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Stato di conservazione dei rettili in Italia

Leonardo Vignoli
Dipartimento di Scienze, Università degli studi Roma Tre

Introduzione

I rettili sono stati considerati in passato animali di "minore importanza" e si è ipotizzato che la loro scomparsa "non faccia molta differenza in un senso o nell'altro". Lo stesso Linneo, nel suo Systema Naturae del 1758, descrisse i rettili come "animali disgustosi e ripugnanti... abominevoli a causa del loro corpo freddo... dell'aspetto feroce... e della loro squallida dimora". Fortunatamente, tali sentimenti sono sempre più superati, poiché gli scienziati rivelano il ruolo significativo che i rettili svolgono in molti ecosistemi.

Malgrado i rettili siano tra i vertebrati il gruppo meno studiato e siano ancora spesso trascurati rispetto ad altri organismi, c'è un crescente interesse nella conservazione della loro diversità biologica. La diminuzione delle popolazioni di rettili, che siano poco osservate o abbiano già una documentazione ampia, desta preoccupazione non solo per il ruolo ecologico cruciale che ricoprono in vari habitat, ma anche per le implicazioni sulla salute generale dell'ambiente, analoghe al declino di altre forme di vita. Qualunque siano le ragioni, la volontà di preservare i rettili e di acquisire una comprensione più approfondita della loro ecologia richiede informazioni dettagliate sul loro stato attuale, sulla loro distribuzione e sui fattori che ne influenzano il declino

Come accade per molte altre specie animali, negli ultimi tempi i biologi della conservazione hanno espresso preoccupazione per il declino dei rettili, alcuni dei quali hanno ricevuto notevole attenzione (come nel caso della crisi delle tartarughe asiatiche). Senza dubbio il numero di popolazioni di alcune specie è in diminuzione, specialmente per i serpenti. Tuttavia, la significativa mancanza di dati sullo stato di conservazione della maggior parte delle specie di rettili in molte parti del mondo ha ostacolato una comprensione completa e un'appropriata valutazione della loro situazione attuale e una proiezione attendibile per quella futura. In alcuni casi, le preoccupazioni per il declino si fondano solo su testimonianze aneddotiche o su una crescente percezione della rarefazione di una specie, senza dati quantitativi a sostegno. È evidente che una delle priorità per gli erpetologi e gli studiosi di fauna selvatica dovrebbe essere quella di chiarire la situazione globale e la distribuzione delle varie popolazioni di rettili (Todd et al., 2010).

I rettili hanno avuto una storia evolutiva lunga e complessa, essendo apparsi per la prima volta sulla Terra nel tardo Paleozoico, oltre 250 milioni di anni fa (secondo le stime della filogenesi molecolare e i primi reperti fossili). Sono considerati un gruppo evolutivamente di successo, in grado di adattarsi a una vasta gamma di ambienti, che spaziano da quelli temperati ai tropicali e desertici, occupando habitat terrestri, d’acqua dolce e marini. All'interno dei sistemi naturali, i rettili svolgono ruoli ecologici cruciali come predatori, prede, consumatori di piante, dispersori di semi; in aggiunta, molte specie rappresentano indicatori biologici della salute dell'ambiente.

Finora sono state descritte 12.060 specie di rettili (http://www.reptile-database.org/db-info/SpeciesStat.html) e le nuove analisi molecolari continuano a portare alla luce numerose specie criptiche che non erano state individuate in precedenza usando le sole analisi morfologiche.

L'Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN) è leader a livello mondiale nella valutazione dello stato di conservazione e del rischio di estinzione di moltissime specie vegetali e animali nell'ambito del suo programma di Lista Rossa. Anche se l’IUCN ha valutato in modo esaustivo uccelli, mammiferi e anfibi, la valutazione globale dei rettili è stata avviata solo di recente e attualmente, i rettili rimangono uno dei taxa di vertebrati meno conosciuti il cui stato di conservazione è stato valutato per circa l’84% delle specie descritte.

Tutte le popolazioni animali sperimentano presumibilmente un certo livello di fluttuazione normale nell'abbondanza, che varia a seconda della specie o della popolazione in questione. Le popolazioni di rettili sono sempre più studiate da parte di zoologi ed ecologi, e l’accumulo di informazioni sempre di maggiore dettaglio è fondamentale per riuscire a distinguere tra i declini naturali e quelli antropogenici, per determinare se le fluttuazioni nella distribuzione o nell'abbondanza rappresentino un "declino" reale. Pertanto, il monitoraggio a breve termine, che fornisce istantanee limitate delle dimensioni della popolazione, può rivelare lo stato attuale, ma non può rivelare le tendenze a lungo termine della popolazione o le cause di tali andamenti. Per questo motivo, il valore degli studi a lungo termine e dei dati da essi generati non deve essere sopravvalutato a dispetto delle difficoltà intrinseche della loro conduzione (sforzo di personale ed economico). Tuttavia, anche l'accumulo di dati provenienti da numerosi studi a breve termine può rivelare una traiettoria di declino generalizzato delle popolazioni di una specie e indicare le priorità di conservazione di una determinata specie o popolazione.

Stabilire un nesso causale tra un fattore specifico e il declino delle popolazioni di rettili può essere difficile, ma è di primaria importanza per una conservazione efficace. Sebbene in alcuni casi un solo fattore possa avere un impatto significativo su una popolazione, quasi sempre più fattori interagenti influenzano l'abbondanza e la distribuzione di una specie. Diversi fattori sono stati identificati come minacce per le popolazioni di rettili e sono implicati nel declino di almeno alcune specie, tra cui la perdita e la frammentazione dell'habitat, il prelievo non sostenibile, la contaminazione ambientale antropogenica, i cambiamenti climatici, le specie invasive, le malattie e il parassitismo. Altri due fattori raramente menzionati, ma di grande importanza per la sopravvivenza delle popolazioni di rettili sono l'indifferenza sociale e gli interessi particolari o politici. L'indifferenza sociale può costituire un ostacolo rilevante per la tutela dei rettili, dato che molti di essi sono oggetto di derisione o paura personale, una sfida che necessita di essere superata prima che si possa suscitare un genuino interesse per la loro salvaguardia. Allo stesso modo, le strategie di allocazione di risorse per la conservazione della biodiversità da parte di organizzazioni non governative e dei governi statali, provinciali o nazionali difficilmente sono indirizzate a riconoscere la situazione delle specie in declino e la necessità di uno sforzo di conservazione. L’orientamento di interessi particolari o politici innegabilmente ha un impatto considerevole sulla conservazione di molti rettili.

Quasi una specie di rettili su cinque è minacciata di estinzione, mentre un'altra specie su cinque è classificata come carente di dati. La percentuale di specie di rettili minacciate è più alta negli ambienti d'acqua dolce, nelle regioni tropicali e nelle isole oceaniche, mentre la carenza di dati è più elevata nelle aree tropicali, come l'Africa centrale e il Sud-est asiatico, e tra i rettili fossori. È riconosciuta la necessità di concentrare l'attenzione della ricerca sulle aree tropicali che stanno vivendo i tassi più drammatici di perdita di habitat, sui rettili fossori per i quali c'è una mancanza cronica di dati e su alcuni taxa, come i serpenti, per i quali il rischio di estinzione può attualmente essere sottostimato a causa della mancanza di informazioni sulla demografia delle popolazioni. Le azioni di conservazione devono in particolare mitigare gli effetti della perdita di habitat e del prelievo antropico, che sono le minacce principali per i rettili (Cox et al., 2022).

 

Diversità e stato di conservazione dei rettili in Italia.

Secondo la più recente checklist (Sindaco e Razzetti, 2021), l'erpetofauna italiana è rappresentata da 101 specie (42 anfibi e 59 rettili). Per quanto attiene ai rettili, cinque specie sono tartarughe marine, di cui solo Caretta caretta si riproduce regolarmente sulle spiagge italiane; Dermochelys coriacea e Chelonia mydas sono osservate regolarmente lungo le coste italiane, mentre Lepidochelys kempii ed Eretmochelys imbricata sono presenti nel Mediterraneo solo con individui osservato occasionalmente. Quattro specie sono aliene naturalizzate nell'ultimo secolo (Trachemys scripta, Chamaeleo chamaeleon, Indotyphlops braminus e Eryx jaculus). Più difficile è accertare se alcune specie ben radicate siano realmente autoctone o se la loro presenza sia dovuta ad antiche introduzioni mediate dall'uomo (le cosiddette specie "parautoctone"). Anche se i dati biogeografici e genetici supportano fortemente l'introduzione da parte dell’uomo di alcune specie in tempi antichi (ad esempio Testudo marginata, T. graeca ed Emys orbicularis in Sardegna), per altre (Chalcides chalcides, C. ocellatus, Podarcis siculus, Natrix maura e Hemorrhois hippocrepis in Sardegna, Podarcis filfolensis a Linosa e Lampione, Mediodactylus kotschyi in Puglia e Basilicata) non è ancora chiara l’origine.

Un primo passo fondamentale per la pianificazione della conservazione e la definizione delle priorità è la valutazione dello stato delle specie in base al loro rischio di estinzione. Da oltre quarant'anni l'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) valuta lo stato di minaccia globale delle specie e pubblica i risultati nella Lista Rossa IUCN delle specie minacciate, aggiornata periodicamente. Inoltre, numerosi Paesi hanno pubblicato liste nazionali di specie minacciate, spesso basate sui criteri dell'IUCN e linee guida per l'applicazione dei criteri della Lista Rossa IUCN a livello regionale. I criteri IUCN per la classificazione delle specie minacciate nelle liste rosse sono stati costruiti principalmente per essere applicati su scala globale e l'utilizzo del sistema su scala nazionale può essere problematico. Tuttavia, la maggior parte degli sforzi di conservazione sono condotti a livello nazionale e quindi c'è una grande richiesta di liste rosse a livello nazionale. Il Comitato Nazionale Italiano per l'IUCN è uno dei 49 comitati nazionali riconosciuti dall'Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN). Sebbene i comitati nazionali applichino i medesimi criteri per stabilire il rischio di estinzione delle specie, le discrepanze tra le liste rosse nazionali e la Lista Rossa IUCN globale o continentale esistono e possono avere importanti implicazioni per la pianificazione della conservazione. La lista rossa nazionale italiana può ad esempio riflettere non solo il rischio di estinzione, ma anche la rarità locale, l'importanza culturale di alcune specie o popolazioni, il valore di conservazione, il declino della popolazione locale, le priorità di conservazione, o una combinazione di diversi di questi fattori. Ovviamente, la stima di tali parametri misurata per specie il cui areale è solo parzialmente incluso in Italia può differire dalle stime fatte a scala di intero areale/globale. Per i rettili, la lista rossa italiana include le valutazioni di tutte le specie native o possibilmente native in Italia, nonché quelle naturalizzate in Italia in tempi preistorici. Da quando è attivo il Comitato Nazionale Italiano IUCN, ha prodotto una prima lista rossa dei vertebrati in cui sono inclusi i rettili nel 2013 poi aggiornata nel 2022. Facendo riferimento alla lista rossa IUCN europea per le specie di rettili presenti sul territorio italiano, al 2023 risultano 54 specie per le quali è stato stimato lo stato di rischio di estinzione. Di queste, 40 (74,1%) non è considerato minacciato (Least Concern – LC), 7 (13%) è prossimo ad essere minacciato (Near Threatened – NT), 5 (9,3%) sono minacciate o in pericolo critico di estinzione (1 Critically Endangered – CR, 4 Vulnerable- VU), mentre 2 (3,7%) specie sono carenti di dati (Data Deficient – DD) (Figura 1). È utile comparare lo stato di conservazione dei rettili italiano con quello delle specie di rettili a livello mondiale per valutare se la nostra fauna sia a maggiore o minore rischio di estinzione rispetto alla media nei vari paesi del mondo. A livello globale, la percentuale di specie minacciate di estinzione è pari al 18,1%, circa il doppio di quanto si rileva in Italia, mentre le specie non a rischio rappresentano il 61,8% del totale. Oltre alla proporzione delle specie minacciate, un’altra importante discrepanza nella valutazione dello stato di conservazione dei rettili italiani e mondiali è evidenziata dalle specie carenti di dati per le quali non è stimabile il rischio di estinzione che a scala mondiale (14,6%) è pari a circa quattro volte quella in Italia. Quest’ultimo dato riflette ovviamente i diversi livelli di diversità di specie nelle aree tropicali rispetto a quelle temperate e parimenti il differente sforzo di ricerca profuso in tali aree. Ci sono, infatti, ancora delle aree del mondo ad altissimo tasso di endemismo ed elevata biodiversità che sono in larga parte inesplorate (sudest asiatico e parte della regione neotropicale in particolare). Se confrontiamo la stima del rischio di estinzione per i rettili italiani riportato dal Comitato Italiano IUCN nel report del 2022 possiamo osservare che le specie considerate presenti sul territorio italiano sono 48 e quelle valutate a rischio di estinzione 12 pari al 25% del totale. Tale valutazione diverge significativamente dalla categorizzazione fatta dalla IUCN Europa (9,3%) risultando una percentuale quasi tripla. Tale discrepanza è dovuta principalmente alla valutazione di alto rischio di estinzione per sei specie nella lista nazionale e nessuna nella lista IUCN Europa, mentre le specie vulnerabili sono più o meno le stesse come anche l’unica specie in pericolo critico di estinzione, la lucertola delle Eolie, condivisa dalle due liste. È importante ricordare che alcune discrepanze tra queste liste sono attese. Ad esempio, il caso di specie minacciata a livello nazionale/non minacciata a livello globale può essere un disallineamento previsto, a patto che la specie non sia endemica del paese (ad esempio, la categoria più alta a livello nazionale è spesso un riflesso del rischio più elevato di estinzione che una sottopopolazione corre rispetto all'intera popolazione globale). Quindi, supponendo che tutte le valutazioni riguardino le stesse specie e siano condotte con un errore pari a zero, si prevede che le specie minacciate a livello nazionale siano più numerose di quelle a livello globale.

Per valutare lo sforzo di conservazione verso specie di rettili di interesse comunitario, un’analisi dei target dei progetti europei LIFE Natura può essere rappresentativa di quanto interesse tali animali suscitano nella Comunità Europea, uno dei maggiori organi di politiche di conservazione a livello mondiale. Interrogando il portale pubblico dei database LIFE (https://webgate.ec.europa.eu/life/publicWebsite/search/advanced) si può verificare che di 1869 progetti LIFE Natura cofinanziati dall’Unione Europea dal 1992 a oggi, solo il 2% (39) ha come organismo target una o più specie di rettili. Se escludiamo le specie marine, solo l’1% (23) dei progetti LIFE Natura ha come obiettivo la conservazione di specie di rettili terresti o d’acqua dolce dei quali solamente 3 sono svolti esclusivamente in Italia. È evidente quindi come, a dispetto di uno stato di conservazione non ottimale, le specie di rettili non siano attenzionate con strumenti di tutela alla stessa stregua di altri vertebrati. Nel bando LIFE Natura del 2022, delle 122 proposte di progetti LIFE Natura valutate dalla Commissione Europea solo due erano inerenti alla conservazione di specie di anfibi e rettili e solo una di queste è stata finanziata tra le 33 totali. Si tratta di un progetto incentrato sulla conservazione della lucertola delle Eolie, Podarcis raffonei, endemica dell’arcipelago omonimo (Conservation of the Aeolian wall lizard, through translocation, reintroduction, and habitat restoration. LIFE22-NAT-IT-LIFE-EOLIZARD/101114121) che prevede diverse azioni al fine di garantire la tutela e la persistenza a lungo termine per uno dei vertebrati europei a più alto rischio di estinzione.

 

Il caso della lucertola delle Eolie (Podarcis raffonei)

La lucertola delle Eolie, Podarcis raffonei (Mertens, 1952), è considerata tra gli elementi di maggior pregio che caratterizzano la diversità dell’erpetofauna su scala regionale e nazionale.Specie endemica esclusiva delle Isole Eolie, Podarcis raffonei, sopravvive attualmente in sole quattro stazioni relitte e geograficamente isolate tra loro con una consistenza numerica stimata in circa 2000 individui, ed è per questo stata inclusa tra le specie criticamente minacciate di estinzione (CR) nella Lista Rossa dell’IUCN.

Prima dell’arrivo dell’uomo, la lucertola delle Eolie era verosimilmente diffusa su gran parte delle isole dell’arcipelago. Oggi, invece, P. raffonei rimane confinata a Vulcano sul promontorio di Capo Grosso, a Strombolicchio, Scoglio Faraglione e La Canna. In tutte le isola maggiori dell’arcipelago, è presente la lucertola campestre P. siculus con cui P. raffonei si ibridizza e con la quale è in atto un processo di esclusione competitiva che sembra avere relegato P. raffonei in ambienti sub-ottimali (rocce esposte con poca vegetazione) e portato all’estinzione locale della lucertola delle Eolie dalla quasi totalità delle isole principali. Sull’isola di Vulcano, l’ultima ad essere stata colonizzata dall’uomo per via dell’intensa attività vulcanica che si è interrotta solo alla fine del XIX secolo, e l’ultima isola maggiore dove ancora sopravvive P. raffonei, è stato possibile osservare l’interazione tra la lucertola delle Eolie e la lucertola campestre introdotta dall’uomo. Quando negli anni ’80 e ’90 il dr. Massimo Capula descrive la lucertola delle Eolie, riconoscendola come specie distinta dai taxa siciliani, P. raffonei era ancora presente con diverse popolazioni sull’isola di Vulcano. Nell’arco di tre decadi oggi troviamo una singola popolazione di lucertola delle Eolie su un piccolo promontorio, e P. siculus presente e abbondante nel resto dell’isola. Insieme all’ arrivo di P. siculus sul promontorio, la sopravvivenza di questa popolazione è minacciata da un cambiamento di gestione del pascolo sull’isola. Infatti, fino al 2015 il promontorio veniva usato da pastori locali per il pascolo invernale delle capre. Da quando questa pratica è stata interrotta, la vegetazione avventizia ha iniziato una crescita incontrollata, andando a coprire le essenze tipiche del promontorio e favorendo un ambiente idoneo alla crescita demografica del ratto. La combinazione di questi due fattori sta determinando un peggioramento dello stato di questa popolazione di lucertola delle Eolie. Sono infatti diminuiti negli ultimi anni sia il numero di individui che le condizioni di salute delle lucertole (intese come massa corporea). Per migliorare lo stato di conservazione generale della lucertola delle Eolie e salvaguardare la sopravvivenza della popolazione di Capo Grosso nasce il progetto LIFE EOLIZARD.

LIFE EOLIZARD è un progetto quinquennale che vede la collaborazione di diversi enti di ricerca Nazionali e Internazionali coordinato dal Dipartimento di Scienze dell’Università degli Studi Roma Tre. Per garantire un futuro alla lucertola delle Eolie questo progetto prevede diverse azioni ambiziose e innovative: da una parte la protezione della popolazione di Capo Grosso controllando il numero di ratti e ripristinando l’habitat idoneo, contemporaneamente, l’istituzione di nuove popolazioni di P. raffonei e di un Santuario che ne garantisca la sopravvivenza a lungo termine. Per la creazione del Santuario è necessaria la disponibilità di isolotti “lizard-free” ovvero dove non sia presente la competitiva lucertola campestre. Isolotti con tali caratteristiche esistono nell’arcipelago ma sono tutti di dimensioni pari o inferiori a quelli ad oggi colonizzati dalla lucertola delle Eolie, e proprio per l’assenza di popolazioni vitali di lucertola non garantiscono la presenza di un habitat idoneo a supportare popolazioni di lacertidi. Per questo EOLIZARD ha previsto la traslocazione della lucertola campestre da due isolotti di dimensioni significativamente maggiori, gli isolotti di Lisca Bianca e Bottaro prospicienti l’isola di Panarea, per la creazione di nuove popolazioni di P. raffonei. Nei primi tre anni di progetto, tramite delle trappole a caduta disposte a rete sui due isolotti, saranno catturate le lucertole campestri presenti su Lisca Bianca (Fig. 7) e Bottaro, che dopo una breve detenzione saranno poi liberate sull’Isola di Panarea, abitata anch’essa da P. siculus. Contemporaneamente, nei centri di riproduzione in cattività costruiti appositamente con i fondi del progetto al Bioparco di Roma e a Malfa (Salina), saranno allevate in cattività lucertole delle Eolie provenienti dalle popolazioni di Scoglio Faraglione (Fig. 8) e Capo Grosso. Gli individui riproduttori saranno scelti grazie ad analisi genetiche e genomiche che permettono di caratterizzare gli individui e creare le coppie più idonee secondo criteri oggettivi, determinando la più alta varietà genetica possibile nelle nuove popolazioni a garanzia della massimizzazione della fitness degli animali da rilasciare nel santuario.

 

Letteratura citata

- Cox, N., Young, B. E., Bowles, P., Fernandez, M., Marin, J., Rapacciuolo, G., ... & Xie, Y. (2022). A global reptile assessment highlights shared conservation needs of tetrapods. Nature, 605(7909), 285-290.

- Sindaco, R., & Razzetti, E. (2021). An updated check-list of Italian amphibians and reptiles. Natural History Sciences, 8(2), 35-46.

- Todd, B. D., Willson, J. D., & Gibbons, J. W. (2010). The global status of reptiles and causes of their decline. Ecotoxicology of amphibians and reptiles, 47, 67.

Sforzi ricompensati, estinzione scampata. Il ritorno della lince

Valter Giuliano

Può anche accadere che specie che ritenevamo sull’orlo dell’estinzione, ritrovino nuovi spazi per garantirsi il futuro.
Al Parco nazionale del Gran Paradiso il regalo più importante per il compleanno centenario potrebbe averlo portato la lince. L’ha avvistata, a fine ottobre, una fototrappola che ha immortalato l’animale, rendendo certa la segnalazione. Tenendo, com’è prudente fare in queste situazioni, riservato il luogo esatto dell’avvistamento per proseguire le verifiche sulla effettiva presenza, al Parco dicono che si tratta, con ogni probabilità, di un individuo in dispersione, alla ricerca di nuovi territori.
Sin dagli anni ’80 si sono registrati avvistamenti dubbi e numerose segnalazioni. Ora, per la prima volta, la presenza viene documentata con certezza. L’ultimo dato di presenza certa della lince nel territorio del Parco risale al 1916, quando l’area protetta non era ancora stata istituita. Ai tempi della Riserva Reale di Caccia frequenti furono gli abbattimenti attuati dalle guardie, che erano incentivate al prelievo di quello che era considerato un nemico dello stambecco.
Sulle Alpi la specie si è estinta agli inizi del ‘900 a causa della persecuzione dell’uomo. Si registrano dati relativi agli ultimi esemplari nel Cadore (1837) in Alto Adige/Südtirol (1872), in Valle Roya (1918) e nella Val Varaita (1937).
Solo recentemente, dagli anni Ottanta, è ricomparsa in Italia con esemplari in transito, probabilmente provenienti da Svizzera e Slovenia. Sono state raccolte varie segnalazioni nelle valli di confine con Francia e Svizzera; le più recenti, documentate, ad agosto e novembre 2022, rispettivamente in Val Isorno (VCO) e in Val d’Ayas (AO).
La specie è invece al centro del Progetto Lince Italia che vede capofila l’Università di Torino e che ha promosso la reintroduzione del felino nel Tarvisiano, a fine novembre dello scorso anno, con cinque esemplari: due femmine provenienti dalla Svizzera, un maschio e una femmina dalla Romania e un maschio dalla Croazia.
Attualmente, tra Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige/Südtirol ci sarebbero tra i 10 e i 15 animali.
Osservazioni di lince sono state di recente effettuate anche in Valle d’Aosta, confermate dal Corpo Forestale Regionale, e queste ripetute segnalazioni fanno presagire la possibilità di un ritorno della preziosa specie. Se il ritorno al Parco del Gran Paradiso fosse confermato, riempirebbe un vuoto che dura da oltre un secolo. E al quale si cercò, qualche tempo fa, di porre rimedio.
Era la stagione in cui, grazie soprattutto all’impegno dell’allora direttore Francesco Framarin, furono presi in considerazione progetti di possibile restauro della biodiversità originaria, in particolare per quel che concerne la fauna. Una testimonianza scritta di quelle progettualità la si ritrova nello studio di Holloway C.W. & Jungius H., Reintroduzione di alcune specie di mammiferi  e di uccelli nel Parco Nazionale Gran Paradiso (1975).
Il ritorno del gipeto, il cui ultimo esemplare sulle Alpi venne abbattuto in Val di Rhêmes il 29 ottobre 1913, ha avuto successo e dal 1986 il maestoso uccello è tornato a volare libero nei cieli delle Alpi.
Non così è accaduto per la lontra in Vasavarenche, oggi presente con tre individui nel “Centro Lontra”, area faunistica a Rovenaud.
Meno che mai per la lince, il cui tentativo di reintroduzione si frantumò a causa del mancato arrivo delle femmine dal Parco degli Alti Tatra, nell’allora Cecoslovacchia.
Era una notte dell’estate 1975 quando insieme a un paio di altri coraggiosi partigiani dell’ambiente (eravamo le prime Guide della Natura del Parco) percorremmo le valli valdostane del Parco - non senza rischio e pericolo - incollando, educatamente, a fianco dei manifestini che attaccavano il Parco nazionale i nostri, che riportavano frasi dell’artista e poeta Samivel. Ha ricordato Piero Belletti che di quel “commando” faceva parte: «In quel periodo i rapporti tra parco nazionale e abitanti locali erano particolarmente tesi: la decisione della magistratura di Aosta di inglobare anche il fondovalle della Valsavarenche nel territorio protetto non era stata digerita dagli abitanti, che lo ritenevano una inattesa e imprevista violazione dei loro diritti. (...) Tra le prime iniziative di protesta vi fu appunto l’affissione di numerosi manifestini multicolori contenenti frasi tipo “PNGP=SPQR” e quella in vernice durevole sulla cappella del Buillet “Defenden les ommo, pas les fleures”, simmetrica nel regno vegetale a quella precedente di una decina d’anni, comparsa a Pescasseroli nel Parco nazionale d’Abruzzo: “Prima l’uomo, poi l’orso”». I testi dei nostri “tazebao” «inneggiavano all’importanza della tutela ambientale, come “Il parco nazionale protegge contro l’ignoranza e il vandalismo: beni e bellezze che appartengono a tutti”, “Acque libere, uomini liberi: qui comincia il paese della libertà, la libertà di comportarsi bene“, “Il parco nazionale è il grande giardino di tutti ed è anche una vostra eredità personale”».
Seppi anni dopo da un protagonista dell’impegno per la tutela della lingua francoprovenzale valdostana (in cui vennero scritte quelle rivendicazioni), di cui divenni amico, che il Parco in quegli anni fu messo nel mirino degli attacchi di chi si batteva per l’autonomismo regionale ed eretto a simbolo delle presunte vessazioni coloniali da parte dello Stato nazionale. Così mi spiegai quelle innaturali avversioni destinate fortunatamente a convertirsi, tempo dopo, in proficue collaborazioni.
Finimmo il nostro blitz ecologista confluendo all’alba nella casa del Parco di Rhêmes Notre Dame, dove nel frattempo erano arrivati a ristorarsi anche i guardaparco che nella notte avevano partecipato al tentativo di reintroduzione della lince con il lancio di alcuni esemplari.
Peccato che l’intesa con il parco nazionale cecoslovacco fece sì che vennero consegnati soltanto esemplari maschi, destinati ben presto a dileguarsi - come legge di natura vuole - alla ricerca di femmine rimaste distanti migliaia di chilometri.
Negli stessi anni la lince risultava peraltro presente in Svizzera, come mirabilmente raccontato in un bel documentario del 1988 di Michel Strobino (Au domaine du Lynx), presentato al Filmfestival di Trento. In terra elvetica si è prestata particolare attenzione alla tutela della specie.
Come è accaduto in Francia, dove uno specifico piano quinquennale è stato avviato per proteggere gli esemplari giunti attraverso la Svizzera a partire dagli anni Settanta e che ora si concentrano nei Vosgi e nel massiccio del Giura, dove vivono i 2/3 dei circa 150 individui presenti oltralpe.
Dell’Italia abbiamo detto. Della lince che sembra essere tornata in quel Gran Paradiso che quasi cinquant’anni fa avrebbe voluto riaccoglierla, ci auguriamo possa stabilizzarsi, per completare una catena biologica e alimentare preziosa per la biodiversità del territorio del Gran Paradiso.
Lasciatemi pensare che l’esemplare catturato dalle fototrappole possa essere un pronipote di una di quelle rilasciate, senza successo. che ha voluto tornare sulle tracce dei suoi antenati.

Mammiferi a rischio estinzione in Italia: il caso particolare della lince eurasiatica (Lynx lynx)

Paolo Molinari
Progetto Lince Italia – c/o Dipartimento di Scienze Veterinarie - Università di Torino
IUCN Cat Specialist Group

Il livello di biodiversità in Italia è notevole. Le specie sono molte e una percentuale importante (intorno al 10%) è addirittura endemica. Un’ampia varietà di questi animali è tuttavia soggetta a minacce concrete. Anche le specie in pericolo di estinzione non sono poche e riguardano anche i mammiferi del nostro paese. Da poco il Ministero dell’Ambiente e Federparchi hanno presentato le "liste rosse" di animali e vegetali in pericolo.Sono ben 161 le specie di animali vertebrati a rischio di estinzione secondo questa classifica in Italia. Tra i mammiferi i più numerosi l’ordine dei chirotteri, noti come pipistrelli. Tra i più eclatanti è menzionato l’orso bruno marsicano (Ursus arctos mariscanus). Discutibili diverse delle classificazioni, che appaiono spesso soggettive, frutto di scarse conoscenze (scarso o assente monitoraggio) o addirittura della semplice sconsiderazione delle conoscenze note. Ma nulla è perfetto, non è facile restare al passo e questa “lista” va considerata come un importante sforzo e un primo inizio su cui lavorare.

Al di là della lista, tra le specie che molti esperti definiscono a forte rischio, diverse sono quelle alpine, vittime soprattutto dei veloci cambiamenti climatici. Dalla lepre variabile (Lepus timidus), all’arvicola delle nevi (Chionomis nivalis) e all’ermellino (Mustela erminea); tra le specie diffuse anche in altri ambienti invece la donnola (Mustela nivalis) e la puzzola (Mustela putorius), o l’endemico scoiattolo nero meridionale (Sciurus meridionalis), per citarne solo alcuni tra quelli che però nella lista IUCN Italia sono considerati semplicemente come LC – Least Concern – ovvero con “minima preoccupazione”.

Quali le cause principali che portano a minacciare o addirittura al rischio di estinzione queste specie?
Perdita e distruzione degli habitat e il frazionamento degli stessi, inquinamento, commercio illegale, bracconaggio e cambiamenti climatici. Ma anche concorrenza con specie aliene invasive e cause indirette come il calo generale degli insetti o degli anfibi, intesi come fonte di cibo per alcune delle specie.

Come interpretare le classificazioni e i diversi livelli di minaccia, fino a quello di estinzione?
È importante fare chiarezza. Quando parliamo di specie minacciate o a rischio di estinzione, dobbiamo sempre specificare se si tratta di una considerazione globale o regionale, locale. Se riguarda la specie in genere, solo alcune popolazioni o nuclei isolati di esse. Una minaccia o una estinzione regionale/locale può essere anche un fenomeno temporaneo. Una situazione locale di scomparsa, percepita come estinzione, può essere considerata in chiave ecologica (a posteriori, dopo nuovi sviluppi), anche come un semplice periodo di assenza per restringimento provvisorio dell’areale di diffusione, causato da diverse delle ragioni sopra elencate. Per esempio, il caso del lupo in Appennino e nelle Alpi o dell’orso bruno nelle Alpi orientali italiane. Una minaccia può essere invece solo momentanea, ma poi rientrare per il miglioramento delle condizioni generali. Per dare il giusto peso alle diverse situazioni è pertanto necessario tenere conto di questi differenti fattori.

I criteri IUCN proprio per questo prevedono che a livello regionale è necessario una analisi più puntuale per decidere se la valutazione basata sui criteri generali necessiti di una correzione. Nel caso in cui una popolazione valutata a livello nazionale o regionale (locale) non abbia scambi con altre popolazioni al di fuori della regione considerata, la valutazione basata sui criteri globali risulterà corretta. Se invece si tratta solo di una parte di popolazione, la cui popolazione “sorgente” si trova in un altro stato, la valutazione potrebbe essere troppo pessimista o troppo ottimista. Nel caso in cui la popolazione sorgente sia stabile, infatti, la popolazione nazionale continuerà a ricevere l’apporto di individui dall’esterno, e il suo rischio di estinzione effettivo sarà più basso di quello stimato in base ai criteri. Se al contrario anche la popolazione sorgente è in declino, è possibile che in futuro non apporterà più individui alla popolazione nazionale. In questo caso il rischio di estinzione effettivo della popolazione nazionale sarà più alto di quello stimato in base ai criteri. Pertanto, la valutazione di rischio deve sempre tenere conto di queste considerazioni.

Valutazioni biologiche versus valutazioni politiche
È importante che le valutazioni biologiche sullo status delle specie e delle popolazioni siano fatte a livello di popolazione e su base biogeografica – ha poco senso farlo in considerazione dei confini amministrativi, politici e su base nazionale. Ma quando si parla di politiche e strategie di salvaguardia, di responsabilità nazionali, allora è importante fare anche una valutazione su livello nazionale. L’equilibrio tra le due varianti sarebbe l’approccio certamente più saggio e più proficuo per attente ed efficaci strategie di conservazione.

Una curiosità: le classificazioni IUCN e la lince eurasiatica
La lince eurasiatica è considerata oggi la specie di mammifero più rara del panorama faunistico nazionale. Parliamo di meno di 10 individui presenti sul territorio nazionale. In una tra le più importanti leggi nazionali che trattano la materia della gestione e conservazione della fauna, la 157 del 1992 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma), come in tutte le direttive comunitarie recepite in Italia è considerata come specie autoctona, degna di particolare tutela. Tuttavia nella nuova lista IUCN italiana (Lista Rossa IUCN dei vertebrati italiani), la specie lince compare addirittura nella categoria denominata “Non applicabile (NA)”. La definizione secondo le Linee Guida per l’Applicazione delle Categorie e Criteri IUCN a livello regionale è quindi quella di una “Categoria per un taxon ritenuto trascurabile ai fini della valutazione a livello regionale”. Qui sarebbe interessante capire cosa mai si sia inteso con la definizione “trascurabile”...

Sarà pure che dopo l’eradicazione è stata reintrodotta (come in tutti gli altri paesi alpini e mitteleuropei), ma la lince è pur sempre specie autoctona e gli esemplari utilizzati per i ripopolamenti sono tutti di origine carpatica, ovvero una popolazione che ancora meno di 200 anni fa viveva in continuità ecologica con le nostre linci originarie. La lince sarebbe “trascurabile” quindi solo perché compare in numeri bassi e in maniera discontinua? Non sarebbe più saggio e corretto, ragionando in termini ecologici e non troppo burocratici, riconoscere questa specie come parte del nostro patrimonio faunistico tra le specie severamente minacciate? Una inappropriata definizione potrebbe provocare disattenzione da parte delle istituzioni, con risvolti pesanti per la sua conservazione!

La lince nell’immaginario collettivo nazionale
Non solo tra i comuni cittadini, ma apparentemente anche tra gli scienziati la lince sembra rivestire ancora un ruolo subordinato – o perlomeno, viene percepita come specie “minore”. Maurizio Menicucci, noto giornalista scientifico di lei ha scritto: - “Avvistarla in natura non è mai stato facile, nemmeno in passato. A parte il mitico lincurio, una sorta di ambra dai mille pregi che si credeva derivasse dalla sua orina solidificata, non ha lasciato negli antichi bestiari le stesse tracce dell’orso, o del lupo, con il quale veniva confusa nel Medioevo, come indica il sinonimo di Lupo Cerviero.” E nonostante compaia come prima delle tre fiere incontrate da Dante nella selva oscura, nel Canto I dell'Inferno nella Divina Commedia (la lonza) o rappresenti il simbolo dell’Accademia dei Lincei, in Italia rimane “questa sconosciuta” e il peso relativo riconosciutole è conseguente. L’impressione è che sia trattata da tutti in maniera un po’ spiccia. Questa indifferenza o scarsa attenzione, difficile definire la considerazione che suscita, non facilita la lotta per la sua conservazione, che passa intanto dalla lotta contro una sua seconda estinzione a livello nazionale.

Scomparsa e ricomparsa
Il declino della lince in Italia e nelle Alpi iniziò già nel XIX, per completarsi agli inizi del XX secolo. Scomparì da tutto il Mitteleuropa. La ricomparsa avvenne negli anni 80 del secolo scorso grazie a progetti di reintroduzione effettuati in diversi paesi alpini. Quelli coronati dal miglior successo furono quello svizzero e quello sloveno, da cui poi alcuni individui sono immigrati spontaneamente. La lince eurasiatica invece non è mai stata presente nella parte peninsulare del nostro paese, in Appennino. Lì viveva un’altra specie, Lynx issiodorensis, scomparsa tuttavia già nel Pleistocene per cause non note.

Una seconda ricomparsa, per così dire, è quella che lentamente sta accadendo in questi ultimi anni in diverse parti dell’arco alpino italiano. In Val d’Aosta, Piemonte, Lombardia e anche Alto Adige si ripetono avvistamenti documentati di animali che si affacciano sul versante italiano delle Alpi. Si tratta perlopiù di giovani individui in dispersione della popolazione svizzera. Generalmente sono apparizioni timide e temporanee, ma è solo questione di tempo, che un individuo stabilirà in via definitiva il suo territorio anche in Italia. Meno di una decina i casi registrati nell’ultimo decennio, ma il trend è positivo.

Il caso “Lince Italia” - il rischio di una seconda estinzione e gli sforzi per la sua conservazione
Indipendentemente dalle classificazioni e dalle valutazioni sullo status della lince – la situazione italiana è semplice da riassumere. La presenza moderna del grande felino nel nostro territorio inizia dalla fine degli anni millenovecentosettanta – in maniera continuativa nelle estreme Alpi sud-orientali del Friuli Venezia Giulia (Tarvisiano) dal 1986. Due i nuclei che si erano formati. Uno nei Lagorai (TN), dove tra il 1989 ed il 1997 era presente un esiguo numero di individui di probabile origine svizzera e che poi si è nuovamente spento un solo decennio dopo. Un secondo nelle Alpi Carniche e Giulie del Tarvisiano, con una prima comparsa documentata nel 1979, che si è mantenuto fino ai giorni nostri. Il momento migliore è situato alla fine del XX secolo, con la specie ben radicata sul territorio e in espansione. Frutto delle buone condizioni in cui allora versava la popolazione sorgente, ovvero quella dei Monti Dinarici a cavallo tra Slovenia e Croazia e il cui nucleo alpino poteva considerarsi la sua espansione nord-occidentale.

Poi a partire dagli anni 2.000 – 2.002 i monitoraggi effettuati in Slovenia, Austria e Italia rilevavano tutti un’inversione di trend e un calo, sempre più evidente, che si è protratto sino ai giorni nostri. Subito erano iniziate le indagini per identificarne le cause – e dato che dei sospetti c’erano, sono state presto identificate. Ricercatori sloveni e croati hanno potuto evidenziare una depressione da consanguineità. L'analisi di 204 campioni mostrava una bassa variabilità genetica e un notevole livello di consanguineità con valori distanti da quelli della popolazione di origine dei Carpazi. Gli effetti più devastanti di questo problema consistevano in una forte riduzione del tasso di fertilità. All’origine del problema, un numero troppo esiguo di animali fondatori della nuova popolazione.

Analisi effettuate con l’aiuto di modelli matematici mostravano il concreto rischio di una seconda estinzione della specie. Una sola la soluzione: - un rinforzo numerico e genetico della popolazione in crisi con nuovi soggetti di origine carpatica, in grado di rinfrescare geneticamente la popolazione sofferente.

Il Progetto ULyCA (Urgent Lynx Conservation Action)
Note le cause, i primi a reagire sono stati gli italiani. Una cordata formata dal Corpo Forestale dello Stato, la Regione Friuli Venezia Giulia e il Progetto Lince Italia (un gruppo di esperti riunito in una associazione di ricerca con sede all’Università di Torino), per salvare l’ultimo nucleo presente sul territorio italiano e contribuire a un miglioramento delle condizioni dell’intera popolazione presente nei Monti Dinarici e nelle Alpi Sud-Orientali, hanno dato vita a un progetto urgente di rinforzo numerico e genetico del nucleo Tarvisiano. Per la realizzazione di questo progetto, insieme alle procedure amministrative e alla documentazione legale era necessario anche una cosiddetta “azione sociale”. Quell’iter fatto di informazione, comunicazione e coinvolgimento dei portatori di interesse e della cittadinanza in genere. Nei tempi record (per l’Italia) di un anno il progetto fu approvato ed iniziò la fase operativa che portò alla reintroduzione di due individui, un maschio e una femmina di origine svizzera ed il cui profilo genetico appariva idoneo. Nell’aprile del 2014 i due animali sono stati liberati nel cuore della Foresta di Tarvisio, dove vivevano gli ultimi tre individui delle Alpi italiane, progenie degli animali reintrodotti negli anni 1973 – 1977 in Slovenia e rispettivamente in Austria. E in contatto con le ultime linci delle Alpi Giulie e dei Monti Dinarici sloveni. L’effetto fu immediato, ancora nello stesso anno la femmina svizzera partorì due cuccioli. Ma il buon risultato fu limitato nel tempo. Il maschio, i confini nazionali in questo territorio sono vicini, si spostò in territorio austriaco e fu bracconato. Il momentaneo irrobustimento del nucleo fu di breve durata ed evidenziò la necessità di ulteriori azioni, più grandi e di respiro internazionale.

Prevenire l’estinzione della lince nei Monti Dinarici e nelle Alpi Sud-Orientali con misure di rinforzo e conservazione: - la storia di Life Lynx
Compresi i limiti di un progetto nazionale e locale, la comunità di esperti si mise al lavoro e con l’impulso dei ricercatori italiani nacque un gruppo di lavoro che diede vita ad uno dei più lunghi e complessi progetti LIFE. Un consorzio di 5 paesi con il comune intento di prevenire una seconda estinzione della specie nell’areale dinarico e sud-est alpino. Slovenia, Croazia e Italia come cosiddetti “paesi riceventi” e Slovacchia e Romania come “paesi donatori” di lince. In tutto 11 partner, 10 organizzazioni di supporto e 6 tra organizzazioni ed enti cofinanziatori; coordinatore del progetto il Servizio Forestale di Stato della Slovenia – partner italiani il CUFAA (Comando Unità Forestale, Ambientale e Agroalimentare – per semplificare i Carabinieri Forestali) e il Progetto Lince Italia. Un progetto suddiviso in 7 azioni e quindi in 35 differenti attività subordinate e dedicate a tutte le esigenze e problematiche connesse al tema della conservazione della lince. Dalle azioni di “public awareness”, di informazione e comunicazione del pubblico, al coinvolgimento dei portatori di interesse, dalle azioni antibracconaggio alla collaborazione con i cacciatori, dalla ricerca di campo alla redazione di pubblicazioni tecnico-scientifiche e documenti pubblici (piani di gestione), dal monitoraggio, alla cattura e al rilascio degli individui. Un progetto impegnativo, ma la cui ampiezza di intervento era necessaria per non lasciare nulla al caso.

L’obiettivo di base era rappresentato dal rilascio di individui che rinforzassero numericamente e geneticamente la popolazione in declino e in sofferenza dei Monti Dinarici e delle Alpi Sud-orientali. 12 gli animali rilasciati nei Monti Dinarici e 6 quelli nelle Alpi Giulie Slovene. Già nel secondo anno dopo i rilasci sono avvenute le prime perdite (accidentali, bracconaggio), ma anche le prime riproduzioni. Oltre una dozzina nel settore dinarico e ben nove nell’area alpina. Un fattivo apporto a una popolazione in difficoltà.

Il Progetto ULyCA2
E in Italia? In Italia è stato necessario affrontare un problema supplementare. La fase più delicata di programmazione del progetto LIFE Lynx coincideva con l’assorbimento del Corpo Forestale dello Stato nell’Arma dei Carabinieri, provocando una fase di stallo in cui l’amministrazione italiana non è stata in grado di prendere certe decisioni e siglare accordi. Tra questi quelli con i paesi donatori per la fornitura delle linci da rilasciare sul territorio nazionale. È stato pertanto necessario creare un progetto ad hoc – esterno ma strettamente coordinato con – e integrato nel LIFE Lynx, che consentisse di coprire questa lacuna. Nasce così il progetto ULyCA2 – un consorzio tra i neocostituiti Carabinieri Forestali, la Regione Friuli Venezia Giulia e il Progetto Lince Italia.

Nonostante le premesse e il lavoro preparatorio del LIFE Lynx, un progetto davvero complesso, soprattutto per la particolarmente macchinosa burocrazia italiana e il contesto sociale particolarmente variegato. La chiave di volta un attento lavoro di coinvolgimento delle parti, che alla fine è stato premiato con la partecipazione dei più diversi portatori di interesse, in primis il mondo venatorio (una associazione delle principali federazioni ed associazioni venatorie) e il WWF, che ha anche sostenuto finanziariamente l’operazione. Un lavoro certosino ed estenuante di coinvolgimento delle parti, di comunicazione ed informazione, di mediazione tra i diversi stakeholder, con ideologie che spesso si trovavano su fronti opposti.

Il risultato è stata l’approvazione del progetto per la ricostituzione di un nuovo nucleo anche nelle Alpi Giulie italiane. Così in Foresta di Tarvisio tra marzo e giugno 2023 sono stati liberati 5 individui. Due femmine di origine Svizzera (catena del Giura), un maschio e una femmina provenienti dai Carpazi rumeni e un maschio di origine dinarica (Croazia), creando un mix genetico perfetto per contrastare le problematiche che avevano portato, in primis, al degrado della popolazione.

Stepping stone Tarvisiano
Perché tutti questi sforzi convogliavano proprio nel Tarvisiano? Le ragioni sono diverse. Innanzitutto la biogeografia del territorio, davvero speciale ed unica per l’Italia e l’intero arco alpino. Dove scemano le Alpi Sud-orientali per incontrare i Monti Dinarici (e poi in continuità i Balcani), si incontrano tre catene montuose minori. Le Alpi Carniche, le Alpi Giulie e le Caravanche. Sulla Sella di Camporosso, nel cuore della Foresta di Tarvisio, si trova uno dei più importanti spartiacque. Ad ovest tutte le acque confluiscono nel bacino del Tagliamento e sfociano nel Mar Adriatico, ad est nel Bacino della Drava, quindi Danubio, per finire nel Mar Nero. Si tratta di uno dei più importanti corridoi faunistici delle Alpi. Da qui in passato sono rientrati in Italia specie come il cervo e l’orso bruno, più tardi la lontra e il gatto selvatico e infine anche il castoro.

Altri punti favorevoli per la scelta del territorio sono la buona presenza di prede, il fatto che negli anni ‘1980 le linci sono immigrate spontaneamente in Italia proprio qui, il fatto che si tratta di un’area ben gestita e protetta da una foresta demaniale e diverse zone SIC e ZPS, ma anche perché attentamente monitorata da oltre 30 anni, garantendo un ottimo controllo degli sviluppi delle dinamiche faunistiche, lince e attività di salvaguardia in primis.

Per tutte queste ragioni il Tarvisiano è stato quindi scelto come ideale “territorio passerella” tra la popolazione di lince dinarica e quella delle Alpi occidentali in Svizzera. Tecnicamente queste zone vengono chiamate “stepping stone”. Nella strategia generale di conservazione della lince perseguita nel progetto superordinato LIFE Lynx e per rafforzare l’azione, si è optato per costituire due di queste passerelle – entrambe nelle Alpi Giulie – una in Slovenia e una in Italia.

La dimensione umana
La Human Dimension in queste operazioni è ormai divenuta uno dei tasselli strategici più importanti. Non solo perché il coinvolgimento delle parti interessate, pubbliche ma anche no, è importante, ma anche perché nei tempi in cui viviamo ed in cui la circolazione di informazioni ha subito delle accelerazioni folli, è importante informare il più possibile. Volutamente non diciamo informare “tutti”, perché è impossibile. Ma il numero maggiore di categorie e persone possibile. Cosa non facile, vista la bulimia informativa di cui troppi ormai sono vittima. Leggere acriticamente tutto ciò che capita a tiro, comprese le opinioni vomitate sui social media da perfetti ignoranti, ma con la morbosa volontà di dire la propria di un argomento di cui conoscono troppo poco, è uno dei mali da contrastare con una politica informativa più lenta e ragionata. Sfida enorme! Non è possibile e non è nelle corde rispondere a tutti coloro che si rivolgono a noi attraverso i vari canali di informazione. Si cerca di informare il più possibile, con il supporto di esperti in materia - di sociologia, informazione e comunicazione, ma si potrebbe fare ancora di più. Nel progetto LIFE Lynx e soprattutto in ULyCA2 abbiamo posto molta attenzione a questi fenomeni e soprattutto a coinvolgere in maniera trasparente e costruttiva le categorie più interessate dal ritorno della lince. Per capire meglio la percezione e le preoccupazioni del pubblico, abbiamo fatto fare dei sondaggi, naturalmente a ditte professioniste ed indipendenti. I risultati sono stati utilissimi a capire i problemi e calibrare le azioni. Alla fine, il fatto di poter annoverare tra i partner del progetto il mondo venatorio e il WWF, insieme per lo stesso obiettivo, credo possa essere considerata già una piccola conquista.

Sempre Menicucci, giornalista scientifico e attento osservatore di quanto accade nel panorama della gestione faunistica in Italia in proposito ha scritto: - “Reintrodurre una specie come la lince è tutt’altro che semplice. Al contrario di quanto si pensava pochi anni fa, e questo spiega i numerosi fallimenti, la reimmissione di un selvatico non è un inizio, ma un esito. Viene dopo un lungo percorso, scientifico e politico, che comporta complessi accordi per lo scambio di animali, e controlli di veterinari, esperti ed enti faunistici.
Esige, soprattutto, il consenso convinto delle tante parti coinvolte: allevatori, agricoltori, enti turistici, associazioni ambientaliste, naturalisti, enti di tutela. Le preoccupazioni suscitate dal ritorno di un altro superpredatore sono diffuse”.

Best practice
Piace dirlo in inglese, molti hanno la percezione che si tratti così di qualcosa di più importante. Ma alla fine parliamo di una semplice buona pratica, ovvero un’esperienza che ha permesso di ottenere risultati eccellenti in un determinato ambito e che può fungere da esempio.

Il caso delle azioni attive di conservazione della lince eurasiatica, progetti LIFE Lynx e ULyCA possono essere presi in Italia certamente come buon esempio. Per il modo in cui tutto è stato programmato, per la tempistica (breve, anche se a monte ci sono decenni di esperienza e dati e informazioni) e per i costi (incredibilmente bassi rispetto a progetti mastodontici che divorano parcelle smisurate per consulenze... diciamo discutibili). Ma anche per la serietà, per fede alla deontologia ed etica professionale. Non mancano purtroppo esempi opposti, si pensi soltanto alla storia del ritorno del castoro in Appennino. Dove tutto è avvenuto nella perfetta clandestinità e ora viene scontato, ridotto e declassato a una birichinata... o come risultante del fato. La legge lo definirebbe probabilmente come atto di “ignoranza inevitabile”, ovvero la risultante di una situazione di ignoranza assolutamente eccezionale in cui versi il soggetto agente. Comunque sia, inquietante il silenzio delle istituzioni.

La complessità dell’operazione lince – in chiave socio-politica, amministrativa, biologica ed ecologica, per la necessità di operare in maniera internazionale e per la gestione di una mole di inevitabili imprevisti (che tali operazioni, in cui comunque a comandare è ancora la natura, pone), era ed è notevole e imponeva la massima attenzione ed integrità dai primi passi.

Monitoraggio
In tutto questo progetto, dalle sue premesse a quello che verrà dopo come azioni, il monitoraggio ha giocato, gioca e giocherà un ruolo fondamentale. Senza una buona conoscenza dello status, è difficile programmare azioni di conservazione, ancor più se a fronte di un rischio concreto di estinzione (seppur locale), che dovrebbero fondarsi su scelte gestionali robuste, che a loro volta dipendono da una buona conoscenza che deriva da un serio monitoraggio.

Anche in questo “la questione lince” può essere considerata una buona pratica. Ormai trent’anni fa, quando un gruppo di esperti stava sforzandosi di comprendere gli errori gestionali e quindi del monitoraggio compiuti nella penisola iberica (corresponsabili del drammatico declino della lince iberica (Lynx pardinus) che ha rischiato l’estinzione come specie), nascevano i primi sforzi per creare un sistema nuovo ed efficace di monitoraggio. Nella sua programmazione, nel suo svolgimento e infine nell’elaborazione e interpretazione delle informazioni raccolte. Nacque così la SCALP (Status and Conservation of Alpine Lynx Population), una associazione di esperti degli 8 paesi alpini, che elaborarono un metodo che è stato determinante per la salvaguardia della lince e che poi ha fatto scuola. Ormai viene applicato per una moltitudine di specie e in progetti di conservazione in tutti i continenti. Oggi il sistema può essere considerato robusto e in grado di valutare oggettivamente lo status di una popolazione. Purché il monitoraggio lo si faccia seriamente. Purché sia fatto un monitoraggio. Attività fondamentale per ogni operazione di gestione e conservazione della fauna, ma non solo.

Alti e bassi
Nonostante i buoni risultati a cui gli sforzi del lavoro con la lince hanno portato e nonostante quelle che a noi piace indicare come buone pratiche, la storia della conservazione della lince, anche quella attuale, non è fatta solo di successi e buone pratiche. Tutt’altro, non mancano le sconfitte e le ricadute. Uno di questi casi negativi è stato per esempio il bracconaggio di una delle linci liberate qualche mese prima. Appena aveva passato il confine verso l’Austria, era incappata in una persona malvagia, che l’ha sconsideratamente uccisa. Nonostante anche le autorità ed i cacciatori austriaci erano informati e avevano condiviso il senso dell’operazione italiana ed internazionale a salvaguardia della lince eurasiatica, la scelleratezza di uno di quegli individui di cui purtroppo tutti i rami della società, anche i più benpensanti, non sono indenni di avere tra le proprie file, ha rimesso in discussione molte attività. All’incomprensione per il gesto e la delusione del team di progetto, si sono poi aggiunte anche le critiche. Tra di esse quella sulla nostra responsabilità “di aver mandato al macello” un animale che prima di essere traslocato, viveva serenamente da un’altra parte. Certo, quale torto a questa affermazione. I ricercatori sono perfettamente consapevoli del fatto che progetti come questi sono molto invasivi per gli animali. Ma le scelte operate sono fatte pensando al benessere superordinato di una popolazione e di una specie. Per questo la scelta di procedere, pur a fronte di rischi e sforzi a cui singoli individui sono potenzialmente soggetti. Ma fermare queste attività per un abbattimento, perchè “così hanno vinto loro” (i malvagi, i detrattori della lince, dei grandi carnivori) proprio no! Sarebbe come arrendersi e cessare la lotta alla mafia perché dei malviventi hanno ucciso l’ennesimo rappresentante delle istituzioni. Il fatto che il responsabile del vile atto sia stato comunque individuato, e che prima ancora di essere condannato sia già un emarginato, anche nel mondo venatorio, fa comunque ben sperare. Il fatto che a fronte di alcuni animali morti ce ne sono una ventina già nati e discendenti degli animali reintrodotti e che stanno ricolonizzando nuovi territori, fa ben sperare. Il fatto che nella neve caduta copiosa in questi giorni in Foresta di Tarvisio si intravedano nuovamente le tracce del grande ed elusivo felino, fa ben sperare. Tra alti e bassi quindi l’impegno continua, per evitare che la lince non compaia tra le specie definitivamente estinte in Italia e nelle Alpi. 

Le specie di uccelli di interesse conservazionistico a rischio di estinzione in Italia

Marco Gustin
Responsabile Specie Ricerca Lipu

Per analizzare le specie a rischio di estinzione in Italia e nel mondo, ci si avvale di una metodologia autorevole e sperimentata quale quella della Red List dell’IUCN. Il concetto di Lista Rossa è stato infatti introdotto dall’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura), per promuovere un approccio standardizzato che riguarda tutta la biodiversità, compresa la Classe degli Uccelli.

La metodologia e i criteri messa a punto dall’IUCN per la predisposizione delle Liste Rosse, ci permettono di valutare, il rischio di estinzione a livello di specie, fornendoci informazioni sul loro stato di conservazione, nonché sull’efficacia delle azioni che potrebbero essere intraprese per contrastarne i fattori di minaccia individuati.

Essendo gli Uccelli affidabili indicatori dello stato di salute dei nostri ecosistemi, non è un caso che agli uccelli sia stata dedicata una particolare attenzione da parte di coloro che fanno ricerca e grazie ai quali è stato possibile in molti casi avviare le prime attività legislative per la salvaguardia e la gestione di queste specie come nel caso della prima Direttiva Europea funzionale a questo scopo legiferata nel 1979 (Direttiva Uccelli 79/409), poi aggiornata nella 2009/147/CE.

E’ noto che gli ambienti italiani ospitano una fauna molto diversificata, essendo il nostro paese al centro
del bacino del Mediterraneo, ed essendo l’Italia tra i paesi europei tra quelli più ricchi e diversificati. Inoltre, complessivamente circa il 10% della fauna italiana è endemica e molte di queste specie sono seriamente minacciate dall’attività umana.

Sebbene in Italia circa il 21% del proprio territorio sia costituito da SIC (Siti di Interesse Comunitario) e ZPS (Zone a Protezione Speciale), all’interno della Rete Natura 2000, le azioni di conservazione sono tuttora largamente insufficienti a contrastare l’aumento delle pressioni antropiche sulle specie animali e vegetali.

La recente pubblicazione della Lista Rossa nazionale degli uccelli nidificanti nel 2021, ha avuto lo scopo
di aggiornare e valutare il rischio di estinzione delle specie ornitiche presenti in Italia.

Il nostro paese ospita quasi 300 specie di uccelli nidificanti, includendo anche quelle alloctone naturalizzate, un numero in continua e graduale positiva evoluzione, considerando che solo pochi anni fa il numero di specie nidificanti era inferiore alle 250 specie.

La recente Lista Rossa nazionale degli uccelli nidificanti, ha evidenziato che per un certo numero di specie vi è stato un netto aumento delle popolazioni nidificanti soprattutto nel caso di rapaci, in particolare quelli comuni (poiana, gheppio e sparviere) ma non solo (aquila di bonelli, grifone, aquila reale) così come per le specie legate alle zone umide. In profonda crisi invece le specie legate agli ecosistemi agricoli e alle praterie montane.

Ma quali sono le categorie del rischio di estinzione proposte da oltre un ventennio dalla IUCN?  

Si parte dalle specie che si ritiene siano estinte con certezza (Ex, Extinct), fino alla categoria a Minor Preoccupazione (LC, Least Concern), per le specie che non rischiano l’estinzione nel breve o medio termine.

Tra le specie estinte e quelle a Minor Preoccupazione troviamo le specie che rientrano nelle categorie che corrono un crescente rischio di estinzione: Vulnerabile (VU, Vulnerable), In Pericolo (EN, Endangered) e In Pericolo Critico (CR, Critically Endangered), per le quali vi è certamente bisogno di interventi specifici mirati per mitigare le minacce più importanti nei loro confronti ed evitare il rischio concreto di estinzione.
Oltre alle categorie di maggior rischio altre specie possono essere classificate come
Quasi Minacciate (NT, Near Threatened) se sono vicine ad una delle categorie di minaccia, o Carenti di Dati (DD, Data Deficient), qualora non si abbiano sufficienti informazioni per valutarne lo
stato. Esistono cinque criteri per assegnare una specie a una categoria della Lista Rossa che sono evidenziati nella tabella che segue.

 

Criteri per l’inclusione delle specie in una categoria della Lista Rossa IUCN.
Criterio Descrizione

Criterio

Descrizione

A

Popolazione in declino

B

Distribuzione ristretta in declino

c

Piccola popolazione in declino

D

Distribuzione molto ristretta o popolazione molto piccola

E

Analisi quantitativa del rischio di estinzione

 

Nessuna specie si è estinta in Italia dall’inizio del millennio. Alcune specie, anche oggetto di reintroduzione, poi fallita (gobbo rugginoso), si sono estinte nel novecento (ad esempio gru e avvoltoio monaco). Altre che si erano estinte in passato come falco pescatore (Toscana) e gipeto (Alpi) sono tornate a nidificare in Italia grazie a progetti di reintroduzione andati a buon fine (il falco pescatore è tornato a nidificare anche in Sardegna).

Le specie che rientrano in una categoria a rischio di estinzione sono 71, pari al 25.5% delle specie valutate, mentre circa la metà delle specie di uccelli nidificanti in Italia non è oggi a rischio di estinzione imminente.

Nel complesso lo stato di conservazione degli uccelli nidificanti in Italia è migliorato, anche se tale miglioramento come detto in precedenza non si registra in tutti gli ambienti. Molte specie mostrano una tendenza ad una certa tolleranza ambientale, ben adattate all’elevata densità di popolazione umana in particolare nelle aree più abitate come quelle planiziali.

Per la maggior parte degli ordini tassonomici si è osservata una stabilità o un miglioramento. Le uniche eccezioni sono rappresentate dai Falconiformi e dai Galliformi, nei quali lo stato di conservazione per questi ultimi si è complessivamente deteriorato, anche a causa della riduzione significativa delle praterie montane, a causa dell’abbandono delle aree agropastorali, che provoca un aumento “naturale” della riforestazione con la conseguente chiusura delle aree aperte. Al contrario, proprio per l’aumento delle foreste la grande maggioranza delle specie ornitiche forestali mostra popolazioni stabili o in aumento. Anche i cambiamenti climatici incidono negativamente su diverse specie di galliformi che caratterizzano gli ambienti montani quali pernice bianca e coturnice.

In ogni caso, le minacce più importanti per gli uccelli nidificanti in Italia, sono il cambiamento dei sistemi naturali, l’inquinamento, i cambiamenti climatici e l’agricoltura, così come l’aumento del numero di specie alloctone invasive che sono fortemente in aumento e di cui purtroppo conosciamo ancora molto poco in termini di interazione con quelle autoctone. Molte specie, più di quanto si creda, sono minacciate dal bracconaggio.

Nonostante la moltitudine di informazioni, molti processi che determinano lo stato di conservazione di diverse specie di uccelli rimangono ancora sconosciuti.

Nel complesso rispetto alla lista rossa precedente (2012), quella più recente (2021) evidenzia un aumento delle specie nelle categorie più a rischio (CR e EN).

In totale, il 3,9% delle specie di uccelli valutate è stato classificato In Pericolo Critico (CR) (contro il 2,8% del
2012), il 9,3% in Pericolo (EN) (contro il 9,1% nel 2012) e l’14,4% Vulnerabile (VU), mentre tale categoria
risultava del 18,3% nel 2012.

Non ci sono solo notizie negative. Ad esempio, aquila di Bonelli e grifone sono passate dalla categoria CR a EN, e NT rispettivamente, grazie ad un evidente miglioramento del loro status di conservazione.

Il numero limitato di coppie e l’estrema localizzazione dei siti riproduttivi rappresentano la minaccia principale per la maggior parte delle altre specie incluse nella categoria CR, come ad esempio voltolino,
schiribilla, mignattino comune, categoria che include nello stesso ambiente anche alcune specie di Passeriformi quali forapaglie comune e migliarino di palude tutte appartenenti a specie di ambiente acquatico.
Molte delle specie a rischio di estinzione importanti a livello conservazionistico sono minacciate dalla trasformazione degli habitat e dai cambiamenti nei sistemi agricoli come le specie legate agli ambienti aperti e steppici (ad es. calandra, averla capirossa e soprattutto lanario, la specie più a rischio di estinzione oggi in Italia).

In conclusione, sempre più specie sono minacciate dalla perdita di habitat e per cause dirette come le uccisioni legali e illegali o a causa degli effetti ancora poco conosciuti dei cambiamenti climatici, così come ancora poco conosciuta per diverse specie è l’entità reale delle singole popolazioni. A tutto ciò occorrerà porre rimedio se non vogliamo accrescere nei prossimi decenni il numero di specie nelle categorie di estinzione più elevata.

Non c’è dubbio, infine, che una maggiore attenzione andrà posta sulle specie che hanno una porzione significativa della popolazione europea concentrata nel nostro paese: queste dovranno avere la massima priorità. Sicuramente coturnice (l’Italia ospita il 26% della popolazione mondiale) e berta minore (l’Italia ospita il 65% della popolazione mondiale) sono tra queste.

I Pesci delle acque interne (Ciclostomi e Osteitti), i Vertebrati più minacciati di estinzione in Italia

Vincenzo Caputo Barucchi & Andrea Splendiani
Università Politecnica delle Marche, Ancona

Negli ultimi anni la sensibilità nei riguardi della natura è fortemente aumentata nel nostro Paese. In particolare, siamo ormai consapevoli che l’impatto indiscriminato dell’antropizzazione sul territorio determina dei cambiamenti spesso irreversibili a danno degli habitat naturali, sottraendo “spazio vitale” a molte specie di piante e animali per i quali la possibilità di una sopravvivenza a lungo termine è sempre più a rischio. Malgrado questa consapevolezza, l’opinione pubblica è generalmente molto attenta nei confronti di quegli animali più conosciuti e in un certo senso “empatici”, come gli Uccelli e i Mammiferi che rappresentano chiari esempi di specie carismatiche in grado di suscitare sentimenti di protezione e accudimento. A questo proposito, alcuni anni fa hanno fatto scalpore le pubbliche proteste, con sit-in in piazza, quando l’orsa Daniza, dopo l’aggressione verso un cercatore di funghi in Trentino, morì a causa di una dose eccessiva di sedativo somministratole durante la cattura. Ancora più emblematico è il caso recente dell’orsa JJ 4 responsabile dell’uccisione di un giovane podista, per la quale c’è stata una vera e propria “sollevazione popolare” (compresi i genitori della vittima) contro il suo abbattimento. Grande entusiasmo suscitano anche i salvamenti delle tartarughe marine, con grande festa di popolo quando esse – dopo un periodo di cure in qualche centro di recupero - vengono rilasciate in mare. Al contrario, scarso o nessun interesse provocano animali come Pesci, Anfibi e Rettili sui quali pesa tuttora una sorta di “discriminazione” dettata da pregiudizi che si sono sedimentati nell’immaginario collettivo fin dalla preistoria. In effetti, lucertole, serpenti e salamandre, sono percepiti come animali sgradevoli se non pericolosi, e ancora oggi un’innocua biscia o un orbettino rischiano di soccombere per le bastonate di un escursionista spaventato. I Pesci d’acqua dolce, poi - con particolare accanimento verso le trote - non sono percepiti come animali degni di tutela nemmeno nelle aree protette, dove in molti casi è tuttora possibile pescarli. Ve l’immaginate il putiferio che si solleverebbe se si proponesse di sparare a tordi e beccacce all’interno di un Parco Nazionale?

Eppure, sono proprio queste le specie più esposte alla minaccia di estinzione a causa della loro elevata specializzazione fisiologica ed ecologica e per la fragilità degli ambienti in cui vivono (1). Infatti, i Pesci sono adattati a una vita permanente nel mezzo acquatico, dal quale dipendono per la respirazione, la riproduzione e l’alimentazione: toglietelo dall’acqua, e il povero pesce morirà soffocato fra atroci sofferenze che purtroppo passeranno inossevate per la sua silenziosità (come spesso accade durante le gare di pesca, veri e propri “massacri legalizzati” che nessun animalista ha mai degnato di attenzione): un pesce infatti è l’animale muto per antonomasia! Inoltre, non va dimenticato che il territorio italiano per la sua complessa storia geologica e paleoclimatica, ospita un numero elevato di specie e/o popolazioni endemiche, con caratteristiche morfologiche e genetiche che si sono evolute esclusivamente nel nostro Paese: ciò rende questi animali di particolare preziosità sientifica, essendo diffusi unicamente in Italia (2) e, allo stesso tempo estremamente esposti al rischio di estinzione proprio per la limitatezza del loro areale di distribuzione: una volta scomparsi in Italia, la loro estinzione sarà globale e definitiva proprio perché non si trovano in nessun altro luogo al mondo!

Da un punto di vista evoluzionistico, l’Italia è così ricca di specie endemiche di Pesci d’acqua dolce perché ne ha favorito la sopravvivenza in condizioni di isolamento durante l’alternanza tra periodi glaciali e interglaciali che si sono susseguiti negli ultimi due milioni di anni. In particolare, il nostro territorio ha funzionato come un’area di rifugio nei periodi di freddo più intenso, quando l’Europa era sepolta sotto estese calotte di ghiaccio, mentre l’Italia ne era sostanzialmente priva nelle zone centro-meridionali e nelle isole maggiori che potevano perciò ospitare quelle specie che vi arrivavano da nord all’inseguimento di un ambiente favorevole; invece, nei periodi interglaciali caldi – come quello in cui viviamo attualmente - le specie legate a climi temperato-freddi sopravvissero rifugiandosi in quota o, nel caso delle trote, si spostarono via mare dal Nord Africa verso nord per colonizzare i corsi d’acqua della Calabria e della Sicilia, più freschi rispetto alle fiumare del Maghreb. In effetti, non tutti sanno che le trote appartengono alla stessa famiglia dei salmoni e, quando le condizioni climatiche lo permettono, possono assumere uno stile di vita anadromo, caratterizzato cioè da un ciclo vitale ripartito fra acque interne, per la riproduzione, e mare dove questi pesci migrano per nutrirsi. Nelle condizioni climatiche attuali questa possibilità, molto favorevole perché consente alle trote di alimentarsi in un ambiente più produttivo rispetto a quello delle acque interne, è possibile solo nell’Europa settentrionale, dove le trote hanno uno stile di vita simile a quello dei salmoni. Nell’area mediterranea, invece, ciò era possibile durante i periodi glaciali, quando le condizioni di salinità e temperatura del mare permettevano alle trote di spostarsi tra mare e fiumi. Questa capacità, oggi perduta per le trote che vivono nei corsi d’acqua italiani, era tipica delle popolazioni che vivevano in Calabria fra 13.000 e 11.000 anni fa, nell’ultima fase delle glaciazioni pleistoceniche. Queste trote, che alimentandosi e accrescendosi in mare, potevano raggiungere dimensioni molto grandi rispetto a quelle attuali (si stimano pesi anche fino a 15/20 chili), venivano attivamente pescate dagli uomini del Paleolitico, come testimonia una grande quantità di resti all’interno di un celebre complesso rupestre (La Grotta della Madonna) che si apre a ridosso del mare nei pressi dell’attuale abitato di Praia a Mare, in provincia di Cosenza. Qui la presenza umana è stata pressoché ininterrotta fin da allora, prima come ricovero preistorico, poi come cimitero romano e oggi come sito di un’antica chiesetta. I tantissimi frammenti ossei campionati dagli archeologi che da molti anni studiano questo importante sito calabrese, sono stati utilizzati come fonte di DNA, ancora leggibile malgrado i milleni trascorsi (3, 4). Questo studio ha permesso di ricostruire le caratteristiche genetiche delle trote di quell’epoca lontana, dimostrando la presenza di esemplari di provenienza magrebina che confermano, come detto prima, l’influenza dei cambiamenti climatici sulle migrazioni degli animali alla ricerca di ambienti favorevoli, come scherzosamente raccontato nei cartoni animati dell’”Era Glaciale”. Infatti, dopo l’ultimo “colpo di coda” delle glaciazioni (il periodo definito “Younger Dryas”, fra 13.000 e 11.000 anni fa circa) il clima dell’emisfero boreale cominciò a scaldarsi in modo rapidissimo: dall’analisi di campioni di ghiaccio artico e antartico, si è potuto stimare che le temperature si impennarono di circa 10/15 gradi in meno di un secolo (5)! Di queste trote di origine africana restano tutt’oggi poche popolazioni confinate in alcuni torrenti della Sicilia orientale, dove furono scoperte ai primi dell’Ottocento e battezzate come una nuova specie, Salmo cettii; mentre in Calabria si sono probabilmente estinte per la competizione con le trote già presenti in loco.

Il grosso problema per le trote native dei corsi d’acqua italiani (la trota fario mediterranea) è che da molti decenni un’errata politica gestionale rischia di portarle all’estinzione a causa dell’ibridazione con le trote di provenienza domestica che vengono immesse dei corsi d’acqua italiani a vantaggio della pesca sportiva (6). Queste trote sono state allevate a partire da esemplari selvatici dell’Europa centro-settentrionale, appartenenti a una specie diversa (la trota fario atlantica), ma in grado di ibridarsi con la specie nativa della quale ha ormai rimpiazzato i genomi originari in vasti territori dell’areale di distribuzione italiano. Se queste pratiche si potevano giustificare in passato, quando le conoscenze sulla biodiversità erano scarse, oggi non sono più ammissibili. È ormai chiaro, infatti, che fauna e flora sono il frutto di millenni di evoluzione e di adattamento alle condizioni ambientali locali: immettere specie e popolazioni alloctone significa alterare un equilibrio che si è formato nel corso di una lunga storia evolutiva. Per esempio, l’incrocio fra stock geneticamente diversi di trote native e alloctone produce ibridi con una bassa fitness e perciò con un elevato rischio di estinzione; in altri casi gli stock alloctoni possono sostituirsi completamente alle popolazioni native. Inoltre, pesci alloctoni, immessi a tonnellate nei nostri fiumi per soddisfare le richieste della pesca sportiva, creano un enorme squilibrio ecologico, essendo voraci predatori di altri Pesci e Anfibi già pesantemente minacciati da siccità e alluvioni. È davvero sorprendente che in un’epoca caratterizzata da una sempre maggior consapevoleza del danno ambientale arrecato dalle specie aliene, sia ormai all’opera da circa un anno una commissione ministeriale che, di concerto con le regioni, sta cercando una via di uscita per continuare a immettere nei nostri fiumi le trote alloctone di interesse piscatorio. Da voci di corridoio, sembra che l’escamotage sia dichiarare questi pesci “autoctoni” per legge, in modo da aggirare i sacrosanti divieti che ne bandiscono l’uso perché dannosi all’ambiente.

Se per la trota nativa l’ibridazione con quella aliena è una delle cause meglio conosciute e documentate della sua progressiva rarefazione, non bisogna però dimenticare che vi sono altre cause che incidono negativamente sulla sopravvivenza a lungo termine dei Pesci d’acqua dolce nel loro insieme. Un elemento molto critico è costituito da dighe, briglie e sbarramenti trasversali che sono stati costruiti sempre più numerosi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, per scopi irrigui o idroelettrici. Essi rappresentano un ostacolo fisico per quelle specie che continuano a migrare fra mare e acque interne anche nel contesto climatico attuale e che rappresentano una componente molto significativa della biodiversità dei Pesci delle acque dolci. Due di queste - per essere precisi - non sono nemmeno “tecnicamente” pesci, perché appartengono ai Ciclostomi, un gruppo di Vertebrati molto arcaici, privi come sono di mascelle e di pinne pari. Si tratta di due specie di lamprede, a buon diritto considerate dei “fossili viventi”. Infatti, le prime forme conosciute allo stato fossile, vissute oltre 300 milioni di anni fa, non sono molto diverse dalle specie attuali e come quest’ultime sono caratterizzate da una bocca circolare a forma di ventosa con la quale gli esemplari adulti aderiscono al corpo delle malcapitate prede (per lo più Pesci ossei), succhiandone il sangue. Anche questi animali migrano in mare per alimentarsi e tornano nei fiumi per la riproduzione, essendo però ostacolati dalla presenza di sbarramenti che ne impediscono la risalita verso le zone sorgive dove le uova vengono deposte. Attualmente, sembra che la più grande delle due lamprede italiane – la lampreda di mare – riesca a riprodursi solo in un fiume del versante tirrenico, mentre della lampreda di fiume si sono perse le tracce e probabilmente si è ormai estinta nei nostri fiumi (7). La situazione è migliore per le due specie che hanno interrotto i contatti col mare (la lampreda di ruscello e la lampreda padana), essendo sedentarie nelle acque dolci dove però non sono in grado di nutrirsi dopo la metamorfosi e sopravvivono come adulti solo per un breve periodo: giusto il tempo di riprodursi e morire subito dopo. La lampreda padana è particolarmente interessante da un punto di vista biogeografico in quanto rappresenta una specie endemica del territorio italiano, dove è presente in tutto il bacino del Po e nel fiume Potenza (nelle Marche) con una piccola popolazione isolata; inoltre, un’altra popolazione relitta si trova sull’altro versante dell’Adriatico, nel fiume Neretva in Coazia. Questa distribuzione separata delle due poolazioni più meridionali è particolarmente interessane in quanto è anch’essa la prova dei grandi cambiamenti climatici alla fine delle glaciazioni (8). Nell’ultima fase glaciale, infatti, la Pianura padana si estendeva verso sud verso sud fino all’altezza dell’attuale Abruzzo in quanto il livello del mare era di di circa 120 metri inferiore rispetto a quello attuale: di conseguenza, il fiume Po sfociava più o meno all’altezza di Pescara, ricevendo come tributari i fiumi delle Marche e alcuni corsi d’acqua balcanici come la Neretva. Un’altra specie relitta delle glaciazioni è la sanguinerola, un piccolo Pesce osseo della famiglia dei Ciprinidi anch’essa con una distribuzione padana e un nucleo relitto recentemente scoperto nell’alto corso del fiume Esino nelle Marche (9).

Anche un gruppo molto antico di Pesci ossei - gli storioni - era una volta rappresentato in Italia da tre specie, di cui una endemica, come testimoniano gli esemplari conservati nei Musei naturalistici italiani, datati tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Il Po e altri fiumi del bacino padano venivano risaliti da uno dei più grandi Pesci d’acqua dolce mai vissuti in Italia, il beluga o storione ladano, che può raggiungere i nove metri di lunghezza nelle femmine più grandi e che si è estinto in Italia nei primi anni Settanta del Novecento. Nel 2018 ne è stata tentata la reintroduzione nel fiume Ticino utilizzando esemplari di origine orientale (la specie è ancora presente nel Mar Caspio e nel Mar Nero), ma al momento l’esito di questo tentativo è ancora incerto. È davvero impressionante pensare che un animale che può produrre oltre sette milioni di uova per ogni stagione riproduttiva sia oggi scomparso in vaste zone del suo areale originario e sia considerato in pericolo critico di estinzione dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN). Oltre al problema delle dighe, bisogna poi considerare che il beluga è la fonte del caviale più pregiato, ricavato dall’ovario immaturo, per ottenere il quale le femmine vengono pescate e uccise, pregiudicando così il naturale reclutamento demografico delle popolazioni naturali. Fortunatamente, da alcuni anni gli storioni vengono allevati in acquacoltura e l’Italia risulta attualmente una delle principali produttrici; in particolare, il caviale viene ottenuto dai pesci in allevamento spremendo le uova manualmente: in tal modo non è necessario uccidere l’animale che sarà in grado di ricostituire il prezioso caviale negli anni seguenti. Anche lo storione cobice, endemico del Bacino adriatico, viene oggi considerato in periocolo critico se non  già estinto in natura. Fortunatamente, alcuni esemplari sono sopravvissuti in alcuni allevamenti e sono già in corso progetti europei (LIFE Natura) per tentare, anche in tal caso, la reintroduzione in natura. Inoltre, sembra che alcuni nuclei siano sopravvissuti nell’alto corso del Po grazie al fatto che gli storioni cobici sono pesci anadromi facoltativi e possono perciò completare tutto il ciclo vitale nelle acque dolci, senza la necessità di migrare verso il mare (10). Comunque, il repentino declino di questi antichi abitatori dei nostri fiumi sottolinea ancora una volta l’impatto deleterio di dighe e sbarramenti sulla capacità migratoria di questi e di altri Pesci come l’anguilla europea, anch’essa in drammatico declino negli ultimi anni e considerata a serio rischio di estinzione in Europa dall’IUCN. A differenza delle specie anadrome, l’anguilla è un pesce catadromo, che cioè compie il percorso inverso, alimentandosi nel fiumi per riprodursi in mare. Per secoli, tuttavia, si è ignorato dove si trovasse l’area destinata alla riproduzione. Solo nei primi anni Venti del Novecento, infatti, campionando le larve delle anguille che dall’Atlantico si spostano verso i fiumi europei, si è scoperto che il sito di massima concentrazione delle larve appena nate è il Mar dei Sargassi, di fronte alle coste della Florida, scoprendo così il “breeding ground” raggiunto dagli adulti dopo una migrazione di migliaia di chilometri. Gli adulti, infatti, estenuati dallo sforzo della migrazione e della riproduzione, muiono in massa subito dopo la deposizione delle uova e solo la generazione successiva, sotto forma di larve, tornerà verso le foci dei fiumi europei per la fase trofica. In altri paesi europei, più avanzati dell’Italia nell’ambito delle politiche di conservazione, già da decenni alla costruzione di briglie o dighe si accompagna la realizzazione delle cosiddette scale di rimonta, veri e propri passaggi per i pesci che permettono di aggirare l’ostacolo, favorendo così le migrazioni lungo il fiume per scopi trofici e riproduttivi e garantendo la continuità fra le popolazioni lungo il corso del fiume.

Infine, un cenno alle numerose specie di piccoli Pesci dulcicoli per lo più riferibili alla famiglia dei Ciprinidi, che rappresentano il gruppo attualmente più diversificato di Vertebrati delle acque interne. Non è possibile fornire un sia pur sommario elenco delle specie presenti in Italia per ragioni di spazio, ma basti dire che anche in tal caso molte di queste sono endemiche del territorio italiano e sono ancora poco studiate sia dal punto di vista sistematico sia della loro distribuzione geografica. Purtroppo, come già sottolineato in precedenza su questa rivista (11), le recenti modifiche alla normativa nazionale che di fatto liberalizzano l'introduzione in natura dei pesci alloctoni (12-13), rappresentano probabilmente la pietra tombale sulla vulnerabile biodiversità de Pesci delle acque interne italiane, ancora incompletamente conosciuta. Negli ultimi due decenni, la descrizione di una specie endemica di luccio e la convalida di due specie endemiche di barbo, evidenziano quanto siano ancora scarse le conoscenze sui pesci d'acqua dolce del nostro Paese. La presenza di voraci predatori alloctoni nei fiumi italiani porterà definitivamente all’estinzione una biodiversità già pesantemente minacciata dall’impatto antropico e dai cambiamenti climatici, destinata così a scomparire prima ancora di essere nota alla Scienza. Emblematico è il caso del siluro del Danubio, un vero è proprio “squalo” d’acqua dolce che può raggiungere oltre i due metri di lunghezza e che praticamente non ha predatori naturali in grado di contenerlo nei nostri corsi d’acqua; così, quando questo pesce dilaga in un fiume o in un lago divora tutto ciò che è alla portata della sua bocca gigantesca, e quando tutta la fauna acquatica si è esaurita, esso ha imparato a predare piccioni e altri Uccelli che vanno ad abbeverarsi sulla rive del fiume (14-15).

In definiva, come già sottolineato in altre occasioni (11), occorrerebbe considerare che anche i Pesci rappresentano una preziosa componente del patrimonio naturalistico del nostro Paese e, sebbene il loro aspetto freddo e viscido non stimoli l’empatia come un cerbiatto o un uccellino caduto dal nido, essi necessitano di tutta la nostra attenzione per evitare che si estinguano nel volgere di pochi anni. Purtroppo, tuttora le politiche di conservazione nei riguardi di questi animali sono del tutto inefficaci, sotto il pesante fardello del conflitto di interesse con la pesca sportiva; purtroppo, nuoce anche l’indifferenza verso animali considerati di scarso appeal anche da certo mondo ambientalista, pronto a scendere in piazza per l’orsa Daniza (16), ma apparentemente indifferente all’inarrestabile declino del popolo silenzioso e discreto dei Pesci d’acqua dolce.

CITAZIONI BIBLIOGRAFICHE/SITOGRAFIA

  1. C. Rondinini et al., Lista Rossa IUCN dei Vertebrati Italiani (Comitato Italiano IUCN e Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, 2022)
  2. M. Kottelat, J. Freyhof, Handbook of European freshwater fishes (Publications Kottelat, Cornol and Freyhof, Berlin, 2007)
  3. A. Splendiani et al., PLOS ONE, DOI:10.1371/journal.pone.0157975.g005 (2016).
  4. https://www.youtube.com/watch?v=LDsA2PRtu7c
  5. R. B. Alley, PNAS, 97 (4), 1331–1334 (2000)
  6. V. Caputo Barucchi et al., Journal of Fish Biology 65, 403-418 (2004)
  7. https://www.iucn.it/scheda.php?id=1233829055
  8. V. Caputo Barucchi et al., Journal of Fish Biology 75, 2344–2351(2009)
  9. V. Caputo Barucchi et al., The European Zoological Journal 89, 711-718 (2022)
  10. E. Marconato et al., Biologia Ambientale, 20 (1), 25-32 (2006)
  11. V. Caputo Barucchi et al., Natura e Società, numero 4, 16-19 (Ottobre 2022)
  12. Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, Decreto 2 aprile 2020 (20A02112)
  13. Decreto del Presidente della Repubblica Italiana, 5 luglio 2019, n. 102
  14. J. Cucherousset et al., PLOS ONE, 7 (12), e50840 (2012)
  15. https://www.youtube.com/watch?v=UZwPG_x6QEk
  16. https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/11/e-morto-lorso-daniza-la-provincia-non-e-sopravvissuta-alla-narcosi/1117359/

Specie vegetali estinte nell’Emilia-Romagna: una breve rassegna con alcuni casi particolarmente significativi

Alessandro Alessandrini

Secondo le categorie dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), un taxon è estinto quando non vi è alcun dubbio fondato per ritenere che l’ultimo individuo sia morto.
La definizione prosegue fissando alcuni criteri per giungere a questa conclusione: “un taxon è ritenuto estinto quando indagini esaustive in habitat conosciuti o potenziali, in intervalli di tempo appropriati, in tutto l’areale storico di distribuzione non hanno dato luogo ad alcuna osservazione. Le indagini devono essere eseguite in uno spazio temporale adeguato al ciclo vitale e alle forme biologiche del taxon.”
Questa premessa è utile per parlare del lavoro dei naturalisti che, quando affrontano il compito di stabilire se un taxon (specie, sottospecie o categorie inferiori) è estinto devono eseguire una valutazione basata su sopralluoghi mirati, svolti in diversi periodi e analizzando tutti i potenziali habitat. Per fortuna a volte (molto di rado per la verità) la valutazione viene smentita e quindi il taxon viene assegnato ad altre categorie di livello di minaccia. Per questo spesso nelle liste rosse lo status viene indicato come “(presumibilmente) estinto” e non solo per scaramanzia. Ad esempio, in Emilia-Romagna veniva considerata estinta Calamagrostis canescens, elofita montana la cui ultima segnalazione risaliva al 1947 per il Pratignano nell’Appennino modenese, mentre altre segnalazioni precedenti relative ad altre località erano risultate errate oppure non erano mai state confermate. Ritenuta dunque estinta è invece stata confermata proprio al Pratignano nel 2011 (rinvenimento di Matteo Gualmini).
Entrando nell’argomento specifico, si può intanto affermare che, in base a quanto registrato nella più recente Checklist della Flora italiana, edita nel 2018, (Bartolucci F., An updated checklist of the vascular flora native to Italy, Plants Biosystems, 152: 179-303, liberamente scaricabile) risultano Estinte a livello regionale 35 entità; tra queste risultano estinte per tutto il territorio italiano 6 specie. Va tenuto conto del fatto che nella stessa Checklist sono previste anche altre categorie, tra cui interessano qui anche le entità che non sono state rinvenute da molto tempo che risultano oltre 100. In questa categoria, che comprende entità per le quali non è possibile esprimere un giudizio sullo status di presenza, sono certamente presenti anche specie estinte a livello regionale. Ma, va sottolineato, è più facile dimostrare la presenza di una specie che non dimostrarne la scomparsa.
Vengono considerate estinte le entità un tempo presenti con certezza e che rientrano in tutti i criteri seguenti: 1. non sono state rinvenute da molto tempo quindi che nessuno dei ricercatori attuali ha mai confermato e 2. che erano presenti in località oggi completamente trasformate e che quindi non offrono più le condizioni di vita per la specie in questione. Va sottolineato che la flora del territorio regionale sta modificandosi con ritmi accelerati; questa modifica causa la diminuzione di alcune specie fino alla loro scomparsa e l’aumento di altre. Tutte queste rapide modifiche sono causate dall’aumento dell’impatto delle attività umane sul territorio; alcune fasce altitudinali subiscono un impatto minore; si tratta delle fasce dalla collinare alla subalpina; la pianura e la costa invece sono quelle più esposte; anche gli ambienti fluviali sono fortemente minacciati, con effetti diretti sulla flora. Le cause sono molte; alcune esercitano il loro impatto direttamente con la distruzione di habitat: agricoltura sempre più intensiva, aumento dell’urbanizzazione e delle reti infrastrutturali (strade e autostrade soprattutto); altre modificano la flora indirettamente come ad esempio il riscaldamento del clima.

Tentando una prima classificazione delle estinte, è possibile riunirle in alcune categorie, che rivelano problemi ambientali più generali; si tratta infatti di specie di ambienti umidi, di litorali sabbiosi e di commensali dei coltivi.

Specie di ambienti acquatici
Vengono collocate in questa categoria le specie che necessitano di un apporto significativo e continuo di acqua nel suolo o di acqua libera: ambienti fluviali, ambienti lotici sia di acque dolci che salmastre e marine. Nell’Emilia-Romagna continentale gli ambienti umidi hanno subito una fortissima riduzione, per cui la loro estensione è diminuita in modo impressionante; oltre alla riduzione areale gli ambienti acquatici hanno subito anche una forte semplificazione morfologica e quindi anche ecologica; è infatti stato modificato il profilo che in origine era graduale e naturale, ma è stato trasformato in scarpate molto ripide che impediscono la presenza di specie legate a distese fangose che un tempo erano molto estese e caratterizzavano nei periodi a bassa piovosità le zone umide originarie. Dal punto di vista vegetazionale questi ambienti si collocano nei Nanocyperion flavescentis, tipologia peraltro identificata come di importanza europea dalla Direttiva Habitat. Numerose specie estinte o fortemente minacciate sono legate proprio ad habitat di passaggio tra ambienti permanentemente umidi e rive emerse. Questo è un argomento complessivamente sottovalutato; negli ultimi decenni si è infatti assistito a un incremento delle superfici acquatiche in ambiente continentale, a volte anche oggetto di finanziamenti comunitari o con i cosiddetti Regolamenti agroambientali o con progetti LIFE Natura o LIFE Ambiente. Tuttavia, questi progetti hanno avuto come obiettivo il miglioramento dello status di conservazione di specie animali soprattutto ornitiche, mentre il patrimonio vegetale è stato quasi del tutto ignorato o visto in funzione della componente animale. Tra le specie vegetali estinte a livello locale legate agli ambienti umidi se ne possono qui portare ad esempio alcune.

Aldrovanda vesiculosa L. (Droseraceae)
Idrofita completamente galleggiante e di ridotte dimensioni, cattura piccoli organismi con un meccanismo a trappola; un tempo piuttosto diffusa in zone umide di molte regioni italiane, oggi sembra del tutto scomparsa dall’intera area italiana; è in forte declino o estinta in gran parte del suo areale eurasiatico. In Emilia-Romagna era stata anticamente segnalata nell’800 da Antonio Bertoloni che scrive “Legi in paludibus di Gandazzolo”. Poiché queste paludi sono oggi del tutto scomparse, eliminate dalle bonifiche, questa specie è scomparsa.

Marsilea quadrifolia L., Quadrifoglio d'acqua (Marsileaceae)
Felce acquatica radicante sul fondo, vive in acque poco profonde ed è in grado di superare periodi di emersione. Un tempo molto diffusa in diverse località di pianura; era infatti nota in tutte le province; gli ultimi dati sono relativi al Parmense; oggi sembra invece del tutto scomparsa, dopo una regressione durata diversi decenni.

Hippuris vulgaris L., Coda di cavallo acquatica (Plantaginaceae)
Di ambienti umidi e paludi, vive in acque non particolarmente profonde; sopporta anche condizioni temporanee di relativa aridità. Di distribuzione subcosmopolitica, come molte altre idrofite, in Italia questa specie è attualmente nota per numerose regioni. In Emilia-Romagna era anticamente piuttosto diffusa, accertata in tutte le Province, da cui è però progressivamente scomparsa a causa della scomparsa degli ambienti di vita. L’ultimo rinvenimento documentato è del 1975 per Valle Santa nel Ferrarese. Da allora mancano del tutto notizie.

Lathyrus palustris L., Cicerchia palustre (Fabaceae)
Specie a distribuzione generale di tipo circumboreale, quindi di climi freddi; la sua distribuzione italiana è limitata ad alcune regioni settentrionali dove tuttavia vive in condizioni critiche e minacciate. In Emilia-Romagna era nota per una sola località del Ferrarese, lungo il Panaro a Bondeno, dove venne raccolto un campione nel 1907, conservato nell’Erbario ferrarese. Dopo questo rinvenimento la specie non è più stata confermata. I fiumi nella pianura emiliana sono stati fortemente alterati, con arginature, irrigidimenti, confinamenti. Ciò ha causato la scomparsa di diverse specie tra cui anche Lathyrus palustris.

Limosella aquatica L., Limosella (Scrophulariaceae)
Pianta annua, a distribuzione circumboreale. In Italia presente attualmente in poche regioni: Lombardia, Piemonte e Calabria, mentre in numerose altre è scomparsa, ovvero non confermata da molto tempo. Per l’Emilia-Romagna venne segnalata in diverse località dal Piacentino al Modenese; ma si tratta di segnalazioni molto antiche e mai in seguito confermate.

Myosurus minimus L., Coda di topo (Ranunculacee)
Pianta annua, di piccole dimensioni a distribuzione generale subcosmopolitica; vive in ambienti temporaneamente inondati su diversi substrati, da calcareo-marnosi ad argilloso-limosi. In Italia è tuttora presente in 4 regioni meridionali, mentre risulta scomparsa in Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna. In quest’ultima era nota per una sola località al confine tra Modenese e Mantovano: Tramuschio. Da questa unica stazione vennero prelevati nel 1910 i campioni per la distribuzione nella Flora Italica Exsiccata. L’ultima segnalazione risale al 1947; la località venne successivamente del tutto modificata per cui, nonostante apposite e ripetute ricerche, non risulta più presente.

Stratiotes aloides L., Coltellaccia, Erba coltella dei fossi (Hydrocharitaceae)
Idrofita radicante, a distribuzione europeo-caucasica. La presenza italiana attuale è limitata a due regione, dove risulta introdotta. E’ invece estinta in Lombardia ed Emilia-Romagna, dove era nota nel Piacentino e nel Ferrarese. Per quest’ultimo era stata segnalata da Campana che ne aveva inviato un campione ad Antonio Bertoloni che così lo riportò nella Flora Italica: “Habui ex paludibus Ferrariensibus a Prof. Campana”. Oggi la specie non è più presente allo stato spontaneo; viene invece conservata ex-situ nell’area “La Bora” presso San Giovanni in Persiceto.

Specie di prati umidi e di altri habitat
Sono state qui riunite specie di altri habitat, dai prati umidi e mesici, alle formazioni forestali planiziarie fino alle rupi fresche; chiude questa parte un approfondimento sulle commensali delle colture.

Cirsium canum (L.) All., Cardo biancheggiante, Cirsio canuto (Asteraceae)
Specie a distribuzione generale Sud-Est europea, in Italia è attualmente accertata nel Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Lombardia. Di ambienti umidi, ai margini di acque scorrenti, era in Emilia nota nel Modenese nei fontanili di San Faustino alla periferia settentrionale di Modena. Il sito è stato del tutto trasformato, con la scomparsa dei fontanili; in precedenza, nei primi decenni del secolo scorso, campioni essiccati vennero distribuiti in numerosi esemplari nelle Schedae ad Floram Italicam Exsiccatam. Gli ultimi accertamenti risalgono al 1947; un campione è infatti conservato nell’Erbario di Modena, raccolto da Antonio Vaccari.

Spiranthes aestivalis (Poir.) Rich., Viticcini estivi (Orchidaceae)
Orchidacea a distribuzione mediterraneo-atlantica, vive in prati umidi dalla zona costiera fino alla fascia montana inferiore; in generale minacciata come l’habitat di vita non di rado oggetto di modifiche distruttive. In Italia risulta segnalata in 12 regioni del Centro-Nord e in Sardegna; tuttavia in ben 5 è estinta o non confermata; in Emilia-Romagna la sua presenza venne accertata da Pietro Zangheri al Bardello, un importante prato umido lungo la costa ravennate, a nord del Lamone. Qui, dove è stata cercata invano da diversi decenni, non risulta più presente.

Ranunculus mutinensis Pignatti, Ranuncolo modenese (Ranunculaceae)
Ranuncolo di ambiente forestale e radure, del gruppo R. auricomus, nel quale sono state descritte numerose agamospecie. R. mutinensis era noto al Bosco di Nonantola e al Bosco della Saliceta (o Bosco di San Felice), importanti formazioni forestali relitte nella pianura modenese distrutte per far luogo a coltivi negli anni ’50 del secolo scorso. Oggi sono in atto interventi di ricostituzione, ma questo Ranuncolo è irrimediabilmente scomparso. Venne raccolto da Adriano Fiori e distribuito nella Flora Italica Exsiccata, Si tratta dell’unico esempio di estinzione a livello globale, poiché si trattava di endemismo puntiforme dell’Emilia-Romagna.

Ambrosia maritima L., Ambrosia marittima (Asteraceae)
Asteracea annuale a distribuzione mediterranea, vive in ambienti sabbiosi litoranei. La sua presenza in Italia è ormai accertata solo in Sardegna, mentre in 14 regioni dell’Italia continentale e Sicilia è scomparsa o non confermata. In Emilia-Romagna era nota lungo tutta la costa, dal Ferrarese alla Mesola fino al Riminese. Oggi invece risulta del tutto scomparsa, mentre appare sostituita dalle meno esigenti congeneri A. tenuifolia e A. psylostachya che sono molto diffuse. La scomparsa appare verosimilmente conseguente alla profonda trasformazione e degradazione che hanno subito gli ambienti litoranei.

Appartiene alla categoria “non confermate” (si spera di ritrovarla) anche Maresia nana, nota anticamente per le dune costiere del Ferrarese, rinvenuta e segnalata da Augusto Béguinot nel 1910. ma mai finora confermata.

Asplenium sagittatum (DC.) Bunge (Asplenium hemionitis L., Scolopendrium h. Sw.), Scolopendria emionitide (Aspleniaceae)
Felce a distribuzione strettamente mediterranea, molto rara in tutto il territorio italiano; vive all’imboccatura di grotte, in fessure rupestri, pozzi e altri ambienti su calcare, umidi e ombrosi. In Emilia-Romagna era nota per una sola località nei Gessi romagnoli, dove venne rinvenuta e documentata da un collaboratore di Antonio Bertoloni, che lo pubblicò nella sua Flora Italica (“Habui ex districtu Forocorneliensi in monte Mauro alla Grotta di Tiberio a Tassinario”). Oggi è scomparsa per le modificate situazioni morfologiche e la conseguente diminuita umidità. Campioni prelevati da questa località vennero distribuita anche nelle Schedae ad Floram Italicam Exsiccatam. È in atto un tentativo di reintroduzione con materiale tratto da stazioni toscane, ma i risultati sono ancora da valutare.

Un ultimo argomento che va affrontato è quello delle specie commensali dei coltivi. Si tratta di piante con una storia biogeografica molto particolare; si ritiene infatti che siano giunte nel nostro territorio seguendo l’espansione della coltivazione dei cereali partendo dalla Mezzaluna fertile; in generale, semplificando molto, si tratta di una parte delle cosiddette archeofite, ovvero di piante esotiche ma il cui ingresso è precedente alla scoperta dell’America e quindi che possono essere considerate parte del patrimonio biologico nativo. A causa dell’intensificazione della lotta alle commensali messicole (che secondo alcuni rientrano nelle le cosiddette infestanti o malerbe) molte tra queste piante si sono drasticamente rarefatte, fino a scomparire da ampi territori oppure ad adattarsi marginalmente in altri habitat. Si tratta inoltre di specie annuali, adattate alle operazione colturali e quindi scarsamente competitive; può apparire paradossale, ma la sospensione del disturbo può causarne la scomparsa.

Tra gli esempi di estinzione regionale che possono essere proposti: Nigella arvensis, Camelina alyssum e Turgenia latifolia, i cui più recenti accertamenti risalgono a oltre un secolo fa. Anche Camelina sativa subsp. microcarpa (Andrz. ex DC.) Bonnier risulta scomparsa; gli ultimi accertamenti risalgono al 1937 per alcune località del Piacentino. Su quest’ultimo argomento può essere proposto un caso particolarissimo; fino a pochi anni fa infatti Gypsophila vaccaria (=Vaccaria hispanica), una Caryophyllacea commensale dei coltivi a cereali, era scomparsa in Emilia-Romagna, pur essendo un tempo ampiamente diffusa; è stata però rinvenuta da Giorgio Faggi, valente esploratore della flora romagnola, nella Pineta di Cervia proprio lungo la fascia che venne distrutta da una tromba d’aria alcuni anni fa. Evidentemente questo evento catastrofico ha riportato alla luce la “banca-semi” che nel caso specifico ha permesso a questa rara e bella specie di ripresentarsi nel territorio regionale; la sua presenza, tuttavia, ha molto probabilmente un destino breve; poco competitiva, sarà infatti facilmente sopraffatta dalla ricostituzione del manto vegetale.

Alcune conclusioni
Sono stati presentati alcuni esempi di specie vegetali scomparse dal territorio dell’Emilia-Romagna.
La prospettiva è che nei tempi futuri scompariranno anche altre specie, sia di ambienti umidi che di altri, principalmente in alta montagna. La componente boreale e i relitti glaciali sono molto minacciati a causa del riscaldamento globale. Le specie di climi freddi già oggi stanno diminuendo la loro presenza e stanno spostandosi verso l’alto, almeno finché sono disponibili aree di maggiore altitudine. Tra le specie per la quale mancano rinvenimenti negli anni più recenti va citato almeno Eriophorum scheuchzeri Hoppe di zone umide altomontane che è prossimo alla scomparsa. Allo stato attuale le possibilità di conservazione in situ sono assai poche; occorrerebbe intanto avviare un serio programma di monitoraggio, scientificamente orientato, delle specie più minacciate, tantopiù che molte delle specie minacciate si trovano in aree protette. In casi estremi sarebbero da attivare progetti di conservazione ex-situ. Alcuni esempi sono già in corso di realizzazione, ma si tratta di esperimenti lodevoli ma volontaristici. Come spesso purtroppo avviene, gli Enti pubblici sono quasi del tutto assenti. persino quelli che avrebbero tra i loro fini fondativi proprio quello della conservazione della natura.

Piante minacciate. Situazione nell’Italia nordorientale

Cesare Lasen

Introduzione
Il nostro pianeta soffre di febbre alta (espressione anche del pontefice Francesco I in Laudato si’) e continua a inviarci segnali inconfutabili attraverso la sempre maggiore frequenza e intensità di eventi estremi. La crisi climatica sta emergendo come il problema dei problemi e molti scienziati (i negazionisti sono ormai un nucleo insignificante e possono essere facilmente smentiti -come fa lo stesso pontefice nella Laudate Deum) concordano sull’estrema urgenza di assumere decisioni coraggiose e non dilatorie. Le conseguenze di tale crisi si manifestano in diversi settori e con differenti livelli di gravità. Non si tratta solo di analizzare e considerare gli aspetti ecologici in senso stretto, posto che la negatività investe ambiti sociali, economici e sanitari. Sarebbe un grave errore continuare a pensare che i problemi ecologici siano marginali e che altre siano le vere priorità: lavoro, crescita, benessere, ricerca della pace; tutti obiettivi nobili e condivisibili naturalmente. Oggigiorno questi diversi temi sono connessi strettamente e gli attuali conflitti, e la stessa pandemia da Covid19, non sono estranei a una matrice che affonda le radici nel continuo sconvolgimento degli equilibri ecosistemici in tutta la biosfera. Già prima dell’acuirsi di questa crisi globale, peraltro, le risorse naturali (che sono finite e rappresentano un bene non rinnovabile -se non in tempi assai lunghi) erano oggetto di continue pressioni al punto da determinare l’estinzione di numerose specie (animali, vegetali e anche organismi di altri regni meno indagati). I dati sono scientificamente indiscutibili e non il frutto di manipolazioni ideologiche, come spesso si argomenta da parte di politici e portatori di interessi economici.
In questo contributo, limitando l’attenzione alla flora vascolare, si proverà a fare un check sulla situazione delle specie minacciate nelle regioni alpine dell’Italia nordorientale.

Liste Rosse
A partire dall’inizio del millennio, e a seguito di prime liste nazionali, partendo dagli indirizzi suggeriti dalla convenzione sulla Biodiversità di Rio de Janeiro (1992), in alcune regioni sono stati avviati censimenti che hanno portato alla stesura di liste rosse locali (in tal senso le due province autonome di TN e BZ vanno considerate alla stessa stregua delle Regioni). Quasi sempre si è trattato di lavori frutto di appassionati e del volontariato supportati poi, per le fasi di stampa, dalle istituzioni. Il primo elenco pubblicato su scala regionale è quello del Trentino (Prosser, 2001) resa possibile dalla notevole mole di segnalazioni confluite nel progetto di cartografia floristica che è stato concepito e poi condotto esemplarmente dal Museo Civico di Rovereto. Lo status delle singole specie minacciate è stato definito secondo le regole internazionali della IUCN. Esse, utile ricordarlo, consistono in livelli di minaccia.
CR gravemente minacciate (critically endangered)
EN minacciate (endangered)
VU (vulnerabili)
NT (quasi a rischio)
Con la sigla LC (Least Concern) si “promuovono” le entità che al momento non risultano correre rischi, pur non essendo necessariamente fra le più comuni. Inoltre, con DD (Deficient Data) si indicano specie per le quali non si dispone di conoscenze adeguate (spesso appartenenti a gruppi critici o tassonomicamente ancora non ben precisate). Non mancano, purtroppo va detto, le entità considerate EX (estinte) o RE (estinte su base regionale). La procedura di assessment per definire lo status si fonda su vari criteri, assai complessi da riassumere e che riportano stime quantitative in verità non semplici da acquisire, al punto che alla fine è necessario ricorrere, in sostanza, al cosiddetto “Giudizio Esperto”. Esse tengono conto del numero e della consistenza delle popolazioni, delle dimensioni dell’areale e, soprattutto, del trend evolutivo osservato negli ultimi decenni, in particolare alla riduzione più o meno significativa delle popolazioni (e alla velocità di tale fenomeno).
Sulla base dell’esperienza diretta acquisita sul campo, si ritiene di premettere che risultano più importanti e interessanti le stime effettuate su base locale/regionale piuttosto che quelle su territori più ampi (da una nazione all’intero pianeta).

Stato delle conoscenze
La lista relativa alle specie a rischio su scala planetaria viene aggiornata ogni anno e si può scaricare dalla rete cliccando su IUCN. In proposito esistono delle convenzioni internazionali che riportano altre liste (ad esempio quella di Berna, o quella relativa all’allegato II (e IV di minore rilevanza) del sistema di Natura 2000. Il tema delle liste rosse si è storicamente palesato a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, con alcuni storici e fondamentali lavori (Conti, Manzi & Pedrotti 1993, 1997; AA.VV., 2001). Un apposito Gruppo di lavoro della Società Botanica Italiana ha pubblicato nelle sue riviste, vari contributi definendo, appunto, l’assessment delle specie più a rischio perché rientranti negli elenchi internazionali -le cosiddette Policy Species- oppure perché endemiche, allargando successivamente l’attenzione a quelle ritenute rare o di maggiore interesse (Rossi et al., 2008, 2013, 2020). Sarebbe eccessivo, per il nostro contributo, nominare tutti i contributi e, in considerazione della panoramica locale (transregionale), si riportano invece i riferimenti relativi alle singole regioni sulla base dei dati più aggiornati.

Per il Trentino, la sopraccitata storica lista di Prosser del 2001 è stata aggiornata con la pubblicazione della Flora del Trentino (Prosser et al., 2019).

Per l’Alto Adige fa ancora testo la lista pubblicata da Wilhalm & Hilpold (2006).

In Veneto, si è partiti dalla lista della Provincia di Belluno (Argenti & Lasen, 2004) per poi arrivare (Buffa et al., 2016) a una lista regionale che contiene anche le indicazioni per singole province. Evidenziate anche le entità minacciate nella Flora del Veneto (Argenti et al., 2019). Non mancano altri contributi più localizzati, ad esempio Masin 2020 per i Colli Euganei, Tasinazzo et al. 2006 per i Colli Berici, Lasen & Da Pozzo 2011 per le Dolomiti d’Ampezzo.  In Friuli-Venezia Giulia, in assenza di un vero elenco completo precedente, si fa riferimento alla recentissima flora con atlante corologico a cura di F. Martini (2023).

Esigenze di tutela della Biodiversità
A partire dalla Convenzione di Rio de Janeiro del 1992, documenti, appelli e piani strategici per limitare la perdita di biodiversità si sono moltiplicati. Non si tratta solo di tutelare specie selvatiche rare e a rischio, ma di una generale, eccessiva, semplificazione degli ecosistemi, anche e soprattutto di quelli soggetti a coltivazioni (agroecosistemi), ricordando che si è perso molto anche della biodiversità coltivata, ciò che corrisponde a un preoccupante impoverimento genetico. Non si tratta solo di specie, appunto, ma anche di comunità (biocenosi) che, per effetto dell’antropizzazione e del progressivo consumo di suolo, si riducono di dimensioni a causa della frammentazione degli habitat, fenomeno che incide poi sulla permeabilità e sulle connessioni interrompendo di fatto le residue reti ecologiche ancora attive e limitando sempre più la funzionalità degli ecosistemi.
Secondo D. Attenborough ormai meno del 3% degli ecosistemi terrestri può essere considerato integro. Ciò significa che si deve cambiare paradigma rapidamente e investire nella ricostituzione di habitat anziché continuare a esercitare forti pressioni sulle residue risorse naturalistiche, perfino nelle aree protette quali parchi, riserve e siti della rete Natura 2000. In altri termini è urgente un cambio di passo che è anzitutto culturale. Non è una novità, sentendo amministratori, ma anche professionisti e persone dotate di buona cultura, che siamo di fonte a un forte deficit di cultura ecologica di base e ciò consente che anche progetti devastanti vengano promossi e poi approvati nella generale indifferenza. La logica del “fare comunque”, del consumo che aumenta il PIL, dei controlli dovuti che si attenuano e vengono declassati a orpelli burocratici, sembra avere il sopravvento nell’attuale contesto politico (che è tale da decenni, peraltro), sia esso nazionale che regionale. Per chi si occupa da molti lustri di Conservazione della Natura, di aree protette, di temi ecologico-ambientali è da registrare un sostanziale arretramento culturale da definire come “analfabetismo ecologico” di ritorno.

Habitat minacciati
Prima di affrontare degli esempi riguardanti specie a forte rischio o anche localmente estinte, si reputa opportuno dedicare qualche nota agli habitat che, per effetto del cambiamento climatico, dell’abbandono colturale o della intensificazione delle coltivazioni e degli allevamenti, risultano più minacciati. Nelle liste rosse sopraccitate non è difficile riscontrare (anche con grafici e rappresentazioni di immediata lettura) che i diversi tipi di habitat ospitano, sia in termini assoluti che in percentuale, numeri molto variabili di specie minacciate.
Premesso che a livello floristico esistono anche specie che riescono a “difendersi” e vivere bene in contesti semi-ruderali, oppure in aree di margine non facilmente identificabili con riferimenti fitosociologici, le situazioni più critiche si manifestano negli ambienti estremi in cui vi è un singolo fattore ecologico prevalente. Gli ambienti umidi -inclusi quelli propriamente acquatici- e quelli arido-steppici, ad esempio, sono fra quelli a maggior rischio. I primi per via di eutrofizzazione, drenaggi, agricoltura intensiva ai margini. I secondi, quasi sempre, per assenza di manutenzione (sfalci) che favorisce il sia pur lento ingresso di specie legnose. Negli ambienti più mesofili, dove maggiore è la concorrenza, il numero di specie a rischio è generalmente inferiore e, spesso, legato a nicchie o microhabitat specializzati. In altri casi, invece, i fattori che determinano la possibile sopravvivenza o scomparsa di specie minacciate vanno ricercati in cause storico-antropiche o corologiche remote. Un habitat interessante è quello dei greti fluviali-torrentizi e in tal caso, oltre ad eventuali escavazioni e danneggiamenti diretti, vanno considerati l’invasione di specie aliene e il passaggio di greggi transumanti che stazionano a lungo generando degrado. Potrebbe sorprendere l’elevata incidenza di specie a rischio che vegetano in ambienti sarchiati e coltivi. Ciò dipende dalla progressiva invasione di neofite (spesso alloctone) che hanno sostituito le cosiddette archeofite legate alle tradizionali colture cerealicole. Il ricorso a forti concimazioni, e ancor più al diserbo selettivo, in aggiunta alla più spinta meccanizzazione, ha radicalmente trasformato le comunità segetali. Altro aspetto da tener presente, a prescindere dalla vulnerabilità intrinseca dei singoli habitat, è relativo all’esistenza di piccole popolazioni situate al margine dell’areale o più o meno fortemente disgiunte rispetto all’areale principale.

Esemplificazioni a livello regionale
Conviene considerare separatamente i diversi territori a seguito di una consolidata tradizione e della presenza di aggiornate banche dati.
Le flore sono tutte di recente pubblicazione e già sopraccitate; in esse si riportano dati che sono più che sufficienti a fornire un quadro aggiornato delle entità rare e della situazione di quelle considerate estinte a livello provinciale. Non è questa la sede per nominarle tutte e qualche esempio è solo indicativo.

Trentino
Tra quelle considerate estinte si richiamano le seguenti.
Helianthemum salicifolium. Annuale, euri-mediterranea, sparita da prati aridi scorticati.
Asperula arvensis. Anch’essa annuale ed eurimediterranea, è segetale scomparsa dai coltivi vernini.
Lycopodium tristachyum. Camefita euroamericana, è stata ricercata invano nelle località in cui era segnalata in radure boschive e brughiere acide.
Hydrocharis morsus-ranae è tipica idrofita, eurasiatica
Anacamptis laxiflora è geofita eurimediterranea di prati umidi-palustri.
Come giustamente si rileva nella più recente Flora del Trentino, le entità estinte a quote superiori ai 1500 m sono soltanto 5 e fra esse è molto verosimile, conoscendo il sito e la sua evoluzione, quello della sparizione di Carex capitata e Carex heleonastes da torbiere in alta Val Duron.
La più elevata concentrazione di specie di lista rossa investe le aree di fondovalle termofile a contatto con zone in cui si pratica agricoltura intensiva. Analogamente anche aree ricche di torbiere quali Madonna di Campiglio, alta Val di Non, altopiano di Piné, Val di Cembra, Passo del Tonale e la sopra menzionata Val Duron risultano fra i siti con maggior numero di entità minacciate.
Quale esempio di CR si richiama il noto caso di Botrychium simplex, che è oltre tutto specie inserita nell’allegato II della direttiva europea conosciuta come “Habitat”.
Dalla recente Flora del Trentino si riportano i seguenti dati. Su un totale di 2563 specie censite, 85 sono CR, 130 EN, 188 VU e le estinte a livello regionale risultano 54.

Alto Adige
Anche senza poter disporre di numeri aggiornati, la situazione è del tutto analoga e le motivazioni identiche.
Fimbristylis annua e Aldrovanda vesiculosa sono esempi di specie scomparse da vari decenni a seguito delle bonifiche e della distruzione di ambienti alluvionali e ripariali.
Restando agli ambienti umidi, ma di quote elevate, Carex maritima e Carex capitata sono validi esempi di specie artico-boreali relitte che sono sopravvissute nelle brughiere subalpine/alpine fino ad oggi, ma che sono sempre più minacciate a causa dell'eutrofizzazione, del disturbo o della distruzione del loro habitat.
Dracocephalum austriacum, estremamente rara e di carattere continentale-steppico, è un esempio di forte declino di una specie di quote collinari-montane a causa delle modificazioni del paesaggio colturale, alle prese tra intensificazione (non tollera concimazioni) e abbandono (in tal caso ingresso di specie legnose e altre più competitive che riducono il suo spazio vitale e modificano i fattori ecologici).
Per Saxifraga facchinii, noto e splendido endemismo dolomitico, che vegeta su rocce e sfasciumi di alta quota, per fortuna meno a rischio nella limitrofa provincia di Trento e in parte anche nel Bellunese, la minaccia più seria è quella legata al cambiamento climatico in atto.
Tra gli habitat più soggetti a rischio e che includono un maggior numero di specie, si segnalano quelli umidi e quelli prativi in generale.
Grazie a una comunicazione personale di Thomas Wilhalm (si sta lavorando a una nuova edizione della lista rossa, presumibilmente entro il 2025), si possono fornire i seguenti dati complessivi. CR 114, EN 172, VU 163, NT 128. Le estinte su base regionale sono state suddivise in 2 gruppi, entrambi comprendenti 38 specie. Quelle considerate definitivamente estinte e le altre “scomparse” mancando segnalazioni negli ultimi decenni.

Friuli-Venezia Giulia
Regione situata all’estremità nordorientale del territorio italiano e ricca di elementi orientali che non superano i confini del Tagliamento o che arrivano fino al Piave con qualche penetrazione in Veneto. Le peculiarità del Carso, oltre che della costiera e della zona delle risorgive, o i magredi del Cellina-Meduna incrementano il valore fitogeografico e sono pertanto numerose le specie da considerare a rischio a livello dell’intero territorio italiano.
Armeria helodes, tipica delle risorgive, steno-endemica ad areale molto ristretto, è a forte rischio di scomparsa per distruzione fisica dell’habitat causata da motivi antropici, ma anche dalla naturale evoluzione (prosciugamento, concorrenza di specie più competitive).
Moehringia tommasinii, con una sola stazione in Italia e altre 3 in Slovenia, vegeta in Val Rosandra ed è fortemente minacciata a causa della palestra di roccia.
Esempio atipico va considerata Epipactis zaupolensis, con un’unica stazione nel pordenonese ai margini di una pioppeta. In tal caso, negli ultimi anni, si è registrata una sorta di proliferazione di nuove entità del gruppo di Epipactis helleborine, la cui consistenza tassonomica meriterebbe ulteriori accertamenti. Anche in Veneto, infatti, vi sono entità con analoghe ristrette popolazioni. Il problema dei gruppi critici si ripropone anche per generi apomittici quali Hieracium, Alchemilla, Taraxacum, Rubus. Essi necessitano di valutazioni che non possono essere utilizzate per fini statistici assieme al resto della florula di un qualsiasi territorio.
La flora regionale consiste in 2957 specie (e 1059 sottospecie) delle quali, rispettivamente, 569 e 77 sono esotiche. I livelli di minaccia interessano le CR (76); EN (86); VU (82); NT (93). Infine, le specie (meglio: taxa) estinte sono ben 243, ma tra esse solo 112 sono autoctone, numero comunque assai elevato. Gli ambienti umidi e acquatici complessivamente ospitano circa il 50% della flora minacciata. Le aree geografiche con maggiore concentrazione di entità a rischio sono il Carso e la Bassa Pianura. Tra le estinte si richiamano Holosteum umbellatum (dal 1956) e Typha minima (dal 1985).

Veneto
Dalle aree lagunari alle Dolomiti, passando attraverso laghi, colline, colture intensive e aree molto antropizzate, la regione è ricca di specie che rientrano nelle categorie minacciate. Il contributo della provincia di Belluno è determinante per le sue peculiari caratteristiche.
In sintesi, riferendosi sempre alla lista del 2016, si annoverano 192 specie CR, 92 EN, 186 VU e 266 NT. Negli ultimi 35 anni le estinte a livello regionale sono 48, numero già indicativo e preoccupante. Tra i casi classificati come RE spicca, ad esempio, Eryngium alpinum che è stato certamente segnalato sia in Comelico (Sappada ora è in FVG) che sul massiccio del Grappa. Si tratta di specie vistosa che non potrebbe passare inosservata e che predilige ambienti prativi ricchi, freschi ma soleggiati, della fascia subalpina. Numerose sono le specie segetali (spesso archeofite) considerate estinte (es. Lolium temulentum) o gravemente minacciate (es. Adonis aestivalis, A. annua e A. flammea). Tra gli habitat più delicati e a rischio, oltre a quelli acquatici e umidi, si annoverano quelli costiero-dunali. In termini assoluti la maggiore percentuale, sia di specie estinte che a vario titolo minacciate, riguarda le formazioni erbose naturali. A seguito degli effetti del cambiamento climatico anche relitti artico-alpini di alta quota vanno considerati fra quelli a maggior rischio di estinzione locale.
All’opposto si può menzionare il caso di Lysimachia tenella, sulle dune di Bibione e nel veronese, quale esempio di una specie a gravitazione atlantica in un contesto fitogeografico nel quale sono assai più numerose le entità il cui areale distributivo insiste sui settori orientali del continente europeo.
Un caso particolare riguarda Gypsophila papillosa, inserita come EN, endemica ad areale assai ristretto con stazioni nel veronese in fascia collinare assai ambita per motivi turistici. Il rischio è altissimo come si evince anche da cronache locali.
Nel caso di una regione composita come il Veneto le differenze, e talora anche discrepanze, sui livelli di minaccia delle singole specie, sono consistenti tra provincia e provincia.

Un occhio al futuro
L’emanazione di normative, sia pure adeguate e aggiornate, non alimenta serie speranze sulla efficace tutela di specie in forte declino. Le misure specifiche su singole entità sono opportune e anche doverose, ma non garantiscono alcun miglioramento automatico dello status delle popolazioni. La tutela degli habitat introduce ulteriori possibilità per evitare il depauperamento del numero degli individui, ma anch’essa non è sufficiente a invertire la tendenza. Risulterà, pertanto, necessario ricorrere, caso per caso, cioè per ogni singola specie a rischio, ad appositi piani che possano prevedere anche interventi di rafforzamento delle popolazioni più deboli. Ciò implica che siano programmati piani di monitoraggio in grado di riscontrare l’andamento delle popolazioni nel corso degli anni senza lasciarsi condizionare da fattori casuali.
Le diverse specie minacciate possono avere esigenze contrastanti, e in alcuni casi essere favorite da modesti disturbi antropici o legati ad attività agrosilvopastorali. Il minimo comune denominatore, per frenare la corsa verso l’impoverimento dei corredi floristici e l’estinzione, è solo uno e teoricamente semplice da attuare: favorire il ripristino degli equilibri ecologici attraverso processi di rinaturazione, limitando al massimo la frammentazione degli habitat e, anzi, intervenendo per assicurare la funzionalità dei corridoi che formano la Rete. Se, in termini generali, è vero che più si lascia agire la Natura e più ci si avvicina alle situazioni ottimali, in molteplici casi è necessario un intervento per rimediare a errori passati o per accelerare processi che avvengono in tempi lunghi.

 

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Ringraziamenti

Per i preziosi suggerimenti, il confronto e la verifica finale sulla validità dei dati qui esposti si ringraziano sentitamente gli amici Fabrizio Martini, Filippo Prosser e Thomas Wilhalm.

Selezione delle immagini

Per TN (foto di Filippo Prosser)

- Helianthemum salicifolium

- Orchis laxiflora (campione di erbario)

Per BZ (Michele Da Pozzo)

- Dracocephalum austriacum

- Carex heleonastes

Per FVG (Michele Da Pozzo)

- Armeria helodes

- Typha minima

Per Veneto (Michele Da Pozzo)

- Adonis annua

- Gypsophila papillosa

Estinzioni e cambiamenti climatici: il caso delle Alpi

Le modificazioni ambientali procedono a un ritmo troppo elevato perché le specie possano applicare meccanismi evolutivi di adattamento

Piero Belletti

Come giustamente ricorda Ferdinando Boero nel suo articolo pubblicato su questo numero di “Natura e Società”, l’estinzione di una specie, di per sé, è un fatto naturale. Così come lo è la morte di un individuo, per quanto dolorosa possa risultare. Lo conferma il fatto che delle numerose specie comparse sul nostro Pianeta (si parla addirittura di alcuni miliardi), la stragrande maggioranza (98-99%) risulti oggi estinta. Quindi una percentuale più alta rispetto a quella circoscritta al genere umano, ove gli individui oggi presenti sulla Terra rappresenterebbero all’incirca il 7% di tutti gli uomini mai vissuti. C’è inoltre da ricordare come spesso l’estinzione di una specie avvenga semplicemente perché le condizioni ambientali sono variate e gli individui hanno accumulato un numero sufficiente di modificazioni genetiche da non poter più essere considerati appartenenti alla specie originaria. È il concetto di “speciazione anagenetica”, in cui una specie si trasforma in un’altra, anche se in lassi temporali molto estesi, per cui la prima, di fatto, può considerarsi estinta. L’esempio forse più famoso riguarda proprio il genere umano, laddove l’Homo erectus (in passato chiamato anche pitecantropo di Giava, mentre oggi spesso lo si definisce Homo ergaster) ha via via assunto le caratteristiche dell’Homo sapiens, in un processo che è durato più di un milione di anni.

Esiste tuttavia un cosiddetto “tasso di estinzione” naturale, che quantifica la dinamica del processo di scomparsa delle specie, quanto meno in condizioni ordinarie. Questo parametro dovrebbe oscillare intorno all’unità per anno e per milione di specie. Ciò significa che, se ipotizziamo un numero di specie attualmente viventi sul nostro pianeta di 10 milioni, se ne dovrebbe estinguere più o meno una decina all’anno. Se invece le estinzioni avvengono con maggior frequenza, significa che è successo qualche evento eccezionale, quale ad esempio la caduta di un asteroide e le modificazioni ambientali da esso causate. Situazioni analoghe si sono già verificate in passato almeno 5 volte, l’ultima delle quali all’incirca 65 milioni di anni orsono, allorquando scomparve il 75% delle specie allora viventi sul nostro Pianeta, tra cui i dinosauri. Come ben sappiamo, oggi stiamo vivendo la cosiddetta “sesta estinzione di massa”, le cui cause però non vanno ricercate in fenomeni astronomici, ma solo nell’impatto delle attività antropiche: c’è chi afferma che oggi si estinguano svariate migliaia di specie all’anno, molte addirittura ancor prima di essere conosciute e classificate. Ma la sesta estinzione di massa non si differenzia dalle precedenti solo per il fattore causale: oggi, a differenza del passato, tutte le specie sono coinvolte dal fenomeno, e non solo, ad esempio, le più grandi o quelle che si nutrono di vegetali, o ancora quelle che abitano una determinata area geografica.

Le cause delle attuali estinzioni sono relativamente ben conosciute e non pare il caso farne, in questa sede, un elenco dettagliato. Ricordiamo solo che, a fianco di quelle intuitivamente più identificabili, ve ne sono altre, più subdole, perché spesso non percepite dai non addetti ai lavori. Tra queste, ad esempio, l’introduzione di specie alloctone, la frammentazione del territorio, le modificazioni climatiche. Ed è proprio di queste ultime che vogliamo trattare in questo articolo, facendo riferimento ad una specifica area geografica, che tra l’altro riguarda da vicino il nostro Paese: la regione alpina. Dove, tra l’altro, gli effetti dei cambiamenti climatici potrebbero risultare più evidenti che altrove, come conseguenza del fatto che già oggi si registrano incrementi di temperature più alti: mediamente 2°C, cioè poco meno del doppio rispetto al pianeta (1,1°C, che a sua volta rappresenta il valore combinato tra 1,6°C di ambienti emersi e 0,9°C di aree coperte dall’acqua).

D’altra parte, i segni del cambiamento climatico in ambito alpino sono già oggi tra i più evidenti: i ghiacciai hanno perso il 60% della loro superficie rispetto al XIX secolo, mentre il loro spessore si è ridotto, mediamente, di ben 34 metri. Ampie porzioni di territorio sono state rese disponibili per l’insediamento della vegetazione, anche se si tratta di un processo che richiede tempi molto lunghi e difficilmente compatibili con la velocità con cui i cambiamenti stanno avvenendo oggi.

Intanto una considerazione generale. Con il cambiamento climatico, e in particolare con l’innalzamento delle temperature (sia medie che intese come valori estremi), la più immediata risposta degli esseri viventi è la migrazione, alla ricerca di condizioni il più possibile simili a quelle preesistenti, cui le specie si erano adattate durante la loro evoluzione. Ciò significa, ad esempio, spostarsi a nord, oppure verso quote più elevate. Ma questo, in ambito alpino, non sempre è possibile: infatti, a prescindere dalla presenza di barriere, sia naturali che artificiali (bacini idrici, insediamenti umani, aree agricole, ecc.), spostandosi verso nord si scende a quote più basse, e ciò annulla il beneficio dell’avvicinamento a regioni più fredde. Anche l’innalzamento della quota cui vivere non sempre è possibile, sia perché anche le montagne, come ogni cosa, hanno un termine, sia perché, alle quote più alte, subentrano altri fattori, quali la ventosità, l’incoerenza del suolo, ecc., che rendono estremamente difficoltosa la sopravvivenza.

Ricordiamo anche come le Alpi siano un vero e proprio scrigno di biodiversità: vi si trovano, ad esempio, ben 13.000 specie di piante, un migliaio delle quali “endemiche”, che cioè non vivono in nessuna altra parte del nostro pianeta. Circa la metà di queste specie sono oggi considerate “a rischio” e se ne ipotizza la scomparsa addirittura entro la fine del secolo. Se, infatti, si concretizzerà lo scenario che prevede un aumento medio di temperatura di circa 3°C entro il 2100, cosa tutt’altro che improbabile, dato l’andazzo attuale…., le piante dovrebbero spostarsi, per trovare condizioni accettabili per la loro sopravvivenza, di 600 km verso nord oppure di 600 m di quota. Tale migrazione, al di là delle considerazioni già viste in precedenza, risulta tuttavia molto improbabile, stante la lentezza con cui le popolazioni vegetali si spostano (o meglio si spostano le generazioni successive), con punte che possono arrivare a un chilometro lineare o pochi metri di quota all’anno nel caso delle popolazioni forestali ma molto, molto di meno per quanto riguarda le specie erbacee. Insomma, le piante alpine presentano uno straordinario adattamento alle difficili condizioni delle alte quote, ma sono scarsamente competitive e molte di loro potrebbero soccombere allorquando specie meno rustiche dovessero salire dalle quote più basse, a loro svolta spinte dalle mutate condizioni climatiche che ovviamente riguardano anche le altitudini inferiori.

Da numerosi studi effettuati in vari istituti di ricerca risulta che non tutte le specie rispondono allo stesso modo ai cambiamenti che si verificano nel loro habitat: nel caso delle specie vegetali, ad esempio, si è osservato che le specie già di per sé rare sono quelle maggiormente esposte al rischio di scomparsa, mentre quelle alloctone rispondono in maniera più rapida ed efficace. Al primo caso si possono, ad esempio, ricondurre numerose specie di orchidee (quali Orchis purpurea e O. morio), le quali necessitano di spazi aperti, come i pascoli semi-naturali, i quali si stanno riducendo per il progressivo abbandono delle attività di pastorizia e che non riescono a formarsi a quote più elevate, dove invece le orchidee tendono a migrare alla ricerca di condizioni climatiche più favorevoli. Un esempio del secondo gruppo è la Buddleja davidii, noto come l’arbusto delle farfalle. Originaria dell’est asiatico, la specie si è diffusa anche nelle nostre zone, invadendo in misura sempre più massiccia aree antropizzate e soprattutto quelle umide lungo i corsi dei fiumi.

Nel complesso, vari studi scientifici hanno ipotizzato che circa un quinto delle specie vegetali alpine potrebbero estinguersi, quanto meno localmente, nel possibile (o forse addirittura probabile) caso di totale scomparsa dei ghiacciai dalle Alpi. Tra queste, specie che potremmo definire “iconiche”, quali il genepì (Artemisia genipi), la Saxifraga bryioides, la sassifraga a foglie opposte (Saxifraga oppositifolia), il billeri pennato (Cardamine resedifolia), il ranuncolo dei ghiacciai (Ranunculus glacialis).

Ovviamente, per gli animali le cose non vanno molto meglio, anche se essi sono decisamente più propensi a muoversi velocemente. Facciamo il caso di uno degli animali simbolo delle Alpi: lo stambecco .Negli ultimi decenni la popolazione di questo superbo animale si è all’incirca dimezzata, soprattutto a causa di una maggior mortalità infantile. Cosa che tra l’altro sembrerebbe un paradosso, viste le condizioni climatiche (temperature miti, scarsa presenza di neve) che caratterizzano con sempre maggior frequenza la stagione invernale e dovrebbero quindi mitigare il più importante fattore naturale limitante le popolazioni. Ma il clima pare c’entri comunque: L’aumento delle temperature, infatti, stimola le piante a vegetare più precocemente che in passato. In questo modo, quando nascono i giovani stambecchi (nei mesi di giugno e luglio) le madri si nutrono di piante che si trovano in uno stadio più “maturo” rispetto al passato, con maggior presenza di fibre ma riduzione nel contenuto proteico. Il latte, quindi, presenta una sostanziale diminuzione del potere nutritivo, per cui la crescita dei capretti risulta rallentata e l’inverno li coglie non sufficientemente irrobustiti.

Cronache della sesta estinzione di massa

Riccardo Graziano

Sull’isola di Mauritius vendono una maglietta con il disegno di una specie di tacchino dall’aria poco sveglia e la scritta “Dodo ile Maurice 1505 – 1681”. Al di là dell’espressione caricaturale dell’animale raffigurato, è uno dei (tanti) esempi dell’incapacità dell’uomo di vivere in sintonia con il pianeta che lo ospita. Nella fattispecie, il 1505 è l’anno della “scoperta” dell’arcipelago delle Mauritius da parte dei colonizzatori occidentali, che fra le altre “risorse locali” vi trovarono appunto il dodo, un gallinaceo che non aveva predatori naturali, per cui era privo della istintiva diffidenza che caratterizza gli animali oggetto di predazione. Questo fattore consentì ai coloni di avvicinarlo senza problemi e, una volta scoperto che le sue carni erano commestibili, di abbuffarsi senza preoccuparsi troppo del calo verticale degli individui. L’eccessivo prelievo venatorio, unito alle altre alterazioni ambientali provocate dai colonizzatori (disboscamento, introduzione di nuove specie animali ecc.) causò l’estinzione del povero dodo, presumibilmente appunto intorno al 1681, meno di due secoli dopo la sua individuazione.

La storia del dodo è il perfetto paradigma della voracità insostenibile con cui divoriamo – in questo caso letteralmente – le risorse messe a disposizione dall’ambiente, a un ritmo ben superiore alla capacità di rigenerazione degli ecosistemi, causando l’estinzione di intere specie in tempi ridottissimi rispetto ai normali cicli naturali. Se i coloni avessero prelevato una quantità di prede inferiore alla capacità riproduttiva di quel lontano parente del pollo, la specie sarebbe giunta fino a noi in carne e ossa, invece che in effigie caricaturale sulle magliette.

Questa è la dimostrazione evidente che la stragrande maggioranza dei cosiddetti “sapiens” sono semplicemente incapaci di vivere in equilibrio con il proprio ambiente, a eccezione di sparuti gruppi indigeni che nell’arco di pochi decenni hanno fatto o rischiano di fare la fine del dodo, sterminati in breve tempo dopo l’incontro con la “civiltà” occidentale. Questa innata vocazione allo sterminio è stata bene evidenziata in un film cult della fantascienza distopica, Matrix, dove uno dei personaggi evidenzia come, a differenza di tutte le altre specie viventi, l’uomo non sappia coesistere in equilibrio con l’ecosistema che lo ospita, perché ogni volta colonizza un ambiente, si  riproduce sfruttandone a dismisura le risorse fino a distruggerlo, per poi passare all’ambiente successivo. Uno schema di comportamento che condividiamo con un solo altro gruppo di organismi: i virus.

Curioso, no? L’essere che si considera la massima espressione dell’evoluzione si comporta come il più basico, un microrganismo che sa solo riprodursi e che anche per questo ha bisogno di un ospite che gli consenta di farlo. Con un’astrazione, potremmo dire che siamo in presenza dell’alfa e dell’omega, la prima e più semplice forma di vita apparsa sulla Terra e l’ultima e più complessa, che si comportano allo stesso modo, quasi a dare il segnale della fine di un ciclo evolutivo, in prossimità di una nuova estinzione di massa.

In termini più concreti, siamo il virus che affligge l’intero pianeta, devastando tutti gli ecosistemi in un delirio di crescita demografica, economica e di prelievo di risorse semplicemente insostenibile. Siamo la causa del declino della biosfera che ci consente di vivere e, conseguentemente, della Sesta estinzione di massa, una falcidie di specie viventi che inevitabilmente finirà per coinvolgere anche noi, andando quasi ad azzerare la vita presente sulla Terra. Il fenomeno è già in corso e sta rapidamente accelerando, in parallelo col surriscaldamento dell’atmosfera e i conseguenti mutamenti climatici, lasciando intuire che il tutto avverrà in tempi relativamente brevi, qualche secolo se siamo fortunati, altrimenti pochi decenni. Tutto questo perché le condizioni climatiche e ambientali, che pure sono già mutate molte volte in passato, in questo momento lo stanno facendo troppo rapidamente per consentire alla stragrande maggioranza dei viventi di adeguarsi. Noi compresi.

Per rimanere sugli esempi delle isole, microcosmi che consentono di visualizzare meglio fenomeni molto complessi, qualcosa di simile è già successo agli abitanti dell’Isola di Pasqua, la più remota in assoluto, in pratica un mondo a sé stante. A furia di disboscare, si arrivò a un punto in cui l’isola era priva di alberi, dunque anche di semi per farli rinascere. Un depauperamento ambientale insanabile, con evidenti conseguenze anche sul microclima. Parallelamente, gli studi hanno evidenziato una ciclica carenza di risorse alimentari, che portava a comportamenti predatori e scontri armati per procurarsi il cibo, fino a punte estreme di cannibalismo. Homo homini lupus, direbbero gli antichi. In presenza di risorse scarse, gli abitanti dell’isola erano spesso in feroce competizione e sull’orlo di un declino demografico fatale.

Oggi, è la Terra intera, piccola isola sferica persa nel cosmo, a sperimentare la carenza di risorse. E l’intera umanità rischia di ritrovarsi nelle condizioni degli sfortunati abitanti dell’Isola di Pasqua, o di fare la fine dei dodo. Ci mettono sull’avviso, tra gli altri, gli esperti che calcolano l’Overshot Day, dicendoci che consumiamo in soli sette/otto mesi le risorse che la biosfera ci mette a disposizione annualmente, grazie al fatto che diamo fondo ai “risparmi” rappresentati dai combustibili fossili e contemporaneamente, con le relative emissioni di anidride carbonica a effetto serra, andiamo a contrarre un debito con l’ambiente che sta diventando insanabile. L’aumento delle temperature conseguente a queste emissioni causa lo scioglimento delle calotte polari e dei ghiacciai alpini, lasciando scoperte porzioni di terra e mare che assorbono maggiormente i raggi solari e dunque si scaldano ancora di più. È un fenomeno che si autoalimenta, esattamente come succede con lo scioglimento del permafrost, lo strato di terreno perennemente ghiacciato che si trova nel sottosuolo delle regioni artiche, che sciogliendosi libera il metano imprigionato in esso, un gas che a sua volta contribuisce ad aumentare il surriscaldamento globale.

L’elenco delle cattive notizie potrebbe continuare, ma ne diamo una buona: la causa di tutto questo disastro è l’uomo, il quale tuttavia sa perfettamente cosa deve fare per rimediare. La pessima notizie è che non lo stiamo facendo, o comunque non abbastanza in fretta. Anzi, ancora in troppi, per interesse o ignoranza, si adoperano per peggiorare la situazione. Molti di questi sono anche al governo dei rispettivi Stati e il rischio è che alle prossime elezioni europee prendano anche il controllo dell’UE, vanificando quel poco che finora si era cercato di fare con i soldi del New Green Deal.

I dati scientifici, le tendenze e le previsioni non lasciano dunque spazio all’ottimismo, a meno che a breve non cambino radicalmente cultura, politica, economia, strategie energetiche e processi industriali. Tutte cose di cui al momento non si vede traccia. In compenso, facciamo progressi velocissimi nel campo dell’intelligenza artificiale. Chissà, forse stiamo preparando la nostra successione, la forma di vita destinata a sostituirci dopo l’estinzione, proprio come nei film di fantascienza distopica. E magari, fra qualche decennio, un robot umanoide si recherà in vacanza a Mauritus e troverà una maglietta con l’immagine di un ominide dall’aria poco sveglia e la scritta “Homo Sapiens pianeta Terra Neolitico – XXI secolo”

Le dune, un ambiente in via di estinzione

Bruno Massa
già Professore di Entomologia, Università di Palermo

Uno degli ecosistemi più fragili del Mediterraneo è quello delle coste sabbiose, dune ed ambienti retrodunali, che, particolarmente in Italia, può essere considerato in via d’estinzione, con le specie che lo abitano. Chi ha visitato negli anni ’70-80 del secolo scorso le coste sudorientali della Sicilia, tra la provincia di Caltanissetta e quella di Ragusa, e dovesse ritornarci oggi, non potrebbe assolutamente riconoscere i luoghi un tempo caratterizzati da splendide dune, profonde centinaia di metri, coperte da una fitta e caratteristica vegetazione, un vero e proprio ‘patrimonio naturale inestimabile’. Il 10 agosto 1973 il giornalista Bazzoni aveva scritto un bell’articolo nel Corriere della Sera, parlando proprio degli ambienti dunali della Sicilia: «Una costa, quella tirrenica è irrimediabilmente perduta, quella jonica si sta perdendo, quella meridionale non si deve perdere. È doloroso dirlo, ma in un Paese che non sa governare il proprio territorio, la sopravvivenza di aree naturali dipende poco da una scelta consapevole, molto dalla mancata scoperta da parte degli speculatori e molto dalla miseria degli abitanti». Queste parole potevano applicarsi bene a qualsiasi regione meridionale d’Italia; sono passati cinquant’anni e l’emergenza ambientale è certamente oggi più esasperata di allora perché le aree naturali esteticamente appetibili sono state scoperte e la miseria quasi non è più di casa in Italia. E la situazione delle tre coste siciliane è cambiata, nel senso che la più devastata dall’abusivismo e dalla serricoltura è proprio quella meridionale.

Oggi quei luoghi sono ricoperti prevalentemente da chilometri quadrati di plastica, sotto cui sono coltivati ortaggi per gran parte dell’anno, sono soggetti ad altissimo inquinamento di natura chimica per l’uso più o meno necessario di fitofarmaci e hanno perso qualsiasi richiamo estetico, anche per il materialista più convinto. Le aree meno vocate alla serricoltura sono ricoperte da case, costruite senza un disegno logico, prodotto di un incontrollato sfruttamento delle risorse naturali ed un’inattesa disponibilità economica derivante dalla produzione serricola. Quei luoghi possono essere considerati un emblema della degradazione ambientale; è vero che i conti correnti locali si sono rimpinguati, ma questo vale anche per chi sfrutta la foresta amazzonica. Nel 2002 è stato stampato uno dei Quaderni Habitat editi dal Ministero dell’Ambiente dal titolo ‘Dune e spiagge sabbiose’. Nell’introduzione Paolo Audisio scriveva: «Le spiagge e le dune costiere e subcostiere e gli ambienti umidi limoso-sabbiosi retrodunali e litoranei ad esse spesso associati rappresentano, su scala mondiale, ecosistemi tra i più vulnerabili e più seriamente minacciati». Il libretto riportava già numerose allarmanti informazioni sulla richiesta di uso improprio delle dune e delle spiagge da parte dell’uomo, soprattutto per il dilagante turismo di massa che ha interessato l’Italia già dalla fine del secolo scorso.
 
Eppure almeno tre tipi di dune presenti in Italia sono considerati habitat prioritari dalla Direttiva Habitat 92/43; poiché rischiano di scomparire, l’Unione Europea ha una responsabilità particolare. Molti di questi sono rientrati nei Siti di Interesse Comunitario, oggi definitivamente dichiarati Zone Speciali di Conservazione. Mettere sigle agli ambienti non servirebbe a nulla se dietro non ci fosse l’impegno degli Stati membri di tutelare quegli habitat; eppure molte dune vengono placidamente spianate dalle ruspe ogni anno, dietro incarico da parte di alcuni Comuni, che hanno interesse a far crescere il turismo a casa loro. La tutela ambientale è all’ultimo posto nella testa degli amministratori locali, loro badano solo alle entrate per il Comune.  
E non basta; negli ultimi anni sono stati realizzati nelle spiagge persino concerti. Nel 2019 e nel 2022 il cantante Jovanotti ha organizzato il Jova Beach Party, un tour di concerti in diverse spiagge italiane. La giornalista Sabrina Giannini ha scritto un competente attacco contro questa iniziativa, spiegando che è ipocrita far passare per green questa iniziativa distruttiva di ambienti naturali. Inoltre ha fornito informazioni supplementari sugli sponsor organizzatori e sul ‘falso green’ che li caratterizza. Nel 2019 durante il Jova Beach Party di Rimini è scomparsa una delle poche coppie di fratino Charadrius alexandrinus, un uccello limicolo considerato a rischio; su questo Jovanotti ha ironizzato alla radio, mostrando scarsa sensibilità. Lo stesso Jovanotti su Facebook ha definito ‘econazisti’ tutti quegli ambientalisti contrari ai suoi concerti in spiaggia. Sulla problematica è intervenuto autorevolmente anche Mario Tozzi, noto geologo e divulgatore scientifico, in una lettera aperta indirizzata proprio a Jovanotti e pubblicata su La Stampa, in cui correttamente ha sostenuto che ‘i concerti con cinquantamila persone non sono sostenibili da alcun sistema naturale’.

A distanza di 50 anni, l’editoriale di Fabio Modesti del 13 settembre 2023 del Corriere del Mezzogiorno, pubblicato a Bari, riporta ancora tristi notizie: la legge regionale pugliese n. 32/2022 dà in concessione le dune ai privati gestori di stabilimenti balneari, con la giustificazione che i Comuni con le proprie risorse non riescono a tutelarle. Tuttavia la stessa legge destina ai Comuni 100 mila euro nel 2023 per la medesima finalità. Spesso capita che nelle amministrazioni pubbliche la mano destra non sa cosa sta facendo la mano sinistra!
Esistono numerose liste rosse di specie in via di estinzione; nella maggior parte dei casi la minaccia dipende dalla degradazione dell’habitat. Forse sarebbe meglio realizzare una graduatoria degli habitat in via di estinzione, perché distruggendo questi si distruggono anche le specie vegetali e animali che vi vivono.

E ancora Valentino Valentini nella rivista Ambiente & Salute ed Enrico Galiano nel sito web Il Libraio.it hanno fatto presente che in questo caso vi sono effetti a cascata diretti e indiretti: quelli diretti si possono sintetizzare nel calpestio della spiaggia e di tutte le sue componenti animali e vegetali da parte di migliaia di piedi, quelli indiretti sono rappresentati dal messaggio di indifferenza verso la natura, di diseducazione verso i giovani, di errate priorità che si condensa in una perdita di speranza di cambiare realmente qualcosa nella mentalità dei giovani. L’educazione ambientale certamente i giovani non la ricevono nelle scuole e nella maggior parte delle università, i messaggi di indifferenza e di mancato rispetto verso la natura sono continui, cosa possono recepire i più giovani, come possono capire cosa è corretto e cosa non lo è? In risposta Jovanotti ha promesso che riprenderà i tour nelle spiagge nel 2024; c’è già una fila di Comuni disposta a ospitarlo.
Purtroppo, come si diceva sopra, i Comuni sono impegnati a fare cassa e non fanno granché a favore dell’ambiente, per cui in genere intervengono alcuni movimenti ambientalisti, definiti da chi non ha argomentazioni scientifiche ‘esponenti del radicalismo ambientalista’ o peggio ‘radical-chic’, espressione usata nel 2022 persino da un ministro della Repubblica Italiana. I movimenti ambientalisti sono additati dai politici come quelli che sono contrari a tutto, che dicono sempre di no; è ovvio che se la domanda posta è irricevibile la risposta sarà sempre no, lo capirebbe anche un bambino.