), sia al campionamento sistematico invernale lungo i transetti e/o con le fototrappole. Hanno partecipato al campionamento un totale di 1513 operatori del Network, afferenti a 160 Enti/Associazioni. Numerosissimi sono stati i dati raccolti: sono stati percorsi dagli operatori un totale di 40725 km e registrati 10672 dati di presenza attribuiti al lupo. In particolare, sono stati documentati 5636 escrementi, seguite 1604,5 km di tracce di lupo, catalogati 3226 video/foto. Sono inoltre stati recuperati 71 lupi morti. Molti dei campioni sono stati analizzati geneticamente da 5 laboratori di genetica tra loro coordinati, per un totale di 792 campioni analizzati con successo, che hanno fornito il profilo genetico dell’individuo (genotipo). Questi dati sono stati utilizzati per documentare le storie di ricattura dei singoli individui, indispensabili per la stima della consistenza della specie. I campioni, risultano associati a 449 genotipi unici, quindi a 449 lupi diversi (222 femmine; 213 maschi; 14 NA), che risultano essere la stima minima degli individui presenti in modo certo.

Grazie a questi dati, la distribuzione del lupo è stata stimata di 41600 km2 (37% del totale del territorio delle regioni alpine, quindi molte aree sono ancora libere). Il territorio montano delle regioni occidentali è quasi completamente occupato e i segni di presenza certi sono ormai confermati e frequenti anche in aree collinari e di pianura, dove la specie si è insediata stabilmente. Nel resto delle Alpi centro-orientali, seppur sia evidente l’espansione rispetto agli anni precedenti, in particolare lungo la fascia trentino/veneta, ci sono ancora molte aree alpine, sia di ambiente montano che pedemontano, dove il lupo non è stato ancora documentato. La stima della consistenza della specie è stata stimata di un minimo di 102 branchi e 22 coppie, la maggior parte dei quali presenti nella porzione occidentale. Nelle regioni centro-orientali 12 branchi, dei 25 documentati, sono di tipo transregionale presenti tra trentino e veneto. Vista l’elevata presenza di questi branchi transregionali, diventa difficile l’attribuzione di un branco o un numero di lupi a un unico territorio amministrativo, considerando la grandezza dei territori e le capacità di spostamento tipiche della specie. Questo esercizio è pertanto privo di significato dal punto di vista biologico per branchi condivisi tra zone ad alta frammentazione amministrativa. Per questo i numeri devono essere letti in primis in un’ottica d’insieme, successivamente, per facilità di interpretazione si sono distinte le due parti caratteristiche della popolazione delle regioni alpine: la parte centro-est e la parte centro-ovest. Con questa distinzione, biologicamente più corretta, il totale del numero di unità riproduttive per il centro-est delle regioni alpine è di 33 branchi/coppie, ed il centro-ovest di 91 branchi/coppie. Infine, grazie al campionamento genetico non invasivo intensivo e la quantificazione dello sforzo di campionamento, è stato possibile applicare modelli spaziali di cattura-ricattura per la stima esaustiva della consistenza della popolazione di lupo, con la collaborazione di tre Università specialistiche in materia (Norwegian University of Life Sciences, Università di Torino e Università di Chester). L'abbondanza dei lupi per l'intera area di studio (619550 km2), che comprende tutte le regioni italiane alpine, durante l'inverno 2020-2021, è stata stimata quindi di 946 individui (CI95%: 822-1099). Tutti i dettagli del lavoro sono riportati nella relazione “La popolazione di lupo nelle regioni alpine italiane” (https://www.isprambiente.gov.it/it/attivita/biodiversita/monitoraggio-nazionale-del-lupo/file-monitoraggio/report-nazionale-lupo-regioni-alpine-20_21.pdf).

In conclusione, la raccolta di dati di presenza del lupo, realizzata a scala nazionale in contemporanea per la prima volta nell’inverno 2020-2021, ha restituito una stima diretta di distribuzione e consistenza della specie, per la prima volta realizzata a scala italiana. Queste stime sono accompagnate da valutazioni quantitative di precisione (gli intervalli di confidenza), dato più raramente apprezzato dal grande pubblico, ma importantissimo e imprescindibile per la corretta interpretazione dei risultati, fondamentale per la pianificazione di future attività di raccolta dei dati e gestione della specie. In particolare, la limitata ampiezza degli intervalli di credibilità relativi alla stima della consistenza rappresenta un punto di forza dei risultati ottenuti per la rilevazione di variazioni significative future. Con questo lavoro, si è così superata la frammentazione amministrativa e metodologica, caratteristica dell’Italia, realizzando sotto il coordinamento di ISPRA un’unica indagine. Il campionamento ha comportato uno sforzo logistico, tecnico e di coordinamento molto ingente, che ha coinvolto operatori, istituzioni e associazioni di tutta Italia, che hanno collaborato per creare un network di operatori presenti in modo capillare e costante sul territorio nazionale. La creazione di una rete nazionale di operatori formati è uno dei risultati più importanti di questo lavoro, patrimonio importante per la conservazione della biodiversità a scala nazionale nel lungo termine.

Le nostre responsabilità nella deforestazione in Sud America

Piero Belletti

Che la situazione ambientale nel nostro Pianeta sia drammatica è cosa che, in tutta onestà, nessuno può mettere in dubbio. Così come è innegabile la responsabilità di ciascuno di noi nel contribuire alla distruzione di quel poco di natura che ancora è rimasta. Magari inconsciamente, ma ognuno di noi fa la sua parte.

Ce ne dà una chiara dimostrazione una studio effettuato da alcune ONG (“Fair Watch”, “Periodistas per el planeta”, “Madre Brava” e “Somos Monte Chaco”) sui rapporti tra deforestazione in Argentina e allevamento industriale in Europa. I risultati dello studio, curato da Nico Muzi, Riccardo Tiddi, Marina Aizen e consultabili sul sito https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2022/09/soia_chaco_ita_def.pdf, mostrano una realtà drammatica, anche se probabilmente poco percepita dai cittadini dei Paesi più ricchi, e ci inchiodano nelle nostre pesanti responsabilità.

La protagonista di questa vicenda è la soia, o meglio la farina che si ottiene macinando i suoi semi e che, essendo ricchissima in proteine, rappresenta la base per l’alimentazione di molti animali domestici. L’Italia produce meno di un quinto dei 3,2 milioni di tonnellate di farina di soia che utilizza nei suoi allevamenti intensivi. Il resto viene importato, per la maggior parte da Paesi dell’America, sia del nord (Stati Uniti), che del sud (Brasile, Paraguay ma soprattutto Argentina, con oltre 1,2 milioni di tonnellate). Tra l’altro, si tratta nella maggior parte dei casi di soia geneticamente modificata, quella la cui coltivazione è vietata nel nostro Paese, ma che entra comunque nella nostra alimentazione seguendo la via indiretta del consumo animale.

Ma l’aspetto ancor più preoccupante riguarda il fatto che per produrre queste enormi quantità di soia si procede al disboscamento sistematico di aree forestali o comunque naturali. È stato calcolato che, a partire dal 1996 (anno in cui la Monsanto lanciò sul mercato la sua soia OGM resistente al diserbante Roundup, a base di glifosato, guarda caso, prodotto dalla stessa Monsanto…), ben 14 milioni di ettari del Gran Chaco, una superficie più vasta della Campania, sono stati distrutti. Il Gran Chaco è una vasta regione contraddistinta da clima relativamente secco che si estende tra Argentina, Bolivia, Brasile e Paraguay, caratterizzata da una copertura forestale primaria e che ospita specie animali di grande valore naturalistico e protezionistico (come il lupo dalla criniera, il formichiere, l’armadillo, il tapiro, il giaguaro, ecc.), ma che si sta rapidamente riducendo, a causa soprattutto dell’espansione dell’attività agricola. Attività agricola che riguarda in massima parte proprio la coltivazione di soia, da destinare poi all’esportazione. Rendendo così noi occidentali, che quella soia importiamo per nutrire gli animali dei cui prodotti ci cibiamo, corresponsabili in quello che può essere definito un vero e proprio biocidio. Con conseguenze drammatiche anche sul clima. Infatti, non solo la foresta eliminata non è più in grado di assorbire CO2 e rilasciare ossigeno, ma la sua distruzione, che avviene quasi sempre ad opera del fuoco, libera in atmosfera quantità impressionanti di sostanze climalteranti. Poi avvengono i disastri, come quello recentissimo nelle Marche, e noi ancora a chiederci il perché…..

Ma torniamo al problema dell’importazione di farina di soia. L’Unione Europea, a novembre dello scorso anno, ha elaborato una proposta di Regolamento contro l’importazione di prodotti ottenuti a seguito della distruzione delle foreste naturali o comunque ottenuti a seguito di violazioni dei diritti umani. Secondo tale norma, gli importatori dovrebbero dimostrare, ad esempio, che i prodotti da loro commerciati non sono stati ottenuti su terreni disboscati di recente. A metà settembre il Parlamento Europeo ha approvato a larghissima maggioranza la proposta, rendendola addirittura più stringente rispetto a quanto emerso dal Consiglio dell’Ambiente dell’Unione lo scorso 28 giugno. I concetti di “deforestazione” e “degrado forestale” sono infatti stati resi più stringenti rispetto alle blande definizioni stabilite dal consesso dei Ministri per l’Ambiente, mentre l’elenco di prodotti interessati dal Regolamento è stato ampliato, aggiungendo a olio di palma, soia, caffè, cacao, legname e carne bovina anche gomma, mais ,pollame, carne suina e caprina, carta. Molto importante anche la norma che estende le responsabilità previste dal Regolamento a banche e altre istituzioni finanziarie europee, i cui investimenti non potranno riguardare progetti e società coinvolte nella distruzione delle foreste.

Naturalmente, le lobbies degli importatori hanno contestato la decisione europea, potenziando la loro attività per ostacolare l’applicazione del Regolamento, minacciando “gravi aumenti di prezzi e problemi di disponibilità per cereali e mangimi”.

Qualcuno potrebbe obiettare che con la coltivazione di aree boscate si garantisce lavoro e reddito a una delle popolazioni più povere del mondo. Come al solito le cose non stanno così: la trasformazione delle foreste in aree agricole non avviene ad opera delle popolazioni locali, bensì di grandi imprese, spesso a carattere multinazionale, che addirittura scacciano con la violenza le popolazioni indigene dalla loro terra. È quanto è capitato, con riferimento all’area del Gran Chaco, alle etnie Wichì, Pilagà, Qom, Vilela, Moqoit, giusto per fare solo alcuni esempi, che sono andate ad accrescere l’enorme massa di diseredati che vivono nelle bidonville ai margini delle grandi città, in condizioni che definire disumane è ancora riduttivo.

A ciò va aggiunto l’atavico problema della corruzione, che riesce a depotenziare anche quelle poche, laddove esistenti, misure di tutela approvate. Uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista “Global Environmental Change”, ad esempio, afferma che nel decennio 2011-2020 la superficie argentina disboscata illegalmente all’interno di aree protette è stata addirittura superiore a quella coinvolta da interventi consentiti e legittimi….

Quindi la situazione è grave ed è difficile ipotizzare vie d’uscita. C’è comunque qualcosa che, nel nostro piccolo, ciascuno di noi può fare. Modifichiamo le nostre abitudini alimentari, riducendo il ricorso a prodotti di origine alimentare. Attenzione, non stiamo proponendo il veganesimo (opzione peraltro più che legittima), ma soltanto un’accurata scelta dei prodotti di cui ci nutriamo. Se sostituiamo nella nostra dieta almeno una parte delle proteine di derivazione animale con quelle vegetali, potremmo ridurre la consistenza degli allevamenti intensivi, che tanti problemi creano: dalla distruzione del territorio all’emissione di gas serra, dall’inquinamento delle falde all’enorme consumo di acqua, senza trascurare, ovviamente, le indicibili sofferenze causate a milioni di animali. Meno allevamenti vorrebbe dire minor esigenza di mangimi e quindi minori importazioni di soia. Certo, questo potrebbe creare problemi al comparto agricolo. Se però si adottano opportune politiche di sostegno economico, si potrebbe favorire lo spostamento verso altre colture, meno energivore, come ad esempio il frumento, e la cosa potrebbe quindi risultare accettabile. Non solo: il frumento necessità di una quantità di acqua pari a poco più della metà di quella richiesta dal mais; inoltre, avendo un ciclo autunno-primaverile (si semina in ottobre e si raccoglie in giugno) la maggior parte delle esigenze idriche viene normalmente coperta dalle precipitazioni naturali. Ovviamente, affinché gli agricoltori siano invogliati in questo cambio di indirizzo colturale occorreranno adeguate politiche di sostegno ai prezzi del frumento. Ma siamo certi che alla collettività costeranno molto, ma molto meno di quanto siamo invece costretti oggi a spendere per sostenere attività economicamente altrettanto insostenibili, ma con in più anche enormi impatti ambientali.

Anche la nostra sicurezza alimentare ne trarrebbe grandi benefici: noi oggi importiamo grosso modo la metà delle circa 14 milioni di tonnellate di frumento che consumiamo. L’azzeramento, o quanto meno una drastica riduzione, della nostra dipendenza dall’estero per la più importante derrata alimentare non potrebbe che essere vista positivamente, come gli eventi bellici in Ucraina stanno ampiamente dimostrando.

Certo, si tratterebbe di una sorta di rivoluzione, certamente non semplice da attuare. Tuttavia ci troviamo in una fase di assoluta emergenza, per cui le soluzioni ai nostri problemi devono essere commisurate alla loro gravità.

Riciclo delle batterie al litio

Riccardo Graziano

Con l’aumento del numero di veicoli a propulsione elettrica alimentati da batterie al litio - come peraltro anche molteplici dispositivi elettronici - diventa imperativo iniziare ad occuparsi dello smaltimento di tali batterie una volta esauste. Senza dimenticare che il crescere della domanda di questo tipo di accumulatori implica anche la necessità di reperire nuova materia prima, possibilmente senza devastare il pianeta con centinaia di nuove miniere o terreni di estrazione. Il duplice problema dell’approvvigionamento di nuova materia prima e dello smaltimento delle batterie esauste ha una soluzione comune: il riciclo.

La richiesta di batterie al litio aumenta esponenzialmente: nel 2020, la domanda globale è stata di 282 GWh mentre la previsione per il 2030 è oltre dieci volte tanto, intorno ai 3.500 GWh. È chiaro che non si può pensare di martoriare il territorio per aumentare a dismisura l’estrazione di litio, componente principale delle batterie, nonché degli altri materiali che concorrono alla loro fabbricazione. È dunque necessario implementare un efficiente sistema di raccolta e recupero delle batterie esauste, analogamente a quanto già avviene con gli accumulatori al piombo, studiando nel contempo dei processi industriali che consentano di ottenere nuova materia prima a costi concorrenziali o addirittura inferiori rispetto all’estrazione in miniera, per salvaguardare l’ambiente e contenere i futuri costi di produzione.

Per fortuna, già da tempo c’è chi si occupa della questione, in primis Tesla, indiscusso leader mondiale della produzione di auto elettriche, dunque anche maggior utilizzatore delle materie prime necessarie, seguita a distanza dalle altre Case automobilistiche che iniziano finalmente a spostarsi verso l’elettrico, anche se con colpevole ritardo. Ma in Italia c’è anche un altro attore primario che si occupa del riciclo, semplicemente ampliando il raggio della propria missione aziendale: è il Cobat, il Consorzio batterie che già si occupa della raccolta e smaltimento degli accumulatori dei veicoli col motore a scoppio e che a livello europeo è fra i fondatori di Reneos, la rete dei sette maggiori operatori continentali del settore.

In un’ottica di economia circolare e di maggiore efficienza dei processi industriali di recupero delle materie prime contenute nelle batterie, Cobat e CNR – Centro Nazionale Ricerche – hanno recentemente registrato un brevetto relativo a un nuovo processo per il trattamento di batterie al litio che prevede l’utilizzo di un processo chimico idrometallurgico in grado di aumentare la capacità di recupero del litio e degli altri componenti degli accumulatori esausti.

In generale, il processo di recupero e riciclo dei componenti delle batterie si articola in tre fasi principali: smontaggio, recupero materiali e successiva purificazione. Il primo passo consiste nello smontare fisicamente la batteria, lavoro che deve essere eseguito da maestranze specializzate nell’operare su componenti ad alta tensione, che devono essere separati e messi in sicurezza prima di procedere alla frantumazione meccanica. In questa fase manuale si recuperano i materiali di rivestimento e componenti in ferro, rame e alluminio.

Successivamente si passa al recupero dei materiali preziosi, le “terre rare” che compongono il cuore della batteria, fra cui appunto il litio. I processi tecnici di questa fase sono lapirometallurgia (liquefazione ad alta temperatura che consente di ricavare anche nichel, cobalto e rame) e l’idrometallurgia, che prevede una serie di lavorazioni con solventi chimici. Le due tecniche possono essere utilizzate in alternativa o insieme, a seconda di cosa e quanto si vuole recuperare. In ogni caso, i materiali ottenuti non hanno un grado di purezza ottimale, per cui è necessario ricorrere alla terza fase, che è appunto la purificazione, in grado di restituire materie prime  riutilizzabili per nuovi processi produttivi, tra i quali naturalmente la produzione di nuove batterie. Un perfetto esempio di economia circolare.