Ferdinando Boero
Stazione Zoologica Anton Dohrn, CNR-IAS
L'oceano copre il 71% della superficie del pianeta ma, a differenza degli spazi emersi, non è una superficie: è un volume. Tra il fondo marino (continuazione sommersa della terraferma) e la superficie dell'oceano ci sono in media 4.000 m di colonna d'acqua, e la vita è presente dalle massime profondità fino alla superficie: più del 90% dello spazio disponibile alla vita è oceano. La vita sulla terraferma dipende dalla disponibilità di acqua. La pioggia scende da nuvole che si formano per evaporazione dell'acqua oceanica. Se si parla di biodiversità e ecosistemi, quindi, si parla principalmente di oceano. Poi c'è l'eccezione terrestre che, comunque, dipende dall'oceano. Un pianeta completamente coperto dall'acqua resterebbe vivo, se l'acqua scomparisse la vita finirebbe.
Da animali terrestri, tendiamo a privilegiare il nostro ambiente di elezione, ma questo ha poco a che vedere con la valenza scientifica del nostro approccio alla natura.
In questo articolo parlerò di biodiversità ed ecosistemi, senza aggiungere l'aggettivo "marini". Di solito quando si parla di ecologia si parla di terra, e poi si aggiunge "marina" se si parla di mare. Dovrebbe essere l'opposto: c'è l'ecologia e poi, in un angolino, c'è l'ecologia terrestre. E lo stesso vale per biodiversità ed ecosistemi. L'Italia, poi, con i suoi 8.500 chilometri di coste, è un paese nettamente marino. Se vivete in un posto dove non si vede il mare, guardate in cielo. Se ci sono nuvole... quello è l'oceano. E quando piove è l'acqua oceanica che vi bagna. L'oceano è la sorgente dei nostri fiumi. L'ecologia è la scienza delle connessioni e la transizione ecologica richiede, prima di tutto, il riconoscimento delle connessioni.
La transizione ecologica: un cambio di paradigma
Con il New Green Deal e il Next Generation EU, l'Unione Europea ha lanciato la cosiddetta transizione ecologica. Se si parla di transizione significa che è necessario "transitare" da una posizione ad un'altra posizione, e la parola "ecologica" significa che il passaggio deve essere da una cultura in cui l'ecologia non trova posto a una cultura che ne riconosce in pieno l'importanza. Questo è stato recentemente realizzato con l'inclusione di biodiversità ed ecosistemi nell'Art. 9 della Costituzione dove, prima, c'era solo il "paesaggio", associato ad una visione estetica della natura, frutto di una cultura "umanistica" incentrata sul percettore (noi) e non sul percepito (la natura).
Non è un caso che le linee guida dell'Unione Europea dicano che la biodiversità deve essere trasversale a tutte le iniziative intraprese con il New Green Deal e il Next Generation EU, in base ai quali il nostro paese ha ricevuto 209 miliardi di finanziamenti grazie al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Gran parte di questi fondi è destinata alla transizione ecologica.
La transizione richiede conoscenza
Una volta deciso che la biodiversità ha un ruolo centrale, dobbiamo porci due domande: Conosciamo la biodiversità del nostro paese? Possiamo pensare di dare un ruolo centrale a qualcosa che non conosciamo? L'Italia è stata il primo paese al mondo a fare una checklist delle specie animali registrate sul suo territorio, e lo stesso vale per le piante. Ma le liste non bastano. Ogni nome deve corrispondere a un'architettura corporea, a un ciclo biologico, a un ruolo ecologico che, assieme, ci permettano di collegare la biodiversità al funzionamento degli ecosistemi attraverso lo studio delle interazioni tra le specie.
In più, la vita evolve, la composizione in specie cambia nei vari habitat, e questo cambia anche il funzionamento degli ecosistemi. Non basta fare una "fotografia" della situazione in un determinato momento, per comprendere la struttura e la funzione dei sistemi viventi.
La tassonomia
Attualmente abbiamo dato il nome a circa due milioni di specie. Le stime dicono che il pianeta ne ospiti circa otto milioni: conosciamo una piccola parte della biodiversità. E quindi ritorna la domanda: come possiamo gestire e proteggere quel che non conosciamo? La tassonomia è la scienza di base che dà il nome alle specie, esplorando la biodiversità. La prima cosa che facciamo quando scopriamo qualcosa di sconosciuto è di darle un nome. Le specie che non hanno un nome vengono battezzate dai tassonomi che le descrivono, dando loro un'identità.
Se diciamo che la biodiversità è importantissima, e diciamo che la nostra vita dipende da lei (non facciamo che ripeterlo, sin dai tempi della convenzione di Rio de Janeiro nel 1992) allora dovremmo dedicare grandi sforzi allo sviluppo della sua conoscenza. Invece, stranamente, la tassonomia sta scomparendo dalla comunità scientifica. I fondi dedicati allo studio della biodiversità sono consegnati a informatici, a genetisti e biologi molecolari, a biotecnologi e ad esperti di specie carismatiche, di solito vertebrati, e a tante altre categorie di scienziati, ma non ai tassonomi di ampio spettro. Non si pretende che tutte le risorse vadano alla tassonomia, ma che questa scienza sia portata all'estinzione quando tutti decantano l'importanza di quello che studia non può che essere definito stupido. O intellettualmente disonesto.
Decine di articoli scientifici denunciano questo paradosso, ma tutto continua come se niente fosse. Si continua a parlare di biodiversità senza sapere di che si sta parlando.
Anche Papa Francesco, nella sua Enciclica Laudato Si', denuncia l'errore di prendere una parte della biodiversità per il tutto e, nel capitolo 34, dice: “Probabilmente ci turba venire a conoscenza dell’estinzione di un mammifero o di un volatile, per la loro maggiore visibilità. Ma per il buon funzionamento degli ecosistemi sono necessari anche i funghi, le alghe, i vermi, i piccoli insetti, i rettili e l’innumerevole varietà di microorganismi. Alcune specie poco numerose, che di solito passano inosservate, giocano un ruolo critico fondamentale per stabilizzare l’equilibrio di un luogo”.
Ripeto: non ritengo che sia sufficiente la tassonomia per studiare la biodiversità, ma mi sento di dire che sia necessaria. Questa necessità evidentemente non viene riconosciuta, altrimenti la tassonomia non sarebbe in grande disagio, con l'eccezione di quella che riguarda gruppi carismatici o di interesse economico, vista la disponibilità di finanziamenti dedicati alla biodiversità.
Un milione di specie...
Le Nazioni Unite hanno previsto, recentemente, che nei prossimi anni un milione di specie si estinguerà: un'estinzione di massa che sta avendo luogo proprio ora. Non dico che non sia vero, ma se cerco nei documenti un elenco di specie che già si sono estinte... non trovo quasi nulla. Se se ne estinguerà un milione nei prossimi decenni, almeno qualche migliaio dovrebbe essere già estinto. Un politico potrebbe chiedere: OK, un milione si estinguerà presto, ma fatemi vedere quali già si sono estinte. Se si dicesse che morirà un milione di persone per una terribile malattia, si potrebbe chiedere quante già ne siano morte. E se la risposta fosse non lo so, non si sarebbe presi sul serio. Tremo al pensiero che un politico possa fare una domanda del genere. Gli si presenterebbero liste di specie minacciate, estinte commercialmente, e altre amenità, ma la lista delle specie estinte sarebbe veramente corta.
Il problema è che probabilmente quella lista è lunga, ma non abbiamo i dati per dimostrarlo, a parte simulazioni. Un ministro della salute non si accontenterebbe di simulazioni, vorrebbe dati veri a supporto di un allarme drammatico.
Non sappiamo rispondere perché intanto si stanno estinguendo i tassonomi. E se non c'è più chi conosce le specie, come si fa a valutare lo stato della biodiversità? Come si fa a capire se sta cambiando, e come?
Gli alieni
Il riscaldamento globale sta alterando le condizioni termiche del pianeta. La Grande Barriera Corallina australiana è in regressione per le temperature elevate. Le specie tropicali si spostano a nord e a sud, nei due emisferi. Il Mediterraneo si sta riscaldando e le specie ad affinità fredda sono in profondo disagio, e soffrono di mortalità massive. Il riscaldamento, però, favorisce le specie tropicali che, arrivate in Mediterraneo, trovano condizioni ottimali per la loro sopravvivenza. Quel che uccide le specie ad affinità fredda è un toccasana per le specie tropicali. La biodiversità del Mediterraneo sta cambiando rapidamente, in risposta a rapidi cambiamenti nei regimi termici. Presi dalla smania di "conservare" tendiamo a considerare gli alieni come responsabili della regressione degli autoctoni, senza considerare che, invece, nuove funzioni ecosistemiche si stanno realizzando grazie alle specie pre-adattate alle nuove condizioni che stanno sostituendo quelle che non riescono a far fronte ai cambiamenti. Gli alieni potrebbero essere "profughi climatici" che fuggono da aree disastrate per cercare riparo altrove. L'arrivo di specie non indigene deve essere individuato, e poi bisogna conoscere il loro ruolo nelle regioni di provenienza, cercando di comprendere quale ruolo potrebbero svolgere una volta arrivate da noi.
Eradicare le formazioni coralline?
Se iniziassero ad arrivare i coralli che formano biocostruzioni alle latitudini tropicali, come ci dovremmo comportare? Li eradichiamo perché sono alieni malvagi che contendono spazio alle specie native, o li salutiamo con entusiasmo perché sono "belli"? I coralli non si spostano facilmente, in compenso arrivano specie tropicali ad essi associate e che si spostano più rapidamente, per esempio i pesci. Alcuni di loro, come i pesci coniglio, mangiano le alghe. Ai tropici svolgono un ruolo importante nel favorire le formazioni coralline. Le alghe sono più efficienti dei coralli nel colonizzare i fondi duri e creano condizioni negative per le formazioni coralline, competendo con i coralli per l'uso dello spazio. I pesci coniglio, e anche diversi echinodermi, mangiano le alghe, rimuovendole. In questo modo favoriscono i coralli che, altrimenti, sarebbero soverchiati dalle alghe.
I pesci coniglio sono arrivati in Mediterraneo e stanno mangiando le foreste di alghe. Se la loro azione favorisse l'instaurarsi di formazioni coralline come valuteremmo il loro ruolo ecologico? Se cercassimo di eradicare sia loro sia le eventuali formazioni coralline che i pesci erbivori potrebbero favorire, non è detto, comunque, che le alghe del passato tornerebbero a formare le stesse foreste algali. Probabilmente arriverebbero alghe tropicali. Nei nostri criteri di valutazione, le formazioni coralline sono "accettabili" mentre altre specie meno carismatiche non lo sono?
Ci sono alieni e alieni...
Se le specie sono in grado di raggiungere con le loro forze determinate zone del pianeta, e di impiantarvi popolazioni funzionali, non ci dovremmo allarmare più di tanto, fa parte del gioco dell'evoluzione delle distribuzioni. Ma a volte siamo noi a "traslocarle" da un posto all'altro, a volte intenzionalmente e a volte no. Le ctenoforo Mnemiopsis leydi è arrivato in Mar Nero con le acque di zavorra delle petroliere provenienti dall'Atlantico e ha dato un colpo fatale alle popolazioni di pesci, cibandosi delle loro larve e delle prede delle loro larve. In altri casi gli alieni sono immessi volontariamente, come la vongola filippina che è stata importata per sostituire la vongola verace. Le introduzioni di origine antropica sono da condannare senza mezzi termini, anche se non sempre è così. Abbiamo importato molte piante ornamentali e, assieme a loro, abbiamo importato anche i loro predatori e parassiti come, ad esempio, il punteruolo rosso, che si nutre di palme. Se non avessimo importato palme "aliene" non avremmo importato i loro predatori.
Conservazione e evoluzione
Non solo le specie evolvono, anche le associazioni tra specie sono soggette a continuo cambiamento, soprattutto in periodi di rapida modificazione delle condizioni ambientali. Non ci sono più dubbi che il cambiamento climatico sia dovuto in parte significativa alle nostre attività e l'unico modo per "conservare" le condizioni precedenti richiede che il nostro impatto cessi. L'inerzia del sistema perturbato, comunque, porterà a cambiamenti dovuti alla perturbazione stessa. Indietro non si torna.
La conservazione si prefigge, spesso, di rendere permanente uno stato dell'ambiente, e si oppone a qualsiasi cambiamento. Nulla di male se l'opposizione consiste nel rimuovere i nostri impatti: anzi, è doveroso. Ma bisogna essere ben consci che, comunque, i sistemi viventi cambiano.
Una buona conservazione deve distinguere tra cambiamenti naturali e cambiamenti derivanti da nostre attività che rendano gli ecosistemi meno diversi e funzionali. Le zone morte che si espandono sempre più negli oceani afflitti, ad esempio, dallo sversamento di pesticidi e fertilizzanti, non sono una risposta "sana" alle nostre attività. Lo stesso vale per la desertificazione che affligge sempre più i sistemi terrestri. Il disboscamento di foreste naturali è assolutamente da evitare. Come sono da evitare pratiche agricole che prevedano l'eradicazione della biodiversità e la sua sostituzione con una sola specie (quella di nostro interesse) che viene mantenuta attraverso l'uso di pesticidi che uccidono predatori e competitori, e fertilizzanti che le forniscono le sostanze di cui ha bisogno. Il problema principale del nostro impatto è dovuto alla sovrappopolazione che, probabilmente, ha già superato la capacità portante del nostro pianeta in termini di disponibilità di risorse per la nostra specie.
La biologia della conservazione, quindi, potrebbe essere considerata un ossimoro perché la storia della vita è una storia di continuo cambiamento: pretendere di "conservare" uno stato desiderato di una realtà in continuo cambiamento non ha senso. Il fine della "conservazione", quindi, dovrebbe essere la rimozione di tutti gli impatti di origine antropica che impediscono in modo significativo la naturale evoluzione dei sistemi bio-ecologici, accettando il cambiamento naturale.
Un caso particolare di conservazione riguarda singole specie minacciate di estinzione, di solito si tratta di specie carismatiche che vengono studiate a fondo in tutti gli aspetti della loro biologia e della loro genetica, per cercare vie di salvezza che ne prevengano l'estinzione. Per quanto lodevoli, questi studi interessano una minima parte della biodiversità. Per comprendere l'evoluzione degli insiemi di specie che coesistono nei vari ambienti, prima di tutto dovremmo esser consci della loro esistenza, e non lo siamo. Poi dovremmo conoscerne a fondo la biologia e l'ecologia, per comprendere i rapporti che le legano con le altre specie. Limitare la conservazione a pochi habitat e specie carismatiche non è risolutivo a livello dello stato della biosfera e delle specie che si dovrebbero estinguere in massa. Come possiamo conservare quel che non conosciamo?
Il modello di Lotka e Volterra
Le equazioni di Lotka e Volterra riguardano i rapporti tra un predatore e la sua preda. Non esistono sistemi ecologici con due sole specie (predatore e preda) che interagiscono, ma possiamo usufruire della "saggezza" di questo modello considerando la nostra specie come un predatore e la natura (tutte le altre specie) come la preda. Il modello dice che se la preda è abbondante e il predatore è scarso, la popolazione del predatore, grazie alla disponibilità di risorse, tende ad aumentare con i fenomeni riproduttivi. Man mano che il predatore aumenta, la preda diminuisce e, a un certo punto, la sua scarsità fa diminuire le possibilità di crescita del predatore. Se il predatore decresce a causa della scarsità di prede, la popolazione della preda tende ad aumentare nuovamente. Nel modello le curve di abbondanza di predatore e preda sono sfasate: quando cresce il predatore diminuisce la preda, e quando questa è insufficiente per soddisfare le necessità di una grande popolazione di predatori, questi diminuiscono a loro volta, permettendo nuova crescita della preda. La nostra specie, però, evolve tecnologicamente e inventa sempre nuovi modi per trarre risorse dalla sua "preda" (la natura). Finiscono le popolazioni naturali delle prede? Passiamo all'allevamento del bestiame. La raccolta di piante le fa diminuire? Le coltiviamo. I pesci diminuiscono? Inventiamo strumenti più sofisticati per catturare gli ultimi rimasti, e poi passiamo all'allevamento anche in mare.
Questa corsa al miglioramento delle attività predatorie porta ad un continuo aumento della popolazione del predatore (la nostra) ma se consumiamo più di quello che la natura produce, alla fine le risorse scompaiono. Non possiamo vivere senza il resto della natura e se distruggiamo la "preda" su cui basiamo la nostra esistenza, creiamo le premesse per il nostro fallimento come "predatori": un predatore senza prede è destinato a morire di fame. Forse non ci estingueremo, ma la diminuzione delle risorse alla fine si tradurrà in carestie, guerre, e malattie.
Il nostro interesse, quindi, consiste nel mantenere in buona salute la nostra "preda" (la natura) perché da lei dipendiamo. Per farlo dobbiamo diminuire la nostra pressione sulla "preda", non solo in termini di numero di individui della nostra specie ma anche in termini di stili di vita.
La conversione ecologica
Francesco, in Laudato Si', chiede la conversione ecologica. Un'autorità religiosa chiede la conversione a una scienza: l'ecologia. La transizione ecologica, in effetti, richiede prima una conversione ecologica che dia all'ambiente il ruolo che merita: un ruolo di assoluta preminenza, visto che la nostra specie non può vivere senza il resto della natura.
Fino ad oggi abbiamo perseguito un modello di sviluppo basato su un solo obiettivo: la crescita del capitale economico. Non ci siamo curati della decrescita del capitale naturale. Il capitale economico è il predatore e il capitale naturale è la preda. Se cresce il capitale economico decresce il capitale naturale, come predetto dal modello di Lotka e Volterra.
Preso atto di questa situazione, la transizione ecologica si deve basare su un "uso" della natura che non eroda le nostre possibilità di sopravvivenza. La crescita demografica si deve arrestare: il pianeta non può sopportare un numero infinito di umani e, quindi, dobbiamo ridimensionare le nostre popolazioni. Inoltre dobbiamo ottimizzare il modo con cui estraiamo le risorse, identificando risorse quanto più "rinnovabili". La sostenibilità si ottiene consumando risorse che si rinnovano, senza sfruttarle tanto intensamente da consumarne più di quante se ne producano. Facile a dirsi, meno facile a realizzarsi. Sappiamo cosa dobbiamo fare, e sappiamo che se non rispetteremo i limiti imposti dalla natura pagheremo care conseguenze.
Dalla scienza alla tecnologia e ritorno
Non ci sono dubbi che la transizione ecologica richieda grandissima innovazione tecnologica. Dobbiamo usare risorse rinnovabili per produrre energia e dobbiamo ottimizzare i nostri consumi. Dobbiamo utilizzare materiali che non richiedano devastazioni per essere estratti e dobbiamo essere in grado di riciclarli. Dieci anni fa pareva che le fonti rinnovabili non potessero darci l'energia di cui abbiamo bisogno, oggi le tecnologie sono molto migliorate e sappiamo che la transizione alle rinnovabili è possibile.
Le tecnologie però non bastano. Ne dobbiamo sviluppare di nuove perché quelle vecchie stanno rovinando la biodiversità e gli ecosistemi. La valutazione dell'efficacia delle nuove tecnologie non può che passare attraverso lo stato della biodiversità e degli ecosistemi. Se le condizioni della biodiversità e degli ecosistemi migliorano, allora le tecnologie sono utili ai fini della conversione ecologica. Se le condizioni non cambiano, allora le tecnologie non sono ancora mature per risolvere i problemi: bisogna inventarne di migliori. Se le condizioni di biodiversità ed ecosistemi peggiorano, allora le tecnologie non vanno bene, e devono essere scartate.
Dovrà essere l'ecologia a definire i problemi, le tecnologie proporranno soluzioni, in collaborazione con l'ecologia, e poi l'ecologia valuterà l'efficacia delle soluzioni tecnologiche.
Il pianeta B?
A fronte dell'evidente degrado delle condizioni ambientali, diversi scienziati, tra cui il compianto Stephen Hawkins, hanno prospettato la possibilità di colonizzare altri pianeti, trasferendo la nostra specie dove esistano condizioni compatibili con la nostra sopravvivenza. Constatato che non esistono pianeti adatti in questo sistema solare, si è iniziato a cercare altri pianeti: gli esopianeti. E intanto si stanno programmando missioni di colonizzazione, prima sulla Luna, poi su Marte, in attesa di trovare il pianeta promesso.
Chi fa queste proposte, ottenendo enormi finanziamenti per perseguirle, ovviamente non ha una cultura in termini di ecologia e di evoluzione. La nostra specie basa la propria esistenza sull'efficienza dei processi ecosistemici messi in atto dalla biodiversità, con cui siamo co-evoluti. Pensare che su un altro pianeta si sia evoluto un ecosistema compatibile con la nostra sopravvivenza è talmente improbabile da non poter essere preso in considerazione. Pensare di trasferire con noi la biodiversità del pianeta (una sorta di arca biblica di un novello Noè) e che questa, una volta sbarcata, riformi gli ecosistemi in modo compatibile con la nostra vita non è scienza ma fantascienza. Il pianeta B non esiste e i nostri sforzi per cercarlo e per raggiungerlo si basano su aspettative che difettano di razionalità.
Cultura senza natura
Non esistono scorciatoie alla conversione ecologica, prima, e alla transizione ecologica, dopo. Soprattutto nel nostro paese la cultura è eminentemente "umanistica" ed è incentrata sulla nostra specie. Non ci sarebbe nulla di male, se questo generasse la consapevolezza che è interesse della nostra specie mantenere le condizioni del pianeta in uno stato che garantisca il nostro benessere. Non siamo tanto potenti da distruggere la natura: la possiamo modificare, ma le modifiche di solito generano vantaggi a breve termine per la nostra specie, a cui fanno seguito evidenti svantaggi nel lungo termine. Il lungo termine sta arrivando e le conseguenze del nostro agire nella natura si stanno facendo sentire in modo sempre più drammatico, mettendo a repentaglio la nostra specie.
La "naturalizzazione" della cultura deve passare per i sistemi di formazione (la scuola) dove, attualmente, la natura ha un ruolo molto marginale. L'Unione Europea ha introdotto il concetto di "alfabetizzazione marina" (marine literacy) ma si dovrebbe parlare di "alfabetizzazione ecologica". Purtroppo, però, se la natura non è presente nel patrimonio culturale, come può avvenire che gli operatori culturali modifichino le loro gerarchie di priorità andando contro i principi con cui sono stati acculturati?
Chi chiede questo cambiamento, questa conversione, di solito non viene capito. In questa categoria rientra anche Papa Francesco. Chi si dice sensibile alle denunce di Greta Thunberg (basate peraltro sui rapporti scientifici sullo stato del pianeta) viene deriso con il termine di "gretino". Se si decide di intraprendere la transizione ecologica, questa di solito viene affidata a tecnologi e ad economisti: chi ha generato i problemi che rendono necessaria la transizione ecologica viene chiamato a risolvere i problemi che lui (o lei) stesso/a ha generato. Gli ecologi hanno un ruolo marginale.
Perché non riusciamo ad incidere?
I movimenti che operano in favore dell'ambiente hanno da sempre incentrato la loro attenzione su specie ed habitat che abbiano un forte impatto sull'opinione pubblica. La strategia prevede che prima si focalizzi l'attenzione su componenti carismatiche della natura, per arrivare poi a creare consapevolezza sull'importanza dei processi che rendono possibile la vita sul pianeta, inclusa la nostra. L'approccio emotivo, però, non ha portato a questa consapevolezza: Lo scioglimento dei ghiacci polari ci fa preoccupare del destino degli orsi bianchi che vivono al polo nord, ma dopo un momento di commozione si passa ad altro. Dopotutto chi ha davvero a che fare con un orso polare?
Lo scioglimento dei ghiacci polari compromette, però, la dinamica oceanica che i ricercatori chiamano il grande nastro trasportatore oceanico, che connette tutti gli oceani e che dipende proprio dalla formazione di ghiaccio ai poli. Se, invece di formarsi, i ghiacci polari si sciolgono, la dinamica delle correnti oceaniche cambia, e cambia anche la dinamica atmosferica, con estremi climatici caratterizzati da maggiore frequenza di periodi di siccità seguiti da precipitazioni torrenziali. Questi fenomeni impattano sulla nostra vita quotidiana, e sull'economia, molto più del disagio degli orsi polari.
Se ci limitiamo a denunciare il disagio di qualche specie "carina" finiamo per essere percepiti come "mamme dei gatti", da trattare con condiscendenza ma che non possono essere prese davvero sul serio. I problemi importanti sono "altri". E noi non siamo identificati come quelli che potrebbero contribuire a risolverli. Risultato: le competenze sulla transizione ecologica sono riconosciute a tecnologi ed economisti e non agli ecologi.
La responsabilità di questa mancata consapevolezza è nostra. La comunità scientifica che si interessa di esplorazione spaziale riesce a convincere i decisori che valga la pena esplorare lo spazio, anche per colonizzare altri pianeti e cercare forme di vita intelligenti e non. Noi non riusciamo a convincere i decisori che lo studio e la tutela della biodiversità e degli ecosistemi siano una priorità impellente. Se si convincono della priorità, e decidono di intraprendere la transizione ecologica, non chiamano noi.